Commento all’art. 9 l.r. n. 14/2017

di Patrizia Petralia e Angelo De Zotti

Art. 9

Politiche per la qualità architettonica, edilizia ed ambientale, per la riqualificazione e per la rigenerazione

1. La qualità architettonica si persegue mediante una progettazione che, recependo le esigenze di carattere funzionale, formale, paesaggistico, ambientale e sociale poste alla base dell’ideazione e della realizzazione dell’opera, garantisca l’armonico inserimento dell’intervento nel contesto urbano o extraurbano, contribuendo al miglioramento dei livelli di vivibilità, fruibilità, sicurezza, decoro e garantendone il mantenimento nel tempo.

2. La Giunta regionale:

a) promuove la qualità edilizia e diffonde la conoscenza delle buone pratiche attraverso il sito istituzionale della Regione e con iniziative specifiche, avvalendosi della collaborazione e del contributo attivo di università, enti di studio e centri di ricerca, associazioni professionali, imprenditoriali e culturali;

b) incentiva la promozione dell’edilizia sostenibile di cui alla legge regionale 9 marzo 2007, n. 4 “Iniziative ed interventi regionali a favore dell’edilizia sostenibile”;

c) promuove ed attiva concorsi di idee e laboratori di progettazione, in collaborazione con i soggetti qualificati di cui alla lettera a);

d) definisce parametri di eco-sostenibilità degli interventi di riqualificazione urbana e di rigenerazione urbana sostenibile, con particolare riguardo al risparmio energetico degli edifici, alla riduzione delle superfici impermeabili, al potenziamento ed all’efficientamento delle reti tecnologiche, alla riduzione dell’inquinamento atmosferico;

e) incentiva l’elaborazione di una pianificazione volta alla diffusione e all’applicazione delle buone pratiche per la valorizzazione del verde urbano e, in generale, degli spazi urbani aperti, pubblici e privati, nonché per la realizzazione di boschi cittadini;

f) riconosce ai piani ed ai progetti che abbiano contenuti particolarmente qualificanti ed innovativi per qualità edilizia ed ambientale la possibilità di fregiarsi dello stemma e del logo della Regione di cui all’articolo 42 della legge regionale 23 aprile 2004, n. 11, e valorizza tale riconoscimento fra i criteri per l’assegnazione di eventuali finanziamenti, premi e incentivi, regionali o a regia regionale, nel campo della pianificazione urbanistica e territoriale, dei programmi di rigenerazione urbana sostenibile e della progettazione.

3. Ai comuni, che prevedono azioni per la realizzazione di interventi di rigenerazione urbana sostenibile nonché di interventi volti a favorire l’insediamento di attività agricola urbana e il ripristino delle colture nei terreni agricoli incolti, abbandonati, inutilizzati o, comunque, non più sfruttati ai fini agricoli, è attribuita priorità nella concessione di finanziamenti regionali in materia di governo del territorio. Il medesimo ordine di priorità è riconosciuto anche a soggetti privati che effettuano interventi di recupero di edifici e di infrastrutture nei nuclei insediativi in zona agricola, nonché il recupero del suolo ad uso agricolo mediante la demolizione di opere incongrue o di altri fabbricati rurali abbandonati.

4. I comuni per lo svolgimento delle azioni di cui al comma 3 possono stipulare convenzioni con gli imprenditori agricoli ai sensi dell’articolo 15 del decreto legislativo 18 maggio 2001, n. 228 “Orientamento e modernizzazione del settore agricolo, a norma dell’articolo 7 della legge 5 marzo 2001, n. 57”.

L’esordio dell’articolo in commento ha in sé qualcosa di poetico, fa tornare in mente i versi di antichi testi di bucolica memoria virgiliana: “Tytyre, tu patulae recubans sub tegmine fagi silvestrem tenui Musam meditaris avena; nos patriae finis et dulcia inquimus arva, nos patriam fugimus; tu, Tityre, lentus in umbra formosam resonare doces Amaryllida silvas.

L’idea di opere armonicamente inserite nel contesto urbano ed extraurbano, che nel tempo garantiscano vivibilità, fruibilità, sicurezza e decoro, ci riporta a tempi in bianco e nero, in cui i quartieri delle nostre città -per quanto privi di negozi luccicanti e griffati e di centri commerciali grandi come città- non erano ancora soffocati dal traffico e dal parcheggio selvaggio in tripla fila, da plurimi contenitori per le raccolte differenziate, da folle di persone che si muovono in folti gruppi, incrociandosi spesso indifferenti gli uni altri. I negozi, essenziali e sobri, erano punti di socializzazione e di incontro di persone che nel quartiere si conoscevano; al bar il barista parlava il tuo dialetto e serviva un buon e tradizionale espresso italiano.

Quanto suolo è stato consumato da allora e quanto prezioso ambiente distrutto, sacrificato in nome del consumistico progresso!

Con la nuova legge si introducono invero concetti già presenti nella normativa regionale pregressa, anche se gli stessi nel 2004 venivano presentati come meri principi cui i Comuni e la Regione si dovevano ispirare; oggi il processo di revisione ispirato ad una nuova coscienza delle risorse territoriali ed ambientali, diviene urgente.

Proponendo una sintetica comparazione con l’analoga legge n. 31/2014 della Regione Lombardia, ciò che appare evidente e merita una sottolineatura è lo sviluppo che il legislatore veneto intende imprimere alla finalità, comune alle due leggi sul contenimento del consumo del suolo, al fine non solo di riassumerne gli obiettivi, ricompresi nel termine “Politiche per la qualità architettonica, edilizia ed ambientale, per la riqualificazione e per la rigenerazione”, ma per far comprendere che la riduzione del consumo del suolo non è il fine unico della legge, ma che l’obiettivo è più ampio e comprende la ristrutturazione, la rigenerazione e la riqualificazione di tutto l’ambiente costruito: in una parola l’obiettivo vero e ambizioso che la legge veneta intende perseguire è non solo di ridurre il consumo del suolo ma, in tutti i modi possibili, la restituzione del suolo consumato, se possibile, alla sua condizione originaria di superficie agricola, ovvero alla sua rigenerazione, in modo da raggiungere un bilancio ecologico tendenzialmente pari a zero tra consumo e ripristino.

L’obiettivo dello zero relativo, inteso come sopra descritto, appare infatti certamente più realistico e meglio perseguibile di quello che affida allo zero assoluto di consumo di suolo, il risultato finale da perseguire entro il 2050.

Ecco perché la legge regionale veneta interviene ambiziosamente (qualcuno ritiene già troppo) su più piani: da un lato con norme che indirizzano le scelte amministrative verso il pur lontano obiettivo europeo di azzeramento del consumo del suolo non ancora urbanizzato, attraverso la programmazione regionale e comunale, dall’altro orientando le amministrazioni locali e gli operatori del settore verso la rigenerazione urbana, la riqualificazione del patrimonio edilizio esistente e lo sviluppo di tipologie edilizie ed uso di materiali ecocompatibili di ultima generazione, a basso impatto energetico ed ambientale.

La rubrica dell’articolo 9 in commento “Politiche per la qualità architettonica, edilizia ed ambientale, per la riqualificazione e per la rigenerazione” preavvisa che la norma contiene una disciplina di peso e quindi decisiva per le future scelte politiche di governo del territorio.

Le disposizioni regionali precedenti avevano già tracciato, almeno negli obiettivi, il percorso che la nuova legge intende concretamente intraprendere: programmazione dell’uso del suolo, riduzione progressiva e controllata della copertura artificiale, tutela del paesaggio, delle superfici agricole e forestali e delle loro produzioni e delle reti ecologiche, promozione e salvaguardia della biodiversità, azioni dirette alla rinaturalizzazione di suolo impropriamente occupato, riqualificazione e rigenerazione degli ambiti urbani e utilizzo di nuove risorse territoriali, solo quando non esistano alternative alla riorganizzazione e riqualificazione del tessuto insediativo esistente, finalità quest’ultima già formalmente presente nella legge regionale n. 11/2004.

L’art. 4 della l.r. n. 14/2017 “Misure di programmazione e di controllo sul contenimento del consumo del suolo”, al quale l’art. 9 implicitamente si riferisce, in particolare prevede l’assunzione, da parte della Giunta regionale, entro 180 giorni dalla entrata in vigore della legge, di un atto fondamentare per l’operatività della normativa appena introdotta, trattandosi dell’atto che dovrà fissare, nel periodo di riferimento, la quantità massima di consumo del suolo ammessa nel territorio regionale e la sua ripartizione per ambiti comunali o sovracomunali omogenei.

Alla Giunta regionale viene affidato il compito decisivo di raccogliere tutti i dati utili per determinare la quantità di suolo consumabile nel periodo prefissato di cinque anni, nella prospettiva già evidenziata di raggiungere il traguardo previsto dalla Commissione europea di giungere entro il 2050 a una occupazione netta di terreno pari a zero.

Con l’articolo in commento vengono invece determinati i principi, gli obiettivi e gli strumenti per realizzare il secondo scopo, ulteriore ma non meno rilevante, della legge, rispetto al risparmio di territorio, vale a dire quello della rigenerazione e del riuso dell’edificazione preesistente, creando le basi per progettare la nuova edilizia regolata da tecniche e materiali di ultima generazione, secondo le migliori prassi già utilizzate nelle belle, ordinate ed ecocompatibili smart cities del nord Europa ( esempio noto per tutte la città di Friburgo). Questo obiettivo si coniuga, e in questo senso è stato già definito come assolutamente complementare, con quello del risparmio del suolo, perché solo se si conseguirà l’obiettivo del riuso attraverso la riqualificazione di immobili inutilizzati o obsoleti, e in senso più ampio, la rigenerazione ambientale, sarà possibile contenere la richiesta di nuove aree edificabili.

Risparmiare vuol dire infatti, come ricordato nella premessa al presente commento, utilizzare bene il patrimonio disponibile.

Questo obiettivo prioritario che il legislatore, al comma 2, affida alla Giunta regionale, quantunque non preveda una tempistica definita e stringente (180 giorni dall’entrata in vigore della legge ex art. 4 della legge), presuppone nondimeno che i soggetti istituzionali cui compete avviare tale percorso, si attivino immediatamente.

Per dare un’idea della complessità del compito si segnala che l’analoga legge lombarda n. 31/2014, dopo tre anni dall’avvio dello stesso progetto, non ha ancora visto la conclusione di tale fase, che dopo gli ultimi aggiornamenti è stata fissata al 31 dicembre 2017, dilatando in pari misura l’applicazione della disciplina transitoria.

In tal senso la normativa urbanistica del Veneto sembra tuttavia affidata a disposizioni che potrebbero ridurre i tempi rispetto al modello lombardo, basato sulla revisione del piano territoriale regionale (PTR) che prevede fasi di osservazioni, concertazione e pubblicazione di criteri, indirizzi e linee tecniche per determinare e quantificare gli indici di misura del consumo di suolo nel territorio regionale lombardo.

In ogni caso il legislatore regionale, pur contando sul rispetto dei termini di approvazione della DGR, all’art. 13 comma 8^ ha nondimeno previsto che, ove tale provvedimento non sia emanato nel termine di 180 giorni, la percentuale fissata nella misura del 30% della capacità edificatoria assegnata dai PAT, in deroga al divieto di consumo di suolo stabilito dal 1^ comma, viene aumentata di un ulteriore 20%; il che significa che, scaduto quel termine, il divieto di consumo di suolo viene sostanzialmente derogato nella misura non trascurabile del 50%.

Soluzione assai discutibile perché è evidente che anziché operare in senso ulteriormente restrittivo, la norma allarga le maglie della deroga, risolvendosi in una sanzione a carico del territorio da salvaguardare.

Passando al commento sintetico del commi 2 lettere a) b) c) d) e) f) si può segnalare quanto segue:

In generale, il contenuto delle lettere a) b) c) d) e) f) non appare particolarmente innovativo rispetto alle norme precedenti, sia della legge regionale n.11/2004 (cfr. art. 13 contenuti del PAT, art. 17 contenuti del PI; art. 24 contenuti del PTRC; art. 36 riqualificazione ambientale e credito edilizio, art. 37 compensazione urbanistica, art. 43 e seguenti riguardanti l’edificazione nel territorio agricolo e art. 46 sull’attività di indirizzo regionale) sia della l.r. 4/2007 rubricata “Iniziative e interventi regionali a favore dell’edilizia sostenibile”.

Il comma 3 e il comma 4 contengono invece previsioni più concrete, rispetto al comma 2 essenzialmente costituito da principi, prevedendo la possibilità che i Comuni ottengano finanziamenti regionali sia per progetti di rigenerazione urbana sostenibile, per l’incentivazione allo sfruttamento agricolo anche attraverso il ripristino di colture in terreni incolti ed abbandonati che per l’insediamento di attività agricola urbana (orti cittadini, agricoltura in balconi e terrazze agricoltura idropinica).

Un esempio interessante e emblematico è, a questo proposito, il palazzo ‘verde‘ ideato dallo studio di Stefano Boeri nella zona dei Giardini di Porta Nuova a Milano, noto come “il bosco verticale” e riconosciuto come uno dei progetti più innovativi del recupero urbano milanese.

Nell’ambito di tale complessiva attività di promozione e di incentivazione viene attribuita priorità di finanziamento a progetti di soggetti privati che abbiano la finalità di recuperare edifici infrastrutture in nuclei in zona agricola, ovvero il recupero di suolo ad uso agricolo attraverso la demolizione di opere e fabbricati abbandonati o non più funzionali all’uso per cui erano stati realizzati.

Il Veneto, come noto, dispone sul territorio di molti edifici, specie capannoni, inutilizzati perché frutto di mere operazioni speculative che la crisi economica ha reso infruttuose, che potrebbero riacquistare valore attraverso progetti di recupero intelligenti ed innovativi ascrivibili ai tanti nostri professionisti, cui non fa certamente difetto preparazione tecnica e fantasia innovatrice.

Infine, il comma 4^, ispirato all’orientamento e alla modernizzazione del settore agricolo verso fini non meramente utilitaristici di produzione alimentare ma volti alla fondamentale e insostituibile funzione di salvaguardia dei territori del nostro paese, a norma dell’art. 7 della l. 57/2001, prevede la possibilità che i Comuni stipulino, per tali finalità, convenzioni con gli imprenditori agricoli che quegli scopi si impegnino a perseguire.

E’ dunque scaduto il tempo in cui si consumava il suolo e si costruiva per l’effimero bisogno del momento, senza riguardo alcuno agli impatti sull’ambiente, sugli equilibri idrogeologici, sul clima e in generale sull’ecosistema dell’intero pianeta?

Le intenzioni sono certamente queste, sia pure con obiettivi non sempre immediati, ma l’esperienza del passato suggerisce di mantenere tuttora l’uso del condizionale.

Non si tratta quindi né di assecondare quella forma di pessimismo cosmico che nasce dalle tante illusioni del passato né di lasciarsi trascinare dall’enfasi che gli obiettivi estremamente ambiziosi della legge qui commentata lasciano intravedere “a portata di mano”.

La cautela resta quindi d’obbligo!

Quantomeno si può convenire che con questa legge il Veneto ha preso atto che non è più possibile urbanizzare senza una pianificazione dei rischi idrogeologici, senza rinforzare le difese naturali della piantumazione e della cura dei terreni boscati urbani ed extra urbani, senza una valutazione dell’esistente e del suo opportuno riuso, senza il necessario cambiamento di mentalità che conduce ad un più intelligente e razionale utilizzo dell’edificato esistente.

Gli articoli di stampa, i commenti e le interviste a rappresentanti delle diverse categorie interessate, inducono a pensare che l’attuazione della legge non sarà così celere come l’obiettivo richiederebbe e l’esempio lombardo sembra confermarlo.

Si sente parlare già di necessità di “approccio graduale al problema “, di “diritti acquisiti”, di “fasi di monitoraggio” e di “misure prudenti e graduali”.

L’articolo 9, pur tenendo conto dell’eterno rapporto dialettico tra sviluppo economico e tutela dell’ecosistema ambientale, non può tuttavia essere interpretato come un manifesto astratto di scelte future.

Lo sviluppo urbano sostenibile ed il reale miglioramento della qualità della vita in Veneto, impongono ormai impegni e scelte pronte, concrete ed efficaci.

È stato detto che per l’ambiente non c’è più tempo per le regolazioni transitorie: la cura non può essere omeopatica, siamo alla chirurgia d’urgenza.

Commento all’art. 8 l.r. n. 14/2017

Art. 8

Interventi di riuso temporaneo del patrimonio immobiliare esistente

1. Al fine di evitare il consumo di suolo e favorire la riqualificazione, il recupero e il riuso dell’edificato esistente, il comune può consentire l’uso temporaneo di volumi dismessi o inutilizzati ubicati in zona diversa da quello agricola, con esclusione di ogni uso ricettivo.

2. I progetti di riuso mirano preferibilmente a sviluppare l’interazione tra la creatività, l’innovazione, la formazione e la produzione culturale in tutte le sue forme, creando opportunità di impresa e di occupazione, start up. In particolare sono considerate funzioni prioritarie per il riuso:

a) il lavoro di prossimità: artigianato di servizio all’impresa e alle persone, negozi temporanei, mercatini temporanei, servizi alla persona;

b) la creatività e la cultura: esposizioni temporanee, mostre, eventi, teatri, laboratori didattici;

c) il gioco e il movimento: parchi gioco diffusi, attrezzature sportive autogestite, campi da gioco;

d) le nature urbane: orti sociali di prossimità, giardinaggio urbano collettivo, parchi urbani.

3. Il riuso temporaneo è consentito anche nel caso in cui l’uso richiesto sia diverso dal precedente o da quello previsto dallo strumento urbanistico, per una sola volta e per un periodo di tempo non superiore a tre anni, prorogabili di altri due, dalla data di agibilità degli immobili oggetto di intervento.

4. Il comune, a seguito di specifica proposta da parte dei proprietari o dei soggetti aventi titolo, può autorizzare l’uso temporaneo di singoli immobili, stabilendo con apposita deliberazione:

a) il nuovo utilizzo ammesso, nel rispetto delle normative in materia di sicurezza negli ambienti di lavoro, di tutela della salute e della incolumità pubblica e delle norme igienico sanitarie e dell’ordine pubblico;

b) gli utilizzi e le modalità d’uso vietate e quelle che possono creare situazioni di conflitto, tensione o pericolo sociale, o arrecare disturbo agli insediamenti circostanti; la violazione del divieto di tali utilizzi e modalità comporta la immediata sospensione della autorizzazione;

c) il termine per l’utilizzo temporaneo, che non può in ogni caso essere complessivamente superiore a cinque anni.5.

5. Il comune autorizza il riuso temporaneo previa presentazione di un progetto di riuso e la sottoscrizione di una convenzione approvata dal Consiglio comunale nella quale sono precisati:

a) le condizioni per il rilascio degli immobili alla scadenza del termine fissato per l’utilizzo temporaneo;

b) le sanzioni a carico dei soggetti inadempienti;

c) le eventuali misure di incentivazione, comprese quelle di natura contributiva, nel caso di immobili privati messi a disposizione del comune;

d) le dotazioni territoriali e infrastrutturali minime necessarie e funzionali all’uso temporaneo ammesso, con particolare riferimento all’accesso viabilistico e ai parcheggi;

e) le altre condizioni e modalità necessarie a garantire il raggiungimento delle finalità di cui al comma 1.

6. I comuni pubblicano nel sito internet del comune l’elenco dei “Luoghi del Riuso”, in cui sono riportate le aree e i volumi autorizzati al riuso temporaneo, con i progetti di riuso e le relative convenzioni, e lo trasmettono alla Giunta regionale entro il 31 dicembre di ogni anno.

Sommario: 1. Dalle destinazioni d’uso agli usi temporanei (B. Barel)2. Il riuso temporaneo (D. Gerotto)3. La Valorizzazione Immobiliare e la Rigenerazione Urbana tramite gli usi temporanei degli immobili (A. Balduzzi)4. Il valore del “Temporiuso” (C. Bertorelli).

1. Dalle destinazioni d’uso agli usi temporanei

Anche l’attività normativa può avere dei momenti di creatività. È il caso di questa disposizione, che non figurava nei disegni di legge originari confluiti nel testo di sintesi ma che è stata felicemente inserita in dirittura d’arrivo, mediante un emendamento dell’ultimo minuto ampiamente condiviso dal consiglio regionale e auspicato anche da tutti i commentatori di questo articolo.

Al di là del dettato letterale, che ha inevitabilmente risentito dei tempi ristrettissimi dei lavori conclusivi, è la sostanza che conta e che fa la differenza. Si tratta infatti di un’assoluta novità non solo per la legislazione regionale del Veneto ma anche per la legislazione in genere, statale e di altre regioni.

La disciplina urbanistica è infatti prigioniera da oltre cinquant’anni del mito dello zooning, delle destinazioni d’uso degli immobili tipizzate dalla legge e disegnate dagli atti di pianificazione in una griglia sempre più rigida e sempre più datata. Destinazioni d’uso assunte a presupposto per la determinazione degli standard e dei contributi di costruzione, perimetrate con parole sempre più anacronistiche e insignificanti al mutare dell’economia, della società e dei lavori. Parole spesso usate con libertà e vaghezza dai pianificatori, compiaciuti dal fascino esercitato da espressioni accattivanti quanto vacue e polivalenti come “parco tecnologico” o come “zone produttive e terziarie”.

Fino a degenerazioni ridicole, come nel caso di imprenditori brillanti insediati in origine in zone artigianali e colpevoli di essere poi diventati industriali, in contrasto con la destinazione di zona, o come nel caso di officine divenute pian piano concessionarie di autoveicoli e perciò meritevoli di essere sfrattate dalle zone produttive siccome degenerate in attività commerciali.

Se nei decenni dell’espansione edilizia poteva apparire ragionevole indirizzare l’insediamento delle imprese in ambiti selezionati del territorio comunale, a protezione del tessuto edilizio consolidato e degli spazi agricoli e aperti, secondo vocazioni che sembravano stabilmente tipizzabili, già non lo era più agli inizi di questo secolo, tanto che la riforma urbanistica veneta del 2004 ha rimesso ai piani territoriali provinciali la funzione di inventariare le aree produttive disperse e di segnarne la sorte, distinguendo quelle meritevoli di espansione da quelle ormai esaurite e ancor più da quelle da sopprimere prima possibile.

Ma la crisi economica dell’ultimo decennio è stata più veloce ed efficace della pianificazione territoriale. E, forse più ancora della crisi, è la nuova economia post-globalizzazione a far intuire scenari radicalmente diversi, nei quali cerca una ridefinizione lo stesso rapporto fra spazio e lavoro, fra contenitore e contenuto. Basta osservare i giovani creativi ospiti degli “incubatori” di start-up per capire come la loro idea di ufficio o di laboratorio sia talora radicalmente diversa da quella tradizionale.

La crisi del tessuto produttivo tradizionale e lo svuotamento dei capannoni disseminati nel territorio regionale non sono che un pallido riflesso del cambiamento radicale in atto delle forme del lavoro, dei servizi necessari alla nuova economia, della nuova domanda di dare senso e intensità e significato e emozioni al tempo libero, dell’aspirazione sempre più diffusa ad una qualità di vita diversa dal passato, ad una diversa modulazione del proprio tempo e dei propri ritmi di vita.

Che ne sarà allora degli scheletri della vecchia economia, dei capannoni ancora soggetti a pesante tassazione, come se fossero ancora segni tangibili di redditività e non invece fardelli pesanti generatori di oneri, fiscali e manutentivi, di premi assicurativi e di costi di guardiania?

La nuova domanda della nuova economia guarda da tutt’altra parte. Cerca manufatti di grandi e grandissime dimensioni, adatti alla logistica più che alla produzione, prossimi alle grandi vie di comunicazione, localizzati in punti strategici rispetto ai bacini di interesse, adeguati alle più recenti normative tecniche e di sicurezza, dotati di impiantistica al passo coi tempi.

Che fare, dunque, per evitare che il territorio veneto diventi un cimitero di ruderi industriali fatiscenti, con evaporazione di investimenti e tracollo di bilanci aziendali, senza neppure quel malinconico oblio che velava le rovine di Roma antica vegliate da pecore e capre nelle struggenti stampe del Piranesi?

Due sono le carte che gioca il legislatore regionale per salvare il salvabile, complementari fra loro e rimesse al coraggio delle scelte difficili e pragmatiche. L’una è la demolizione, apparentemente traumatica ma in realtà lungimirante. Ciò che è inutile, è spreco per tutti: per il paesaggio e il territorio, per la proprietà destinata a sopportare oneri e rischi senza prospettive positive. La demolizione finisce allora col rivelarsi liberatoria: fa cessare costi improduttivi, rimette in gioco uno spazio libero e come tale suscettibile di essere reinterpretato e rivissuto, magari per accogliere un vigneto o un parco giochi o un noceto o un maneggio: beni oggi preziosi e spesso generatori di valore.

L’altra carta, la prima da giocare per i manufatti in migliori condizioni, è offerta dalla disposizione in commento: ridare un senso, nuovo e imprevedibile, a manufatti costruiti per le attività produttive, aprendoli alla creatività dei giovani e alla loro re-interpretazione della vita e del lavoro e dei servizi e del tempo libero. Gli usi temporanei non hanno nome, tipicità, stabilità, prevedibilità: sono un’espressione tutta da riempire di contenuti secondo l’energia creativa dei giovani e dei meno giovani dal pensiero giovane. Nessuna variante urbanistica da chiedere ai Comuni e da rimettere a faticosi e lenti procedimenti; nessun contributo da pagare per mutamenti di destinazione d’uso. La disposizione consente ai Comuni, mediante semplici accordi tra privati e consiglio comunale, di provare a riempire di idee nuove scatole edilizie nate per un altro mondo. È una sfida: il Consiglio comunale “può” autorizzare, per un massimo di cinque anni, gli usi previsti da progetti presentati dai proprietari o anche da altri soggetti, d’intesa ovviamente con i proprietari. La convenzione ha un ampio spazio d’azione, può prevedere sanzioni in caso di inadempimento, può esigere un minimo di opere come accessi e parcheggi o infrastrutture indispensabili in rapporto allo specifico uso proposto. Ma non sono imposti standard particolari, né opere che non siano indispensabili per rispettare le normative statali e regionali preposte alla salvaguardia di valori superiori, dalla sicurezza del lavoro alla tutela della salute e naturalmente della pubblica incolumità, alle esigenze igienico-sanitarie, all’ordine pubblico. Particolare attenzione è riservata anche alla tutela dei vicini, per prevenire disturbo o addirittura tensioni sociali, e l’espressa esclusione dell’uso ricettivo sembra volta proprio ad evitare in radice l’uso dei capannoni come ricoveri temporanei per l’ospitalità di persone in condizioni di disagio (ma è forse conciliabile con la possibilità di ricavarne foresterie per dipendenti delle aziende locali).

La scelta del legislatore di coinvolgere il Consiglio comunale, chiamato ad autorizzare l’uso temporaneo mediante l’approvazione di una convenzione col privato promotore, appare poco in linea col riparto di competenze tra Consiglio e Giunta secondo la competente normativa statale, e anche con la provvisorietà dell’esperimento in rapporto alla immutazione della pianificazione urbanistica. Per contro può spiegarsi col proposito di non interferire neppure temporaneamente col ruolo proprio del consiglio comunale in materia di pianificazione urbanistica comunale e allo stesso tempo con un’esigenza di massima trasparenza e partecipazione di fronte a decisioni che, sia pure temporanee, avviano processi non sono prevedibili nei loro sviluppi e suscettibili di incidere anche sul contesto sociale e ambientale nel quale si colloca l’edificio interessato dal progetto.

Lo schema di convenzione previsto è atipico e delinea i contenuti minimi, lasciando al Consiglio comunale e al proponente ampio margine per definire eventualmente altri contenuti. È palese però che la duttilità dello strumento è finalizzata a semplificare ed incentivare il perseguimento degli obiettivi enunciati dalla disposizione fin dal suo esordio, cosicché sarà efficace quanto più sarà un abito su misura, leggero e arioso, per innovatori poveri di capitali e ricchi di idee e coraggio, e non invece una cappa gravosa e rigida, onerosa e dissuasiva, capace di spegnere sul nascere quell’entusiasmo magari un po’ emotivo e improvvisato che potrebbe rappresentare l’ultima speranza prima della demolizione.

(Bruno Barel)

2. Il riuso temporaneo

La commercializzazione del primo smartphone nel 2007 e la crisi economica dell’anno successivo hanno dato vita ad una successione sempre più veloce di cambiamenti, non lasciandoci spesso il tempo per adattarci. Ma ci sono persone consapevoli di questo “nuovo” mondo in continuo cambiamento che riescono a guardarlo con occhi nuovi. Sono quelle che provano tutti i giorni ad immaginare con creatività un futuro coerente con questo tempo. Per loro il lavoro c’è se viene inventato. Giovani e meno giovani, senza occupazione, provano allora a far nascere imprese da idee innovative e spesso non chiaramente classificabili. Questi nuovi imprenditori/artigiani/agricoltori/creativi, con la consapevolezza dell’importanza del legame con il territorio, hanno avviato un processo per una nuova di economia del Veneto che il sistema bancario ha difficoltà a finanziare.

In questo contesto il riuso di immobili vuoti diventa un’opportunità per avere spazi a costi modesti e senza grandi investimenti, dando la possibilità di imparare a far crescere un’impresa con molto impegno, nonostante le limitate risorse finanziarie di questi tempi.

Il riuso temporaneo permette di ottenere spazi a costi ridotti senza onerosi cambi di destinazione e con poche opere di messa a norma in relazione alla specifica attività, per un periodo sufficiente a capire se l’impresa ideata funziona veramente.

Il riuso temporaneo concede l’utilizzo di vecchi edifici abbandonati o sottoutilizzati di proprietà pubblica o privata che, in attesa di un importante processo di ristrutturazione, possono ospitare iniziative legate al mondo della cultura e dell’associazionismo, allo start-up dell’artigianato e piccola impresa, a servizi alla persona e al commercio di vicinato.

Il riuso temporaneo permette l’uso di capannoni artigianali da parte di micro imprese che lavorano insieme, aiutandosi a vicenda, aggregando un’ampia varietà di attività, senza farsi molte domande su quale tipo di destinazione urbanistica sia formalmente appropriata.

Il riuso temporaneo consente alle start-up di occupare negozi sfitti in vie o gallerie commerciali degradate che nessuno vuole, generando un microcosmo di relazioni capace di cambiare lo spazio urbano innalzando il valore degli immobili dell’intero quartiere.

Tutto questo non si ottiene con una mera applicazione delle norme. La Regione Veneto, prima in Italia, ha voluto consegnare ai Comuni una nuova possibilità per avviare processi di riqualificazione della città lasciando alla comunità spazi di innovazione e creatività. Le amministrazioni devono pensare lo sviluppo urbano come azione per coniugare idea di spazio e qualità della vita della popolazione. La città va immaginata come ecosistema funzionale allo sviluppo di relazioni tra le persone e tra diverse organizzazioni. Papa Francesco ci dice nell’enciclica Laudato Sii “Non basta la ricerca della bellezza nel progetto architettonico, perché ha ancora più valore servire un altro tipo di bellezza: la qualità della vita delle persone, la loro armonia con l’ambiente, l’incontro e l’aiuto reciproco. Anche per questo è tanto importante che il punto di vista degli abitanti del luogo contribuisca sempre all’analisi della pianificazione urbanistica”.

Attraverso il riuso la comunità sperimenta una modalità diversa di pianificazione urbana. Il Piano non è più uno strumento calato dall’alto ma piuttosto il risultato di una condivisione di attività e comportamenti. Parole ormai vuote come smart o sustainable, lasciano spazio ad un nuovo dizionario di vocaboli e di gesti condivisi.

Oggi il problema delle amministrazioni è come dare risposte ai bisogni dei propri cittadini con una crescente scarsità di risorse e con sfide sempre più grandi. Alla Politica è richiesto di fare uno sforzo di immaginazione per definire scenari strategici adatti ai tempi. Le è richiesto di usare “occhi nuovi” per guardare il mondo. La Regione con questa legge ha provato a immaginare un nuovo modello di sviluppo per il Veneto, spetta a noi ora cogliere l’opportunità per adattarci al “nuovo” mondo.

(Danilo Gerotto)

3. La Valorizzazione Immobiliare e la Rigenerazione Urbana tramite gli usi temporanei degli immobili

La “rigenerazione urbana” è diventata, negli anni, un tema sempre più attuale, i cui riflessi concreti si evidenziano nelle numerose iniziative volte alla riqualificazione del patrimonio immobiliare alla scala urbana, puntando a garantire qualità e sicurezza dell’abitare sia dal punto di vista sociale che ambientale, mirando ad attuare interventi volti alla rifunzionalizzazione del patrimonio edilizio preesistente, limitando il consumo di territorio, salvaguardando il paesaggio e l’ambiente, ed escludendo interventi unicamente volti a “demolizione e ricostruzione” a fini speculativi.

Il significato di “rigenerazione urbana” è, inoltre, in continua evoluzione e le metodologie messe in atto a tale scopo cambiano seguendo i ritmi e le trasformazioni del tessuto socio-economico: il lavoro è sempre più flessibile, gli spostamenti più frequenti, le sedi di lavoro sempre meno geograficamente identificabili e permanenti; si stanno diffondendo lo “smart working” e la condivisione delle esperienze e degli spazi, del “fare rete” (co-working e co-living) Anche la conformazione del nucleo famigliare è cambiato, e di conseguenza le relative esigenze in termini di spazi e di fruizione dei luoghi.

Il fattore esperienziale assume sempre più rilevanza a fronte di elementi canonici di identificazione spazio-temporali di una determinata funzione in un determinato luogo: le “attività”, intese in senso lato e classico, stanno uscendo dal perimetro fisico degli spazi storicamente dedicati ad ospitarle e spesso cercano collocazione in ambienti inusuali (si pensi alle mostre d’arte contemporanea o alle sfilate di moda organizzate all’interno di ex stabilimenti industriali dismessi).

Il concetto di “temporaneità” è sempre più presente e determinante le scelte e gli indirizzi del vivere nella società odierna: il tema del riuso degli immobili, contro il consumo di suolo, è ormai da parecchio tempo sentito e sempre più attuale; l’innesto sugli immobili dismessi di “usi temporanei” è una pratica che sta prendendo piede, ma che ancora sconta l’inadeguatezza di un quadro normativo, a livello nazionale, ormai superato o che, quantomeno, non agevola tali iniziative.

Oggi in Italia ci sono più di 6 milioni di beni inutilizzati o sottoutilizzati, pari a due volte la città di Roma[1]; tra questi sono moltissimi quelli di provenienza pubblica, abbandonati da decenni, estesi alcune decine di migliaia di metri quadri (tra cui ex caserme, ex ospedali ecc.), e molto spesso collocati in aree limitrofe il centro delle città. Tali aree vanno a configurare una nuova tipologia di “periferia” urbana, caratterizzata da uno status di degrado e abbandono, ma geograficamente collocata in zone centrali e spesso limitrofe a quartieri i cui valori immobiliari sono elevati.

Attribuendo un significato innovativo alla “valorizzazione immobiliare”, intendendola come un processo temporaneo di rivitalizzazione degli immobili in disuso, in attesa che gli stessi vengano avviati ad un percorso di trasformazione definitiva, è possibile considerare gli immobili come “temporary box”, adatti ad ospitare attività temporanee capaci di riattivare dinamiche che faticano a ripartire seguendo i processi tradizionali “economic driver”. La cultura, in senso lato, è sempre più utilizzata, anche in Italia, come mezzo e linguaggio contemporaneo per attuare politiche e interventi di rigenerazione urbana e di inclusione sociale.

I benefici apportati dall’attivazione di usi temporanei sugli immobili dismessi sono molteplici: innanzitutto si restituisce alla collettività una porzione di città, piccola o grande che sia, anni in anticipo rispetto ad una futura definitiva trasformazione; in questo modo si ricostruisce una relazione tra un immobile abbandonato e il tessuto urbano limitrofo, relazione che transita attraverso le persone, i fruitori e le funzioni insediate.

Gli usi temporanei sono anche un’occasione per sperimentare destinazioni d’uso e funzioni diverse rispetto a quelle urbanisticamente previste, con investimenti iniziali tutto sommato contenuti, per capire come le stesse possano essere accolte e assorbite nel tessuto sociale dell’immediato contesto e se possano sostenersi in un’ottica di medio-lungo periodo; a priori non si esclude che un uso temporaneo particolarmente ben riuscito possa trasformarsi in una locazione a lungo termine, qualora questa sia compatibile con la strategia di sviluppo del singolo immobile.

Alcuni esempi di successo in Italia e all’estero insegnano che la comunicazione e promozione relativa ad eventi e iniziative temporanee organizzate in questi spazi hanno ottenuto un’elevata copertura mediatica, favorendo di conseguenza la rivalutazione dell’immobile, accrescendo l’interesse nei suoi confronti sia da parte di altri operatori interessati a farne altri usi transitori, sia di investitori interessati ad una valorizzazione definitiva.

Un altro beneficio non trascurabile per un immobile dismesso che ospita usi temporanei è il miglioramento dello stato manutentivo che da tale uso consegue, oltre che la mitigazione dei costi a carico del proprietario (quando non si parli di ricavi). Un’azione strategica, estesa ad un portafoglio immobiliare, consente inoltre di dare visibilità anche a immobili meno appetibili secondo i parametri classici del mercato.

Gli effetti positivi degli usi temporanei, inoltre, escono dalle mura dell’immobile e si riflettono almeno sul contesto limitrofo, stimolando la generazione nuovi indotti economici e circuiti relazionali non ricalcanti percorsi tradizionali.

La parola chiave è “innovazione”, di significato e di linguaggio.

(Alessandra Balduzzi)

4. Il valore del “Temporiuso”[2]

I temi fondanti l’art 8 possono considerarsi l’esito di un dibattito serrato che ha alimentato gli ultimi dieci anni di risveglio “post metrocubaro” in Regione Veneto ibridando saperi apparentemente distanti e le due più autorevoli letture che si sono (solo apparentemente) contrapposte.

La prima ha preso subito a denunciare la pressione speculativa che si annidava nel “patto per lo sviluppo” tra soggetto pubblico e soggetto privato, trovando nei padri culturali del Novecento non solo regionale (Luigi Meneghello, Andrea Zanzotto, Mario Rigoni Stern, Salvatore Settis ed altri ancora) il sostegno e l’autorevolezza necessari ad insediare un corteo permanente di comitati indignati a tutte le scale sociali. Il faro è diventato l’art.9 della Costituzione e il rischio quello di “buttare via il bambino con l’acqua sporca”, di bloccare prima che capire, di irrigidire ulteriormente i regimi di vincolo e condurre i percorsi decisionali ad una definitiva a-fasia progettuale per la sola paura di ritrovarsi discussi sui giornali o citati in qualche ricorso giudiziario.

La seconda ha intrapreso la strada più lunga e complessa di indagare le ragioni per una ripartenza, ma senza “fare prigionieri”, e piuttosto assumendo la convinzione che la città diffusa è il prodotto conseguente di un’epoca che ha accentuato i fenomeni di un urbanesimo senza precedenti. Questa parola, città, fa paura; ma non accettarla così come trovata, come un fatto “as found” e reale, significa non affrontare i problemi alla scala a cui si pongono; significa ridurre la risposta a una infinita teoria di analisi, di piani di settore e a una serie di emendamenti difensivi; significa non avere altro che una città inadeguata rispetto alle sue possibilità e alle sue ambizioni. Ed invece una città che accetti di essere tale deve partire da un disegno politico profondamente condiviso e aperto, per diventare una polis nel senso antico come in quello moderno.

Entrambe le letture in realtà trovano il giusto riconoscimento al proprio operato nelle nuove definizioni di paesaggio e cultura che, pur a fatica, stanno transitando definitivamente nel nostro linguaggio. “Paesaggio” infatti non è più solo il bel paesaggio giustamente tutelato dalle discipline in forma corale, ma anche tutte quelle porzioni di territorio trasformate consapevolmente da una comunità abitante. E “Cultura” non è più solo il veicolo raffinato e piacevole che alimenta il tempo libero, ma anche e soprattutto lo straordinario manipolatore di senso e di valore delle cose, qualunque esse siano, ivi comprese quelle costruite.

Ebbene, è evidente che solo accogliendo anche in sede politica tali nuove definizioni è stato possibile per il legislatore introdurre per la prima volta un principio di temporalità d’uso nella gestione del costruito, laddove fino a ieri esso seguiva obbligatoriamente la dimensione predeterminata dell’Urbanistica.

Tale risultato, è bene ricordarlo, ha fatto palestra soprattutto con la stagione corsara di piattaforme culturali nate proprio nei territori periferici e molecolari della Regione Veneto e cresciute fino a raggiungere ampie fette di opinione pubblica nazionale. Mi riferisco ai festival ibridi (ad esempio il Festival Comodamente a Vittorio Veneto, che dal 2007 al 2013 ha riaperto più di cinquanta luoghi dismessi della città; oppure Festival Città Impresa, attivo dal 2008), alla lunga stagione che ha alimentato la candidatura di Venezia e Nordest a capitale europea della cultura 2019, alle piattaforme di indagine più puntuale (es. Provincia Italiana, promossa da Biennale di Venezia nel 2010; Re-cycle Italy, progetto di ricerca di interesse nazionale coordinato da IUAV Venezia nel triennio 2013/2016) ed anche a quelle più attuative nate qua e là per dare soluzione ad un fatto locale, ma sempre appartenenti ad un cloud esperienziale che non ha avuto bisogno di alcuna norma per essere tutelato e per attecchire fino al punto di divenire la sola possibile soluzione d’uso per interi ambiti di costruito andati dismessi troppo velocemente.

Il portato finale, cioè che a curare il declino permanente dei luoghi costruiti sia l’uso temporaneo dei luoghi stessi (o perfino la loro “demolizione creativa”, come la definisce Bruno Barel), potrà in prima istanza apparire un ossimoro, ma in realtà va accettato come pratica oggettiva del nostro mondo contemporaneo.

(Claudio Bertorelli)

 

[1] Fonte: www.temporiuso.org.

[2] Temporiuso è il termine dato al progetto di ricerca-azione avviato nel 2008 a cura dell’associazione temporiuso.net, con il patrocinio dell’Assessorato alla Cultura della Provincia di Milano, nel 2009 dell’Assessorato allo Sviluppo del Territorio del Comune di Milano e il sostegno e contributo dei ricercatori e tirocinanti del laboratorio Multiplicity.lab, DiAP Politecnico di Milano. Il progetto si propone di utilizzare il patrimonio edilizio esistente e gli spazi aperti vuoti, in abbandono o sottoutilizzati di proprietà pubblica o privata, per riattivarli con progetti legati al mondo della cultura e associazionismo, dell’artigianato e piccola impresa, dell’accoglienza temporanea per studenti e turismo giovanile, con contratti ad uso temporaneo a canone calmierato.

Commento all’art. 7 l.r. n. 14/2017

di Emilio Caucci e Diego Signor

Art. 7

Rigenerazione urbana sostenibile

1. Sulla base dei criteri e degli obiettivi di recupero indicati dalla Giunta regionale ai sensi dell’articolo 4, comma 2, lettera b):

a) il piano di assetto del territorio (PAT) individua gli ambiti urbani di rigenerazione assoggettabili a programmi di rigenerazione urbana sostenibile;

b) il piano degli interventi (PI), con apposita scheda, individua il perimetro dell’ambito assoggettato a un programma di rigenerazione urbana sostenibile dando gli indirizzi per la sua attuazione, ivi comprese le modalità di trasferimento di eventuali attività improprie, le destinazioni d’uso incompatibili e le misure necessarie a garantire il raggiungimento degli obiettivi di rigenerazione.

2. I progetti degli interventi per l’attuazione dei programmi di rigenerazione prevedono lo sviluppo di tipologie edilizie urbane a basso impatto energetico e ambientale, la pluralità di funzioni e la qualità architettonica degli edifici e degli spazi pubblici.

3. A seguito della individuazione degli ambiti di cui al comma 1, i soggetti pubblici o privati aventi titolo presentano all’amministrazione comunale una proposta di programma di rigenerazione urbana sostenibile, al fine di verificarne la coerenza con gli indirizzi, i criteri e gli obiettivi indicati nelle schede contenute nel PI. Il programma è corredato dalla seguente documentazione:

a) l’indicazione delle proposte progettuali di massima, eventualmente suddivise in singole fasi di attuazione, nelle quali siano evidenziati gli ambiti di intervento unitario, le eventuali misure compensative volte a garantire l’invarianza idraulica, valutando, ove necessario, il potenziamento idraulico nella trasformazione del territorio, le deroghe allo strumento urbanistico generale eventualmente necessarie per l’attuazione degli interventi, fermo restando il rispetto del dimensionamento del PAT, nonché le modalità di impiego degli eventuali crediti edilizi riconosciuti per il trasferimento delle attività improprie;

b) la relazione tecnico-illustrativa, contenente la descrizione delle finalità specifiche del programma di rigenerazione e degli interventi preordinati al loro conseguimento, nonché l’indicazione dei tempi di attuazione, degli elementi qualitativi e dei risultati attesi;

c) la relazione economica, contenente un piano economico-finanziario di massima, che illustra costi e benefici attesi, con particolare riferimento alle modalità e ai tempi di realizzazione degli interventi previsti, alle fonti di finanziamento, alla sostenibilità economica dell’intero programma o delle singole fasi di attuazione;

d) uno schema di accordo con l’indicazione degli impegni assunti dai soggetti interessati, delle forme di coordinamento, delle modalità di monitoraggio periodico dello stato di attuazione del programma.

4. I programmi di rigenerazione urbana sostenibile sono promossi dai comuni, singoli o associati, e sono approvati, in quanto di interesse regionale, mediante accordo di programma ai sensi del combinato disposto dell’articolo 32 della legge regionale 29 novembre 2001, n. 35 “Nuove norme sulla programmazione” e dell’articolo 6, comma 2, della legge regionale 16 febbraio 2010, n. 11 “Legge finanziaria regionale per l’esercizio 2010”; l’approvazione degli stessi costituisce presupposto per l’accesso al fondo regionale di cui all’articolo 10.

5. Nell’accordo di programma le parti pubbliche possono prevedere forme di cofinanziamento ed incentivi, inclusa la riduzione del contributo di costruzione.

6. I programmi di rigenerazione urbana sostenibile hanno titolo preferenziale per l’attribuzione di finanziamenti regionali e per la partecipazione a bandi di finanziamento a regia regionale.

Sommario: 1. La “rigenerazione urbana”2. Individuazione degli ambiti di rigenerazione urbana sostenibile3. Approvazione dei programmi di rigenerazione urbana sostenibile4. Osservazioni conclusive.

1. La “rigenerazione urbana”

La “rigenerazione urbana” è un concetto che accompagna da almeno quarant’anni la nostra storia urbanistica, e come tanti altri ha cambiato sembianze e significato.

Negli anni Settanta si parlava di rigenerazione limitatamente al tessuto edilizio storico.

A partire dagli anni Ottanta, il concetto si è esteso a comprendere il recupero delle aree dismesse dopo la progressiva delocalizzazione delle industrie e di molti altri servizi fino ad allora in prossimità, se non all’interno, dei centri urbani.

La nozione attuale è ancora più ampia: coincide con la riqualificazione di interi quartieri o di ambiti urbani complessi, spesso costruiti con criteri di bassa qualità edilizia, architettonica e urbanistica.

Fino ad oggi, anche per il sostanziale inutilizzo della società di trasformazione urbana (art. 17, comma 59, l. n. 127/1997 e art. 120 d. lgs. n. 267/2000), l’obiettivo della rigenerazione è stato perseguito prevalentemente attraverso i programmi integrati ossia su iniziativa sostanzialmente privata, per ambiti definiti e in cambio di un beneficio pubblico da contrattare di volta in volta. La felice stagione dei programmi integrati ha tuttavia esaurito la propria forza propulsiva proprio nel momento in cui è venuta a mancare dal mercato una domanda capace di convogliare risorse private sull’attuazione di tali strumenti, che la legislazione e la pianificazione avevano sì sviluppato in forme sempre più flessibili, ma anche sempre incentrate su una capacità derogatoria dipendente dal riconoscimento di un beneficio pubblico ossia comunque di un sacrificio economico richiesto al privato principalmente in termini di opere pubbliche o di pubblico interesse.

Questa logica, insita nell’incentivazione di interventi extra ordinem con la concertata introduzione di deroghe o varianti alle previsioni di piano regolatore generale ma con la contestuale pretesa di una qualche forma di partecipazione pubblica al maggior valore che si stima generato dagli interventi (logica che, di fatto, caratterizza anche la disposizione di cui alla lettera d-ter introdotta nel 4° comma dell’art. 16 del d.P.R. n. 380/2001 dal decreto-legge “Sblocca Italia” del 2014), ha perduto impatto e attualità ed è stata ripensata facendo in primis della riqualificazione in sé stessa il “beneficio pubblico” (come già era in parte stabilito dall’art. 5, commi 9 e 11, del d.l. n. 70/2011[1]): e confermando – anzi, se possibile, implementando – l’incentivo ormai “classico” rappresentato dalla “deroga”, dalla “variante”, con il coinvolgimento di risorse finanziarie pubbliche per il tramite di modalità diverse rispetto a quelle caratterizzanti la fallimentare esperienza della società di trasformazione urbana.

A questa filosofia sembra ispirarsi l’articolo in commento, rubricato “rigenerazione urbana sostenibile”.

La “rigenerazione” riguarda ambiti di scala ben più ampia e complessa di quelli oggetto della “riqualificazione urbana” di cui all’articolo 6[2]. Lo attesta già la definizione di “ambiti urbani di rigenerazione” contenuta alla lettera h) dell’art. 2, comma 1, secondo la quale sono tali “le aree ricadenti negli ambiti di urbanizzazione consolidata” quali definiti nella precedente lettera e) del medesimo comma e “caratterizzati da attività di notevole consistenza, dismesse o da dismettere, incompatibili con il contesto paesaggistico, ambientale od urbanistico, nonché le parti significative di quartieri urbani interessate dal sistema infrastrutturale della mobilità e dei servizi”. Sempre la lettera h) del comma 1 dell’articolo 2, al cui commento si rinvia, prosegue elencando anche le specifiche finalità dei programmi di rigenerazione urbana sostenibile (sostenibilità, contenimento del consumo di suolo; riduzione dei consumi idrici ed energetici; integrazione sociale, culturale e funzionale; soddisfacimento della domanda abitativa e coesione sociale; integrazione delle infrastrutture della mobilità veicolare, pedonale e ciclabile con il tessuto urbano, con le politiche urbane della mobilità sostenibile e con la rete dei trasporti collettivi; partecipazione attiva dei cittadini fin dalla progettazione dei programmi di intervento; innovazione e sperimentazione edilizia e tecnologica; sviluppo di nuove economie e di nuova occupazione, sicurezza sociale e superamento delle diseguaglianze sociali): da questo elenco si desume che la rigenerazione urbana va ben oltre l’aspetto urbanistico e ben oltre la sfera privata.

Vi è dunque, al fondo della norma, la piena consapevolezza che la rigenerazione di ambiti urbani estesi coinvolge una pluralità di fattori (sociali, economici, ambientali, urbanistici, edilizi) da coordinare ed integrare fra loro e può avvenire solamente sotto una chiara e forte regia pubblica: da parte della Regione, ma – prima e soprattutto – da parte del Comune interessato.

2. Individuazione degli ambiti di rigenerazione urbana sostenibile

Il metodo di fondo per l’attuazione di queste finalità resta invero quello a cui è improntata l’intera legge ossia la delega ai Comuni – esercitabile dopo l’emanazione e nel rispetto dei criteri di individuazione e degli obiettivi di recupero dettati dalla Giunta regionale (art. 4, comma 2, lett. b) – del compito di individuare nel PAT gli ambiti urbani di rigenerazione assoggettabili a programmi di rigenerazione urbana sostenibile, procedendo poi nei PI a definirne più esattamente i perimetri e a dettarne gli indirizzi attuativi (fermo restando che nel caso di ambiti interessanti il territorio di più Comuni sarà il PATI lo strumento chiamato a coordinare, da un punto di vista pianificatorio, la possibile azione integrata degli enti comunali coinvolti).

Tale distribuzione nella pianificazione comunale, peraltro, non esaurisce affatto la disciplina degli interventi di rigenerazione ma ne disegna solo la cornice: implica e richiede, infatti, un terzo ed un quarto livello di attuazione, consistenti, rispettivamente, nella presentazione dei “programmi” e nella loro approvazione, che è approvazione regionale (cfr. infra).

In particolare, al PAT è demandato il solo compito di individuare, tenendo conto della definizione contenuta nell’art. 2, comma 1, lett. h) e dei criteri dettati dalla Giunta regionale, gli “ambiti urbani di rigenerazione assoggettabili a programmi di rigenerazione urbana sostenibile”[3], al PI quello di fissare i perimetri (anche all’interno del più generale “ambito” delineato dal PAT, sembra di capire) e di dettare con scheda gli “indirizzi” dell’attuazione comprendenti anche, ma non solo, l’indicazione delle modalità di trasferimento delle attività improprie, le destinazioni d’uso incompatibili e le misure occorrenti a garantire il raggiungimento degli obiettivi (ferma la possibilità, nella fase di approvazione regionale del programma, di variare, ove necessario, specifiche previsioni della scheda [cfr. infra]).

Si tratta di una scelta consapevole e opportuna: la pianificazione comunale non deve e non può entrare nel dettaglio, lasciato alle proposte dei “soggetti pubblici o privati aventi titolo” [a loro volta frutto di ampia consultazione con la cittadinanza, nelle modalità anche procedurali che saranno definite dalla Giunta ai sensi dell’art. 4, comma 2, lett. b)], e soprattutto non deve stabilire le destinazioni d’uso ma solo quelle “incompatibili” di modo che tutte le altre, per esclusione, devono ritenersi ammesse[4].

3. Approvazione dei programmi di rigenerazione urbana sostenibile

Una volta stabilita la cornice nella pianificazione comunale, entra in gioco il “terzo livello”, il quale a sua volta si articola in due momenti.

In un primo momento (comma 3), i “soggetti pubblici o privati aventi titolo” presentano al Comune una “proposta di programma di rigenerazione urbana sostenibile”, e il Comune passa a verificarne la coerenza con gli indirizzi, i criteri e gli obiettivi indicati nelle schede contenute nel PI.

La proposta, per scala e soprattutto per contenuti, non è un piano attuativo ma appunto un “programma” esteso a parti organiche della città (ad es.: una zona industriale), corredato da ben precisi elaborati.

Anzitutto, è corredata da una proposta progettuale “di massima”, articolabile in fasi di attuazione, alla quale si richiede di indicare gli ambiti di intervento che devono restare unitari, di garantire ove occorra l’invarianza idraulica e, se del caso, il potenziamento idraulico e si richiede altresì di specificare “le deroghe allo strumento urbanistico generale eventualmente necessarie per l’attuazione degli interventi, fermo restando il rispetto del dimensionamento del PAT, nonché le modalità di impiego degli eventuali crediti edilizi riconosciuti per il trasferimento delle attività improprie”.

È prevista poi una relazione tecnico-illustrativa per indicare finalità da perseguire, interventi da realizzare, obiettivi di qualità da raggiungere, mezzi e tempi di attuazione, risultati attesi.

Soprattutto, per questi programmi di rigenerazioni urbana che devono essere programmi “sostenibili” si richiede una “relazione economica, contenente un piano economico-finanziario di massima”: relazione volta sì a rappresentare in termini economici costi e benefici attesi, ma più specificamente finalizzata a giustificare la serietà e la fattibilità dell’operazione (fonti di finanziamento e “sostenibilità”), fermo restando che la sostenibilità economica deve essere dimostrata in relazione all’intero programma ma potrebbe essere comprovata anche in relazione a “singole fasi di attuazione” e quindi, sembrerebbe di capire, accettando in partenza l’idea di una attuazione solo (e almeno) parziale (sulla falsariga, del resto, delle nuove disposizioni del d.lgs. 50/2016 sui contratti per la realizzazione di complesse opere pubbliche o di pubblico interesse in regime di concessione: disposizioni che consentono la possibilità di ammettere pure iniziative contemplanti parziali finanziamenti del progetto complessivo, a quel punto realizzabile anche limitatamente a singoli stralci tecnicamente ed economicamente funzionali).

La disposizione non arriva a richiedere espressamente che il piano economico-finanziario di massima, già in questa fase, sia accompagnato anche da idonea documentazione comprovante i possibili finanziamenti dell’iniziativa o da dichiarazioni di istituti finanziatori di manifestazione di interesse a finanziare l’operazione. Vero è che, proprio per assicurare la fattibilità e la sostenibilità dell’iniziativa nel momento in cui la stessa prenderà concretamente avvio, potrebbe essere importante che gli atti approvativi del programma di rigenerazione urbana si premurino di analizzare e disciplinare anche questi profili (subordinando, ad esempio, la sottoscrizione di convenzioni attuative di singole fasi attuative alla dimostrazione della contestuale sottoscrizione di contratti di finanziamento) e, prima, si preoccupino del coinvolgimento degli operatori economici nella verifica sull’adeguatezza dei livelli di “bancabilità” dei progetti (reperibilità sul mercato finanziario di risorse adeguate; sostenibilità delle fonti; congruità della redditività del capitale investito): così da cercare di evitare il ripetersi di errori che hanno caratterizzato una certa fase della storia della programmazione integrata di riqualificazione nel Veneto, dove una non attenta valutazione preventiva sulla concreta ed effettiva sostenibilità economico-finanziaria dei progetti approvati si è tradotta nell’incompletezza, in fase realizzativa, degli interventi.

Da ultimo, il comma 3 dell’articolo 7 richiede che la proposta di programma sia corredata anche da uno schema di “accordo”, che sembrerebbe una forma attenuata e più generale di convenzione urbanistica in cui oltre agli “impegni assunti dai soggetti interessati” – genericamente intesi e perciò attinenti non alla sola urbanizzazione (che potrebbe anche mancare) ma pure ai tempi e modi di attuazione dell’interesse pubblico primario costituito dalla riqualificazione in se stessa – è contemplato il controllo periodico “dello stato di attuazione del programma”[5] (non le garanzie, dunque, demandabili a una fase successiva, dinanzi a un progetto compiuto). Lo schema di accordo potrebbe poi disciplinare anche forme per garantire la possibilità di “effettiva partecipazione degli abitanti” nella fase di gestione del programma, secondo le indicazioni (strumenti e procedure) che saranno date, sul punto, dalla Giunta regionale ai sensi dell’art. 4, comma 2, lett. b), l.r. n. 14/2017.

In un secondo momento rientrano in gioco i Comuni: sono i Comuni, singoli o associati, a “promuovere” i programmi ricevuti e ad avviarli, se ritenuti meritevoli, alla approvazione regionale (comma 4): è implicito e inevitabile infatti che i Comuni compiano una prima valutazione discrezionale di ammissibilità, completezza e anche meritevolezza dei programmi, superata la quale essi, “in quanto di interesse regionale”, sono avviati all’approvazione mediante accordo di programma ai sensi del combinato disposto degli articoli 32 della l.r. n. 35, 2001 e 6, comma 2, della l.r. n. 11/2004.

Il tenore letterale della disposizione di cui all’esaminato comma 4 (“sono approvati, in quanto di interesse regionale”) si presta a una duplice lettura: quella secondo la quale detti programmi, se approvati, diventano “per definizione” di interesse regionale, come sembra suggerire anche una interpretazione sistematica (la norma disciplina la sola approvazione in sede regionale; i finanziamenti previsti ed il monitoraggio sono a livello regionale), e quella secondo la quale invece la forma di approvazione mediante accordo di programma “a regia regionale” trovi applicazione solamente in relazione a quei programmi di rigenerazione urbana che, per il peculiare contenuto o per l’ambito territoriale di intervento, siano ritenuti dalla Regione di interesse sovracomunale (intendendosi la locuzione “in quanto” come un “se” o un “laddove”).

Ad avviso di chi scrive, proprio la strategicità che la l.r.14/2017 ha voluto riconoscere a questi programmi di rigenerazione urbana (i quali ultimi in molti casi potrebbero richiedere una variazione alla strumentazione urbanistica locale e sempre richiedono una attuazione organica e coordinata dei complessi interventi previsti, con l’esercizio congiunto di più competenze amministrative) induce a ritenere che il legislatore abbia voluto sottrarre l’ultima fase approvativa di questi programmi alla sola sfera di competenza comunale (in cui rientrano invece gli interventi di sola “riqualificazione urbana” di cui all’art. 6).

L’utilizzo dello strumento dell’accordo regionale si giustifica anche per l’esigenza di prevedere a carico delle “parti pubbliche” firmatarie “forme di cofinanziamento ed incentivi, inclusa la riduzione del contributo di costruzione” (comma 5): fermo restando che l’approvazione di questi programmi “costituisce presupposto per l’accesso al fondo regionale di cui all’articolo 10” della l.r. n. 14/2017

Chiude l’articolo il comma 6, nel quale si stabilisce che i programmi, evidentemente approvati, hanno titolo preferenziale per l’attribuzione di finanziamenti regionali e per la partecipazione a bandi di finanziamento a regia regionale (cfr. sul punto anche art. 10, comma 1, lett. a) e b)).

4. Osservazioni conclusive

Ciò detto quanto al dato letterale, non mancano spunti di riflessione.

In primo luogo, l’articolo in commento pone un rapporto di consequenzialità ma non di dipendenza fra la “cornice” di indirizzi comunale e l’accordo di programma finale: la scheda del PI evidentemente non vincola ma appunto indirizza il programma, la cui approvazione ai sensi dell’art. 32 della l.r. n. 35/2001 e dell’art. 6, comma 2, della legge finanziaria regionale per il 2010 (l.r. n. 11/2010) consente, se necessario, ulteriori varianti, anche perimetriche: la norma peraltro non limita l’intensità delle eventuali varianti, né stabilisce se esse debbano avere un ruolo correttivo o possano stravolgere gli indirizzi dati dal Comune, che è parte dell’accordo.

In secondo luogo, merita una riflessione la flessibilità della disciplina delle destinazioni d’uso, anche in rapporto agli standard: gli ambiti di rigenerazione urbana sono “a destinazione d’uso residuale” – i Comuni possono solo indicare gli usi espressamente vietati – e in ragione di ciò, analogamente a quanto previsto per l’integrazione delle attività commerciali coi centri storici (art. 21, comma 6, lett. a) l.r. n. 50/2012), non è logicamente possibile predeterminare e tantomeno imporre nella scheda dotazioni di spazi a standard (es.: parcheggi): tale compito evidentemente spetterà al convenzionamento attuativo.

Va da sé che la norma non contempla altro beneficio pubblico se non la rigenerazione in sé stessa; rigenerazione che oltretutto può accedere sia alle forme di cofinanziamento e di incentivo stabilite nell’accordo (comma 5), sia ai finanziamenti regionali o ai bandi di finanziamento a regia regionale (comma 6). È quindi ontologicamente incompatibile coll’istituto la contrapposta previsione di un ulteriore “beneficio pubblico” in termini di contributo straordinario in denaro o in opere, ai sensi della citata lettera “d-ter” del comma 4 dell’art. 16 del d.P.R. n. 380/2001 (il comma 4-bis del menzionato art. 16 del T.U.E., dopo aver disciplinato il contributo straordinario su indicato, fa “salve le diverse disposizioni delle legislazioni regionali e degli strumenti urbanistici generali comunali”).

Un cenno merita anche la procedura di accordo di programma regionale. L’art. 7 nulla aggiunge e quindi vale sempre lo schema tracciato dalla DGR n. 2943/2010, al netto però della prima fase di filtro rappresentata dalla delibera di giunta regionale attestante l’interesse regionale: tale valutazione preliminare, secondo la lettura interpretativa prima evidenziata, è infatti compiuta a monte dalla legge (“I programmi di rigenerazione urbana sostenibile … sono approvati, in quanto di interesse regionale, mediante accordo di programma …”).

Il tempo dirà se questa previsione porterà frutto o resterà sulla carta o, ancora, se esaurirà i propri effetti nel finanziare idee e progetti che resteranno tali.

È chiaro che più ampia sarà l’area da rigenerare (e quindi la platea dei soggetti interessati), più difficile sarà il perseguimento degli ambiziosi obiettivi delineati dalla legge. La stessa possibilità di suddividere in singole fasi di attuazione e per interventi unitari l’intervento programmato (schema già sperimentato in scala di pianificazione attuativa: cfr. art. 28, comma 6-bis, l. n. 1150/1942, introdotto dal d.l. n. 133/2014, convertito dalla legge n. 164/2014) costituisce una risposta solo parziale alle difficoltà generate dalla frammentazione dominicale.

Eppure la Regione non avrebbe potuto fare molto di più.

L’unico vero rimedio per superare l’opposizione dei dissenzienti, che va data per scontata in ambiti vasti a fronte della frammentazione della proprietà (si pensi ai grandi condomìni), è infatti l’espropriazione, che è soggetta a riserva (relativa) di legge statale: è lo Stato a declinare i casi in cui l’espropriazione è ammessa, a dettare i criteri di quantificazione dell’indennità e le regole del procedimento. La legislazione regionale può solo disciplinare aspetti di dettaglio, come avviene nella materia urbanistica a proposito dei comparti e dei piani urbanistici. Ne consegue che, mancando per forza di cose una disciplina specifica dell’espropriazione all’interno della “rigenerazione urbana” regolata dalla legge regionale nell’articolo in commento, e fin quando lo Stato non detterà disposizioni ad hoc, essa potrà e dovrà trovare spazio solo “a valle”, in sede di attuazione urbanistica, con i conseguenti aggravi procedurali.

Un altro elemento significativo, di forza e di debolezza al tempo stesso, è costituito dalla necessità di una forte regia pubblica, dall’inizio alla fine del processo: tale regia, considerate la complessità dei temi e degli obiettivi, la necessità di coinvolgere fin dalla programmazione i cittadini e la peculiarità delle procedure (dal PAT all’accordo di programma regionale, ed anche oltre, fino alla fase dell’attuazione concreta), richiede non solo saldezza o coerenza ma anche continuità politica e/o di visione strategica del futuro della città.

 

[1] Il comma 9 dell’art. 5 del decreto-legge n. 70/2011 (cd. “decreto sviluppo”, convertito dalla l. n. 106/2011) ha disposto quanto segue: “Al fine di incentivare la razionalizzazione del patrimonio edilizio esistente nonché di promuovere e agevolare la riqualificazione di aree urbane degradate con presenza di funzioni eterogenee e tessuti edilizi disorganici o incompiuti nonché di edifici a destinazione non residenziale dismessi o in via di dismissione ovvero da rilocalizzare, tenuto conto anche della necessità di favorire lo sviluppo dell’efficienza energetica e delle fonti rinnovabili, le Regioni approvano entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto specifiche leggi per incentivare tali azioni anche con interventi di demolizione e ricostruzione che prevedano:

  1. il riconoscimento di una volumetria aggiuntiva rispetto a quella preesistente come misura premiale;
  2. la delocalizzazione delle relative volumetrie in area o aree diverse;
  3. l’ammissibilità delle modifiche di destinazione d’uso, purché si tratti di destinazioni tra loro compatibili o complementari;
  4. le modifiche della sagoma necessarie per l’armonizzazione architettonica con gli organismi edilizi esistenti.

[2] Nel primo testo del progetto di legge il termine “rigenerazione” era indifferentemente impiegato per gli interventi edilizi su singoli fabbricati e per quelli di recupero di interi ambiti degradati; inoltre presupponeva iniziative e finanziamenti principalmente privati.

[3] Il PAT non può e non deve fare altro che individuare gli ambiti; gli effetti di questa individuazione sono poi delineati direttamente dalla legge, la quale stabilisce iter e contenuti dei passaggi successivi.

[4] La necessità di un mix funzionale è affermata già nella citata lettera h) del 1° comma dell’art. 2, che fra le finalità dei programmi annovera al n. 4) la “compresenza e [la] interrelazione di residenze, attività economiche, servizi pubblici e commerciali, attività lavorative, nonché spazi ed attrezzature per il tempo libero”, e dallo stesso articolo 7 al comma 2, che impone ai programmi di prevedere “lo sviluppo di tecnologie urbane a basso impatto energetico e ambientale, la pluralità di funzioni e la qualità architettonica degli edifici e degli spazi pubblici”: le funzioni possono – anzi devono – essere diversificate, senza predeterminazione.

[5] Sulla verifica periodica dello stato di attuazione dei programmi di rigenerazione urbana approvati e degli eventuali finanziamenti del fondo regionale di cui all’art. 10, cfr. art. 15, comma 1, lett. a) della legge.

Commento all’art. 6 l.r. n. 14/2017

di Enrico Gaz

Art. 6

Riqualificazione urbana

1. Gli interventi di riqualificazione urbana rispondono alla finalità del presente Capo e sono realizzati negli ambiti urbani degradati.

2. Fermo restando il rispetto del dimensionamento del piano di assetto del territorio (PAT), il piano degli interventi (PI) individua il perimetro degli ambiti urbani degradati da assoggettare ad interventi di riqualificazione urbana e li disciplina in una apposita scheda, precisando: i fattori di degrado, gli obiettivi generali e quelli specifici della riqualificazione, i limiti di flessibilità rispetto ai parametri urbanistico-edilizi della zona, le eventuali destinazioni d’uso incompatibili e le eventuali ulteriori misure di tutela e compensative, anche al fine di garantire l’invarianza idraulica e valutando, ove necessario, il potenziamento idraulico nella trasformazione del territorio.

3. Il PI può prevedere il riconoscimento di crediti edilizi per il recupero di potenzialità edificatoria negli ambiti di urbanizzazione consolidata, premialità in termini volumetrici o di superficie e la riduzione del contributo di costruzione.

4. Gli interventi di riqualificazione urbana possono essere attuati mediante:

a) piani urbanistici attuativi, ai sensi degli articoli 19 e 20 della legge regionale 23 aprile 2004, n. 11;

b) comparti, ai sensi dell’articolo 21 della legge regionale 23 aprile 2004, n. 11;

c) permessi di costruire convenzionati, ai sensi dell’articolo 28 bis del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380 “Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia”.

La disposizione esordisce mettendo a fuoco la stretta corrispondenza biunivoca tra degrado e riqualificazione. Nel disegno della legge, infatti, il degrado costituisce la condizione imprescindibile per accedere alle premialità della riqualificazione e la riqualificazione integra la modalità di contrasto tipico al degrado.

Secondo la lett. g) dell’art. 2.1 gli ambiti urbani degradati sono le aree “assoggettabili agli interventi di riqualificazione urbana di cui all’art. 6” ed il primo comma dell’articolo in commento puntualizza che gli interventi di riqualificazione “sono realizzati negli ambiti urbani degradati”. Sussiste, quindi, un nesso inscindibile tra le due fattispecie e in quest’ottica la riqualificazione diventa un obiettivo privilegiato della pianificazione territoriale ed urbanistica, come precisa il co. 2 dell’art. 3, a tal punto che “sono sempre consentiti sin dall’entrata in vigore della presente legge ed anche successivamente, in deroga ai limiti stabiliti dal provvedimento della Giunta regionale di cui all’articolo 4, comma 2, lettera a … gli interventi di cui agli articoli 5 e 6, con le modalità e secondo le procedure ivi previste” (cfr. art. 12.1, lett. b).

In proposito, per il lettore può essere fuorviante indugiare a prima vista sull’aggettivo “urbana” che parrebbe alludere – stando all’utilizzo che ne viene fatto nel comune linguaggio urbanistico – ad iniziative circoscritte a contesti cittadini o, comunque, di pertinenza di zone site in centri già urbanizzati. In realtà, come prevede l’art. 2 alla citata lett. g) del primo comma, il degrado non è necessariamente dato da compromissioni costruttive o infrastrutturali ma può anche essere di natura unicamente ambientale (si veda il punto n. 4 della lettera in esame), ad esempio imputabile a “mancata manutenzione del territorio o a situazioni di rischio” oppure a “squilibri degli habitat”, circostanza che ricorre di frequente in plaghe ad alta fragilità territoriale (come talune zone alpine e vallive, la Laguna, il Delta, ecc.). In altre parole, poiché gli ambiti degradati possono essere contraddistinti anche solo da una tipologia di elementi detrattori, come quelli ambientali appena richiamati, e poiché – ai sensi della lett. c) dell’art. 2.1 – gli ambiti possono riguardare pure nuclei insistenti in zona agricola, la riqualificazione potrà interessare anche estensioni del tutto estranee alla classica casistica edificatoria (purché si tratti di aree ricadenti in ambiti di urbanizzazione consolidata come definiti dalla lett. a) dell’art. 2 della legge).

Spetta al pianificatore comunale individuare a livello locale, facendo applicazione delle definizioni dettate dall’art. 2 prima citato, gli ambiti di degrado assoggettabili a riqualificazione urbana ed il loro perimetro. L’estensione dell’ambito va calibrata con il Piano degli Interventi (P.I.), analogamente a quanto viene previsto per gli interventi di riqualificazione edilizia ed ambientale considerati dal precedente art. 5 (cfr. co. 2 dello stesso).

Di conseguenza, detta attività individuativa rientra ora tra i contenuti propri del P.I. che si trovano arricchiti di questo ulteriore scopo programmatorio ad integrazione di quanto puntualmente descritto al secondo comma dell’art. 17 della l.r. n. 11/04, il quale illustra nel dettaglio le misure e le determinazioni a cui deve provvedere il Piano in questione. Tra l’altro, già l’art. 17 in parola – pur in modo meno esplicito e definito – assegnava al PI un ruolo promozionale nella riqualificazione del territorio, prova ne sia che il quarto comma della norma dispone che “per individuare le aree nelle quali realizzare interventi di nuova urbanizzazione o riqualificazione, il comune può attivare procedure ad evidenza pubblica, cui possono partecipare i proprietari degli immobili nonché gli operatori interessati, per valutare le proposte di intervento che risultano più idonee a soddisfare gli obiettivi e gli standard di qualità urbana ed ecologico-ambientale definiti dal PAT”.

La legge si preoccupa che la pianificazione non venga elaborata in modo generico e che lo strumento urbanistico non si limiti a mere previsioni localizzative, non assistite da una analisi adeguata e prospettica dell’assetto territoriale volta a volta esaminato. Per questo, il PI oltre ad indicare il perimetro dell’ambito deve disciplinare gli interventi di riqualificazione con una apposita “scheda”. È necessario che questo particolare documento si faccia carico, in virtù di quanto prescritto al secondo comma dell’articolo, di ponderare specificamente la regolazione degli interventi consentiti e certuni aspetti di essi debbono costituire l’oggetto precipuo di una valutazione rafforzata: in effetti, la scheda deve “precisare” alcune singole valutazioni, dando espressamente conto di averle maturate. Esse debbono riguardare: i fattori di degrado, gli obbiettivi della riqualificazione, i limiti e i parametri di zona, le destinazioni d’uso, le misure di tutela e di compensazione nonché la sostenibilità idraulica delle possibili intraprese. La perentorietà del testo, che esige la presenza di tali precisazioni all’interno della scheda di disciplina, porta a concludere per l’illegittimità di previsioni pianificatorie incomplete che non accompagnino la localizzazione dell’ambito con la piena specificazione di quanto appena illustrato.

È inoltre opportuno che il P.I. normi le concrete modalità attuative degli interventi di riqualificazione. Sul punto, l’ultimo comma dell’articolo enuncia in via generale tre possibili modi di attuazione, senza graduare la loro operatività concreta o fornire indicazioni similari di tipo pratico. In questo senso, vi è quindi una piena libertà ed autonomia del Comune nel selezionare le forme esecutive reputate più rispondenti e funzionali all’obiettivo, ferma la necessaria osservanza dei presupposti di legge per ciascuna delle modalità possibili. Tuttavia, va da sé che una pianificazione di così alto livello definitorio, come quella evocata dal secondo comma, implichi giocoforza l’esigenza di fornire anche una puntuale indicazione sullo strumento ritenuto idoneo allo scopo e di fissare detta indicazione nella scheda di riferimento, senza rimettere la scelta alle libere determinazioni del soggetto attuatore.

Innanzitutto, la lett. a) dell’ultimo comma individua nei piani urbanistici attuativi regolati agli artt. 19 e 20 della l.r. n. 11/04 uno strumento ordinario per l’attivazione degli interventi di riqualificazione urbana. Data la peculiare natura di questi ultimi, è agevole arguire che la ricorrenza pratica di tale strumento promuoverà soprattutto i piani esecutivi di cui alle lettere d), e) ed f) del citato art. 19, vale a dire il piano di recupero di cui all’articolo 28 della legge 5 agosto 1978 n. 457, il piano ambientale di cui all’articolo 27 della legge regionale 16 agosto 1984, n. 40 (“Nuove norme per la istituzione di parchi e riserve naturali regionali“) e il programma integrato di cui all’articolo 16 della legge 17 febbraio 1992, n. 179. Non deve sfuggire che, secondo la norma appena citata, il “programma integrato è lo strumento di attuazione della pianificazione urbanistica per la realizzazione coordinata, tra soggetti pubblici e privati, degli interventi di riqualificazione urbanistica, edilizia ed ambientale”. Il tema della riqualificazione trova, quindi, nel programma integrato uno strumento dedicato e concepito in funzione del “riordino degli insediamenti esistenti e il ripristino della qualità ambientale anche attraverso l’ammodernamento delle urbanizzazioni primarie e secondarie e dell’arredo urbano, il riuso di aree dismesse, degradate, inutilizzate, a forte polarizzazione urbana, anche con il completamento dell’edificato” (cfr. la lett. f) cit.). Per quanto riguarda, invece, i piani di recupero è sostenibile che l’individuazione da parte del P.I. dell’ambito degradato tenga luogo – ad ogni conseguente effetto – della apposita deliberazione consiliare richiesta dal secondo comma dell’art. 27 della L. n. 457 del 1978.

Anche se uno strumento attuativo di riqualificazione sembra difficilmente riducibile, per la sua complessità, allo schema di base della preventiva urbanizzazione e della successiva edificazione, va tenuta presente – per completezza – pure l’applicabilità dell’art. 18 bis della l.r. n. 11/04, secondo il quale “sono sempre ammessi in diretta attuazione degli strumenti urbanistici generali, anche in assenza dei piani attuativi dagli stessi richiesti, gli interventi sul patrimonio edilizio esistente di cui alle lettere a), b), c) e d), dell’articolo 3 del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380 “Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia” e quelli di completamento su parti del territorio già dotate delle principali opere di urbanizzazione primaria e secondaria”, tanto più che, a mente del co. 7 sexies dell’art. 48 della medesima legge regionale n. 11, “fino al primo PAT e PI sono sempre ammessi gli interventi di cui all’articolo 18 bis”.

In secondo luogo, viene indicato dalla norma (cfr. la lett. b del comma in discussione) il comparto di cui all’art. 21 della l.r. n. 11. Al riguardo, è utile rammentare che l’articolo testé citato statuisce che la delimitazione del comparto e i termini esecutivi dello stesso “sono stabiliti da un PUA oppure dal piano degli interventi”. Nel caso di specie, il comparto va sicuramente visto come strumento alternativo al PUA, già trattato alla lettera precedente, di talché se è pur vero che il comparto potrebbe riguardare tutto o parte di un PUA (cfr. secondo comma dell’art. 21 cit.), in ipotesi di riqualificazione urbana esso sarà principalmente destinato a “ricomprendere gli interventi singoli spettanti a più soggetti in attuazione diretta del piano degli interventi (PI)” (come esattamente previsto sempre dal medesimo comma dell’art. 21). L’istituto del comparto deve, poi, il suo interesse al fatto che al consorzio costituito per l’attuazione dell’intervento la legge riconosce “titolo per procedere all’occupazione temporanea degli immobili dei dissenzienti per l’esecuzione degli interventi previsti, con diritto di rivalsa delle spese sostenute nei confronti degli aventi titolo, oppure per procedere all’espropriazione degli stessi immobili ai prezzi corrispondenti all’indennità di esproprio” (cfr. quinto comma dell’art. 21). Pertanto, la possibilità di ricorso alle procedure ablative segnala un indubbio gradiente positivo per le finalità attuative in programma.

Da ultimo, la lett. c) del comma accredita i permessi di costruire convenzionati, ai sensi dell’articolo 28 bis del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380. Si tratta, come noto, di uno strumento introdotto dalla decretazione c.d. “sblocca-Italia” (D.L. n. 133/2014) e che si giustifica qualora le esigenze di urbanizzazione possano essere soddisfatte con una modalità semplificata e, comunque, laddove sussistano i necessari presupposti di “soddisfacimento di un interesse pubblico” (cfr. secondo comma dell’art. 28 bis). Il legislatore statale non ha posto limiti alla enucleazione degli interessi generali perseguibili, prova ne sia che l’elencazione contenuta nel terzo comma dell’art. 28 bis (edilizia residenziale sociale, rilevanti opere di urbanizzazione, ecc.) riveste per stessa previsione redazionale una funzione meramente esemplificativa. Ne deriva che opportunamente il testo regionale rimanda a questa innovativa modalità di attuazione convenzionale come abito operativo di interventi di riqualificazione urbana.

Infine, va sottolineato che, al terzo comma, il presente articolo chiarisce che il “PI può prevedere il riconoscimento di crediti edilizi per il recupero di potenzialità edificatoria negli ambiti di urbanizzazione consolidata, premialità in termini volumetrici o di superficie e la riduzione del contributo di costruzione”. Viene pertanto ripetuta anche per la riqualificazione urbana una previsione di favore del tutto identica a quella dettata al secondo comma del precedente art. 5 per la riqualificazione edilizia e ambientale, con la conseguenza che, a commento di tali misure di agevolazione, può essere richiamato quanto già illustrato in quella sede.

Resta inteso che le previsioni premiali andranno messe in atto entro un corretto contesto applicativo: da un lato, non va dimenticata la necessità di rispettare in ogni caso le dotazioni stabilite dallo strumento urbanistico generale, dal momento che la riqualificazione si attua “fermo restando il rispetto del dimensionamento del piano di assetto del territorio (PAT)“ (cfr. il secondo comma dell’articolo in commento); dall’altro lato, il bonus assegnato caso per caso non andrà confuso con quanto è già realizzabile in via aggiuntiva in base alla normativa (l.r. n. 14/09) sul c.d. “piano-casa”, espressamente fatta salva dal successivo art. 12. Come noto, la legislazione sul “piano-casa” – all’art. 3 della stessa – contiene disposizioni di marcata incentivazione della riqualificazione del patrimonio edilizio esistente e non per nulla la presente legge si premura alla lett. g) del citato art. 12 di precisare che dette “premialità sono da considerarsi alternative e non cumulabili” con quelle assegnabili con il presente articolo.

Commento all’art. 5 l.r. n. 14/2017

di Mario Panzarino e Giulio Vidali

ART. 5
Riqualificazione edilizia ed ambientale
1. Rispondono alla finalità di cui al presente Capo:

a) la demolizione integrale di opere incongrue o di elementi di degrado nonché di manufatti ricadenti in aree a pericolosità idraulica e geologica, o nelle fasce di rispetto stradale, con ripristino del suolo naturale o seminaturale, fatti salvi eventuali vincoli o autorizzazioni;
b) il recupero, la riqualificazione e la destinazione ad ogni tipo di uso compatibile con le caratteristiche urbanistiche ed ambientali del patrimonio edilizio esistente, mediante il miglioramento della qualità edilizia in relazione a tutti o ad una parte rilevante dei parametri seguenti: qualità architettonica e paesaggistica; qualità delle caratteristiche costruttive, dell’impiantistica e della tecnologia; efficientamento energetico e riduzione dell’inquinamento atmosferico; eliminazione o riduzione delle barriere architettoniche; incremento della sicurezza sotto il profilo, statico e antisismico, idraulico e geologico, garantendo nella trasformazione dell’area l’invarianza idraulica e valutando, ove necessario, il potenziamento idraulico.

2. Fermo restando il rispetto del dimensionamento del piano di assetto del territorio (PAT), il piano degli interventi (PI) di cui all’articolo 12, comma 3, della legge regionale 23 aprile 2004, n. 11, definisce le misure e gli interventi finalizzati al ripristino, al recupero e alla riqualificazione nelle aree occupate dalle opere di cui al comma 1 e prevede misure di agevolazione che possono comprendere il riconoscimento di crediti edilizi per il recupero di potenzialità edificatoria negli ambiti di urbanizzazione consolidata, premialità in termini volumetrici o di superficie e la riduzione del contributo di costruzione. Le demolizioni devono precedere l’eventuale delocalizzazione delle relative volumetrie in area o aree diverse, salvo eccezioni motivate e prestazione di adeguate garanzie.
3. Il suolo ripristinato all’uso naturale o seminaturale, con utilizzazione delle agevolazioni di cui al comma 2, è assoggettato ad un vincolo di non edificazione, trascritto presso la conservatoria dei registri immobiliari a cura e spese del beneficiario delle agevolazioni; il vincolo permane fino all’approvazione di una specifica variante allo strumento urbanistico che non può essere adottata prima di dieci anni dalla trascrizione del vincolo.

Sommario: 1. Premessa: un cambio di prospettiva2. Interventi di demolizione3. Interventi di recupero e riqualificazione4. Le direttive per la disciplina degli interventi5. Gli indirizzi regolativi6. Gli indirizzi sulle misure di incentivazione7. I meccanismi premiali8. Il ruolo del Comune9. Vincoli e garanzie.

1. Premessa: un cambio di prospettiva

Tradizionalmente, nel mondo dell’urbanistica è sempre stato valido il principio secondo cui “nulla si distrugge”: tanto le volumetrie esistenti quanto gli indici assegnati sono stati valutati sic et simpliciter come un elemento idoneo a rappresentare – sempre ed automaticamente – un valore economico in sé, da difendere nella sua consistenza e, se possibile, da aumentare nella sua misura.

Ma il mondo è cambiato: e questo tipo di impostazione “classica”, negli ultimi anni, ha dovuto cedere il passo sotto i colpi combinati della crisi economica mondiale e, più in particolare, di quella del settore immobiliare, che ha colpito con grande incisività il territorio veneto, a fronte di un evidente eccesso di offerta[1].

Fenomeni come quello delle “varianti verdi[2]”, anche solo pochi anni fa, erano impensabili: ed è sempre meno raro assistere alla demolizione di edifici esistenti per far posto, ad esempio, a coltivazioni di pregio. Si tratta davvero di un cambio epocale, che può e deve portare ad un’inversione di rotta tanto da parte pubblica, nel governo del territorio, quanto da parte dei singoli, nell’impostazione mentale.

Nel contesto attuale, la demolizione senza ricostruzione di manufatti esistenti non deve dunque più considerarsi alla stregua di una perdita “secca” di valore economico: in molti casi oggi un intervento di “pulizia” del territorio può avere positivi effetti economici.

Mentre un edificio dismesso o in condizioni di degrado rappresenta un costo certo sia in termini fiscali che in termini di mantenimento (oltre che un’immobilizzazione di capitali non facilmente reversibile sul mercato attuale) la sua demolizione per realizzare un’area verde determinerà, per converso, un sensibile aumento del pregio, e dunque del valore, degli edifici circostanti, specie laddove ci si trovi in un contesto abitativo di particolare densità[3]. Allo stesso modo, un vecchio capannone abbandonato in zona agricola, magari lungo un fiume e nei pressi di un percorso ciclabile, oggi non rappresenta in sé un valore, ma solo un costo: la sua integrale demolizione, con la possibilità di realizzare in sua sostituzione un piccolo chiosco-bar, magari con annessa officina per biciclette, può invece rivelarsi ben più conveniente sul piano economico e ben più rilevante per l’interesse della collettività (oltre che contribuire ad un innalzamento generale della qualità dell’ambiente).

La norma in esame si inserisce in questo trend ed è finalizzata proprio a consentire una più efficace gestione di problematiche analoghe a quelle descritte, fornendo strumenti più adeguati e direttive più incisive nel confronto con le nuove questioni poste dalla realtà economica ed ambientale.

Si badi bene: non si tratta di strumenti nuovi: quanto alle demolizioni, la legge urbanistica veneta già nel 2004, in modo davvero lungimirante, consentiva, con l’introduzione del credito edilizio, interventi non dissimili da quelli auspicati dalle nuove norme. Quanto agli incentivi al recupero ed alla riqualificazione, invece, alcuni degli strumenti proposti dall’articolo 5 in esame trovano un precedente nella legislazione eccezionale del cosiddetto “Piano Casa”.

La novità della norma, in questa prospettiva, sta in un rilancio ed in una riorganizzazione di questi strumenti che si rendono oggi più che mai necessari, a fronte della “scomparsa” dell’interesse (economico) a nuove espansioni e dell’avanzare della sensibilità (culturale) per il riuso dell’esistente e la tutela delle risorse non rinnovabili (quale è il suolo[4]).

Con la norma in esame, dunque, si intende perfezionare, coordinare e dare nuovo vigore ad alcuni strumenti giuridici che – già presenti in gran parte nell’ordinamento – vengono ora combinati tra loro per essere estesi a nuovi ambiti, dotati di maggiore flessibilità ed infine collocati in un contesto di obiettivi e direttive che ne possa consentire la più ampia, incisiva e coerente applicazione.

2. Interventi di demolizione

Al primo comma dell’articolo in commento il Legislatore regionale ha voluto cristallizzare in modo chiaro ed inequivoco le finalità cui devono tendere gli interventi di riqualificazione edilizia ed ambientale.

Obiettivo prioritario di questi interventi è incentivare il ripristino di “suolo naturale o seminaturale” mediante la demolizione integrale di opere incongrue o elementi di degrado ovvero dei manufatti ricadenti in zone sensibili, come le aree di pericolosità idraulica e geologica o le fasce di rispetto.

Per “superficie naturale o seminaturale” si intendono[5]tutte le superfici non impermeabilizzate, comprese quelle situate all’interno degli ambiti di urbanizzazione consolidata e utilizzate, o destinate a verde pubblico o ad uso pubblico, quelle costituenti continuità ambientale, ecologica e naturalistica con le superficie esterne della medesima natura, nonché quelle destinate all’attività agricolo” (cfr. lett. a), art. 2, co. 1).

Emerge dunque chiaramente l’obiettivo perseguito dalla “nuova” legge regionale con l’introduzione degli interventi di riqualificazione edilizia ed ambientale: incentivare il ripristino di “superfici naturali o seminaturali” (ossia, le superfici non impermeabilizzate) anche (e soprattutto) all’interno degli ambiti di urbanizzazione consolidata (ossia all’interno delle aree già edificate), così da consentire la realizzazione di spazi verdi attrezzati all’interno delle città.

La norma fa espresso riferimento agli interventi di “demolizione integrale”. Devono pertanto ritenersi esclusi gli interventi di “demolizione parziale” delle singole opere incongrue o elementi di degrado ovvero dei manufatti che insistono sulle aree sensibili, salva ovviamente la possibilità di riferire comunque la demolizione “integrale” a singoli elementi o unità funzionalmente autonomi nel contesto di più ampi compendi immobiliari. Ovviamente sarà il Piano degli Interventi (cfr. amplius infra) ad individuare i manufatti da demolire nell’ambito degli interventi di riqualificazione edilizia ed ambientale.

Ai fini dell’applicabilità della legge in commento, per “opere incongrue ed elementi di degrado” si intendono quegli edifici ed altri manufatti che, per caratteristiche localizzative, morfologiche, strutturali, funzionali, volumetriche od estetiche, costituiscono elementi non congruenti con il contesto paesaggistico, ambientale od urbanistico o sotto il profilo igienico-sanitario e della sicurezza (cfr. lett. f), art. 2, co. 1). La valutazione di “congruenza” non viene dunque limitata ai soli parametri urbanistici (quale, ad esempio, la compatibilità con le destinazioni d’uso ammesse dello strumento urbanistico generale), dovendo, al contrario, spingersi sino all’esame dei valori paesaggistici e/o ambientali propri dalla zona di riferimento, senza trascurare i profili igienico-sanitari e di sicurezza[6].

La legge in commento non definisce le “aree a pericolosità idraulica e geologica”. Sembrerebbe pertanto necessario rinviare alle disposizioni dei Piani di Assetto Idrogeologico (PAI)[7], che definiscono ed individuano puntualmente le aree a pericolosità idraulica e geologica nonché, ove previsto, ai Piani di Assetto del Territorio (PAT), i quali, infatti, contengono una specifica disciplina normativa in ordine alle invarianti di natura geologica, geomorfologica e idrogeologica (cfr. art. 13, co. 1, lett. b), l.r. n. 11/2004). Deve tuttavia rilevarsi che l’art. 3, co. 3, della legge in commento demanda agli strumenti di pianificazione il compito di “individuare le parti di territorio a pericolosità idraulica e geologica” (cfr. lett. d). Ai fini dell’applicazione di questa norma, sarà quindi necessario che i singoli Comuni, ove non vi abbiano già provveduto, individuino le “aree a pericolosità idraulica e geologica”, coerentemente con gli indirizzi dei PAI ed eventualmente dei PAT.

Si segnala che il Legislatore veneto già con la l.r. n. 32/2013 (cd. “Terzo Piano Casa”)[8] aveva cercato di incentivare la demolizione integrale dei manufatti che insistono in aree dichiarate ad “alta pericolosità idraulica o idrogeologica” e la loro ricostruzione in aree dichiarate di non “pericolosità idraulica o idrogeologica”[9], attribuendo all’uopo ulteriori bonus volumetrici. Questa disposizione è tuttora vigente: appare dunque evidente che il Comune (nelle aree ad alta pericolosità) dovrà prevedere incentivi maggiori rispetto a quelli previsti dal “Piano Casa” – almeno fino alla perdurante validità della legislazione eccezionale – coordinando le misure previste dal Piano degli Interventi con quelle proposte dal “Piano Casa”.

Per quanto riguarda le “fasce di rispetto” è sufficiente ricordare che esse sono definite e regolate da specifiche disposizioni normative finalizzate alla tutela di particolari beni, infrastrutture e servizi (cfr. art. 41 l.r. n. 11/2004). Tra le più significative “fasce di rispetto” possono annoverarsi quelle volte alla tutela del demanio stradale, alla tutela del demanio marittimo, alla tutela del demanio idrico, alla tutela del demanio militare, alla tutela dei cimiteri, etc.

In senso opposto, si segnala la recente l.r. n. 30/2016 (cd. “Collegato alla legge di stabilità regionale 2017”), la quale all’art. 63[10] ha previsto la possibilità per i Piani degli Interventi di consentire ampliamenti dei fabbricati residenziali esistenti nelle fasce di rispetto delle strade. Al Piano degli Interventi è dunque rimessa la scelta urbanistica se consentire eventuali ulteriori ampliamenti in fascia di rispetto stradale ovvero – attraverso interventi di riqualificazione edilizia ed ambientale – incentivare lo spostamento di questi manufatti mediante la loro demolizione integrale.

3. Interventi di recupero e riqualificazione

Ulteriore obiettivo prioritario della legge è quello di “recuperare”, “riqualificare” e “rifunzionalizzare” il patrimonio immobiliare esistente attraverso interventi che possano assicurare l’effettivo “miglioramento della qualità edilizia”.

La norma in commento precisa altresì che il “miglioramento della qualità edilizia” deve essere valutato in relazione “a tutti o ad una parte rilevante” di alcuni parametri tassativamente previsti dalla stessa disposizione.

Si tratta, in particolare: (i) della qualità architettonica e paesaggistica; (ii) della qualità delle caratteristiche costruttive, dell’impiantistica e della tecnologia; (iii) dell’efficientamento energetico e riduzione dell’inquinamento atmosferico; (iv) dell’eliminazione delle barriere architettoniche; (v) dell’incremento della sicurezza sotto il profilo statico e antisismico, idraulico e geologico, garantendo nella trasformazione dell’ara l’invarianza idraulica e valutando, ove necessario, il potenziamento idraulico.

L’esame della qualità architettonica e paesaggistica riguarda essenzialmente il profilo architettonico del progetto presentato ed il suo inserimento nel paesaggio circostante. È dunque richiesta una valutazione complessa, che tenga conto sia dei profili strettamente edilizi-architettonici che dei profili propriamente paesaggistici, al fine di assicurare l’armonica integrazione con l’ambiente circostante. Questa valutazione ha evidentemente natura discrezionale, ma non potrà sfociare in valutazioni soggettive o addirittura arbitrarie. Dovrà sempre tenere in debita considerazione la situazione di fatto esistente, il grado di compromissione del contesto, l’ubicazione dell’area interessata dal progetto, l’inserimento del progetto nell’ambiente circostante etc., con particolare attenzione al paesaggio ed al miglioramento complessivo generato dall’approvazione dal progetto.

L’esame della qualità delle caratteristiche costruttive, dell’impiantistica e della tecnologia nonché dell’efficientamento energetico e riduzione dell’inquinamento atmosferico dovrà invece essere effettuata sulla base delle specifiche tecniche contenute nelle norme di settore (NTC 2008, d.m. 37/2008, d.lgs. n. 192/2005, d.P.R. 59/2009, l.r. n. 4/2007, etc.). Una migliore qualità edilizia sarà garantita, ad esempio, dall’utilizzo di impianti tecnologici volti ad assicurare una maggiore coibentazione dei fabbricati, dall’adozione di sistemi di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili in misura superiore a quella prescritta per legge, nonché dall’utilizzo di tecniche costruttive di “edilizia sostenibile” etc.

Ulteriore parametro previsto è quello relativo all’eliminazione delle barriere architettoniche. In precedenza, già la l.r. n. 16/2007[11] e la l.r. n. 32/2013 (cd. “Terzo Piano Casa”)[12] avevano cercato di favorire l’eliminazione delle barriere architettoniche attraverso l’introduzione di misure premiali e semplificazione; ora la “nuova” legge regionale pone l’eliminazione delle barriere architettoniche quale presupposto oggettivo per valutare il “miglioramento della qualità edilizia” degli interventi di riqualificazione.

L’ultimo parametro ha ad oggetto il miglioramento apportato sotto il profilo della maggiore sicurezza statica, delle migliori misure antisismiche[13]. nonché della maggiore sicurezza idraulica e geologica[14]. Questo parametro ha dunque ad oggetto il differenziale tra la situazione esistente e la situazione progettata, al fine di poter verificare l’effettivo miglioramento complessivo delle strutture sotto i predetti profili.

Il progetto deve inoltre garantire l’invarianza idraulica, ossia non deve provocare un aggravio alla portata di piena del corpo idrico riceventi e i deflussi superficiali derivati dall’area interessata dal progetto (cfr. lett. m) art. 2, co. 1). Al progetto sarà quindi necessario allegare una puntuale Valutazione di Compatibilità Idraulica[15].

In ogni caso, sarà positivamente valutata l’adozione di eventuali misure di “potenziamento idraulico”, ossia misure volte ad effettuare tutti gli interventi preventivi sui corpi idrici superficiali indirizzati alla protezione dell’ambiente e delle persone in ragione dei radicali cambiamenti climatici (cfr. lett. n) art. 2, co. 1). Tra queste, potranno annoverarsi gli interventi di pulizia degli alvei e delle sponde dei corpi idrici limitrofi alle aree di intervento.

Sotto un profilo procedimentale, la valutazione del “miglioramento della qualità edilizia” sarà verosimilmente svolta nel corso del procedimento di rilascio del titolo edilizio, considerato che presuppone l’esame del progetto architettonico definitivo, comprensivo di tutta la documentazione afferente gli impianti tecnologici adottati nel progetto. Questa valutazione è quindi rimessa agli Uffici tecnici comunali, i quali dovranno valutare se il progetto presentato sia conforme e coerente con gli indirizzi prescritti dalla variante al Piano degli Interventi di cui al secondo comma (cfr. infra).

Ovviamente, nell’ambito del contraddittorio procedimentale, l’Amministrazione dovrà e potrà interloquire con il proponente ed il tecnico incaricato al fine di meglio adeguare la progettazione del singolo intervento agli indirizzi dati dalla presente legge e dalle norme attuative inserite nello strumento urbanistico comunale.

4. Le direttive per la disciplina degli interventi

Il secondo comma dell’articolo in commento affida al Piano degli Interventi il compito di provvedere alla disciplina operativa degli interventi indicati e definiti dal primo comma della norma. A tal fine, gli indirizzi dati al pianificatore comunale sono di due tipi.

Il primo, più classico, è quello “regolativo” e si riferisce alla necessità di precisare la disciplina degli interventi proposti, dando quindi “corpo”, definizione e disciplina a tutti quegli elementi cui la norma in esame si limita a fare un riferimento più generico.

Il secondo tipo di direttiva è invece quella “premiale” e propone (rectius, impone) l’utilizzo di misure incentivanti finalizzate a rendere meno onerosi o più convenienti gli interventi la cui realizzazione è prevista ed auspicata.

5. Gli indirizzi regolativi

Sotto il profilo regolativo, se lo spazio dato allo strumento urbanistico è più limitato rispetto agli interventi di demolizione previsti dalla lettera a) del primo comma (la cui definizione è data già dalla legge con sufficiente grado di precisione), non altrettanto può dirsi degli interventi di recupero/riqualificazione/destinazione del patrimonio edilizio esistente di cui alla successiva lettera b).

In tale secondo caso, infatti, sembrerebbe spettare al pianificatore comunale indicare quali parametri, tra i vari indicati dalla norma, debbano ritenersi rilevanti al fine di valutare il “miglioramento della qualità edilizia” dell’immobile o degli immobili oggetto di intervento. Ciò a maggior ragione, se si considera che – a fronte dell’ampio bouquet di parametri forniti dalla norma – non sempre (nello specifico intervento o contesto territoriale) tutti i criteri possono effettivamente rilevare nella valutazione del miglioramento di qualità del costruito.

Si pensi ad un manufatto che sia stato oggetto di un recente intervento di rifacimento totale degli impianti con inserzione di sistemi di sfruttamento di energie rinnovabili e conseguente acquisizione della massima classe energetica: nella eventuale valutazione dell’intervento di recupero non sarà certo il parametro della qualità dell’impiantistica e dell’efficientamento energetico a venire in rilievo. Se tuttavia quello stesso immobile presenta scarsissima qualità architettonica ed è posizionato in un contesto di pregio paesaggistico, sarà invece il parametro del miglioramento di tali caratteristiche quello su cui si dovrà e potrà “far leva” per progettare e valutare il miglioramento della qualità edilizia.

Proprio per fare fronte in modo adeguato ed efficace a questo tipo di casistica – potenzialmente infinita nel numero e modalità di combinazione tra i parametri di volta in volta rilevanti – il Legislatore ha ritenuto opportuno prevedere una certa flessibilità nell’applicazione dei criteri di valutazione degli interventi, affidando le scelte operative al pianificatore comunale, che meglio di chiunque conosce il proprio territorio e le specifiche problematiche che esso pone.

La norma non precisa con quali modalità tale flessibilità dovrà essere applicata in seno allo strumento urbanistico: spetterà dunque a ciascun pianificatore declinare come meglio ritenuto opportuno tale disciplina. In prima battuta, è possibile immaginare un approccio “generale” che identifichi delle regole valide per tutto il territorio comunale o – più probabilmente – per specifici, ma comunque ampi, ambiti territoriali omogenei, rimandando alla sede edilizia/autorizzativa ogni verifica di rispondenza ai criteri di miglioramento della qualità del costruito.

In alternativa, è ben possibile – sebbene più gravoso, per il pianificatore – procedere in via “atomistica”, di fatto “schedando” i singoli immobili o insiemi di immobili[16] (per intendersi, come è d’uso per i centri storici o per le attività in zona impropria) e dunque individuando già in sede urbanistica quali siano i criteri di valutazione cui far di volta in volta riferimento nella progettazione del miglioramento della qualità architettonica. Non è neppure esclusa la possibilità di operare con modalità “ibrida”, riservando la “schedatura” solo ad interventi di impatto o importanza maggiore, nel contesto di una normativa generalmente applicabile a tutti gli interventi di demolizione o recupero.

6. Indirizzi sulle misure di incentivazione

Quale che sia la disciplina regolativa che ciascun Comune deciderà di introdurre, in connessione ad essa il pianificatore dovrà comunque prevedere delle forme di incentivazione degli interventi, così da dare attuazione alla seconda “direttiva” data dal Legislatore al secondo comma dell’articolo 5, ovvero quella della premialità.

Alla base di questo indirizzo sta l’evidente consapevolezza dei risultati positivi sin qui raggiunti – in termini di riqualificazione del patrimonio edilizio esistente – da politiche “attive” di governo del territorio che non si limitano a fornire una mera disciplina degli interventi (sperando poi, per la loro attuazione, nella buona volontà di chi vi ha interesse) ma che intervengono anche al fine di agevolare la realizzazione degli interventi auspicata, operando così – in coerenza con i modelli comunitari – una convergenza tra buone pratiche e convenienza.

In tal senso, il pianificatore comunale viene spinto non tanto ad imporre la scelta del recupero (obbligo che spesso, a fronte di oneri rilevanti, rimane solo sulla carta, con il risultato che l’edificio non viene affatto recuperato ma rimane in stato di degrado) quanto ad incentivare tale opzione garantendo una serie di agevolazioni sostanziali. Il Legislatore ne indica alcune: il riconoscimento di crediti edilizi da “reimpiegare” in ambiti urbanizzati, premialità volumetriche, la riduzione del contributo di costruzione.

Si tratta, come si è già detto, di strumenti già presenti nell’ordinamento: nella legislazione regionale ordinaria (si pensi al credito edilizio, già previsto dall’art. 36 l.r. n. 11/2004[17] anche in relazione ad interventi di demolizione e/o riqualificazione), nella normativa statale[18] nonché in quella eccezionale tanto di fonte statale[19] quanto di fonte regionale (come ad esempio gli ampliamenti volumetrici e le agevolazioni sui contributi previsti dalla l.r. n. 14/2009 ed ora dalla l.r. n. 14/2019).

Tale elencazione, tuttavia, non è da considerarsi tassativa. Le misure di agevolazione che spetta al pianificatore comunale individuare, infatti, “possono comprendere” quelle elencate dalla norma, ma possono altresì consistere in altri e diversi strumenti incentivanti, anche in tal caso “ritagliati su misura” a seconda delle esigenze e particolarità dei casi.

Qui, tanto nella disciplina dei meccanismi di incentivazione (quale incentivo applicare al singolo intervento? In quale rapporto deve stare lo specifico incentivo con la demolizione o il miglioramento della qualità edilizia?) quanto nell’individuazione di nuovi e diverse forme di incentivazione all’intervento riemerge lo spazio “regolativo” affidato al pianificatore comunale.

7. I meccanismi premiali

Quanto ai meccanismi di funzionamento delle misure di agevolazione, infatti, ampio è lo spazio per agire in sede operativa: il medesimo intervento può essere infatti oggetto di diverse misure incentivanti, calibrate – ed eventualmente graduate – a seconda di quali siano le finalità che il pianificatore si prefigge o preferisce. La demolizione di un intero edificio può portare al riconoscimento di un credito edilizio in misura pari o inferiore all’esistente dove l’incongruità del manufatto non sia grave, mentre l’eliminazione di un elemento di degrado nella piazza del paese – ad esempio – può per converso giustificare un “tasso di conversione” in crediti edilizi di maggior convenienza.

Allo stesso modo, si può prevedere che un intervento di recupero che porti al mero efficientamento energetico di un determinato edificio consegua il riconoscimento di qualche beneficio economico o di un ampliamento minimo, mentre la sua riqualificazione architettonica possa invece consentire anche un aumento volumetrico più consistente o (ove il bene presenti un pregio che non consente modifiche volumetriche incisive) il riconoscimento di un credito edilizio. Non è detto che i meccanismi di incentivazione debbano per forza ed in ogni caso riferirsi al singolo intervento: è ovviamente possibile procedere in via generale, ipotizzando ad esempio la possibilità di ampliare – in via generalizzata ed in una certa misura, eventualmente graduale – ogni immobile che sia sottoposto ad interventi tali da garantire il raggiungimento di una classe energetica superiore. Anche in tal caso, insomma, la casistica può essere sterminata, e spetta al pianificatore comunale disciplinarla.

Non minore attenzione va poi data all’individuazione di nuove ed originali forme incentivanti, diverse da quelle già proposte dalla norma. Anche qui la possibilità (o la necessità) di innovare può rinvenirsi ponendo mente al singolo caso. Si pensi al cambio di destinazione d’uso, alla possibilità di una totale traslazione, senz’alcun vincolo di sedime, del volume esistente all’interno del lotto o, ove ne sussistano i presupposti, al declassamento del grado di protezione vigente sull’immobile[20]. Ancora, si può immaginare di connettere la demolizione di un manufatto con la possibilità di riuso e gestione dell’area verde ricavata per finalità private di rilievo collettivo (si pensi all’apertura di locali pubblici o di ristorazione) o alla permuta delle aree ove avviene la demolizione con altre aree, di proprietà comunale, site in ambito consolidato.

8. Il ruolo del Comune

Lo spazio dato al pianificatore comunale dalla legge, insomma, appare ampio; è uno spazio di libertà ma, ovviamente, anche di responsabilità: è solo se lo strumento urbanistico riuscirà a “mescolare” in modo sapiente regole ed incentivi, cercando di adeguare le scelte “a misura” di ogni intervento, si otterrà l’esito auspicato dalla legge.

In questo spazio di regolazione ed incentivazione, si profila una nuova centralità per il ruolo del Comune. Come è noto, è stata proprio l’impossibilità di valutare “caso per caso” ogni situazione che ha spinto il Legislatore a non estendere la possibilità di applicare il “Piano Casa” né nei centri storici, dove vi fossero gradi di protezione di un certo rilievo, né nelle zone improprie.

Questa scelta nasceva dalla consapevolezza che più delicato e sensibile è il contesto, o l’immobile, su cui si interviene, più diviene importante la valutazione in dettaglio delle possibilità e limiti del suo recupero: ciò che certo non si poteva fare con un provvedimento di rango legislativo astratto e generale. Non potendo controllarne in dettaglio l’esito, giustamente si è deciso in quella sede di “non rischiare” di operare – con forme di incentivazione “standardizzata” – anche in relazione al recupero del patrimonio edilizio più vulnerabile o sito in contesti delicati.

Per l’effetto, molti immobili che necessiterebbero di interventi di demolizione o recupero e riqualificazione da tutti auspicati ancor oggi restano in condizioni di degrado. In questa prospettiva, l’articolo 5 oggi consente di operare anche su questi immobili, affidando però l’individuazione delle modalità di intervento e di agevolazione al Comune. Si restituisce così all’ente locale, in un certo senso, un ruolo attivo nell’azione di recupero e riqualificazione del patrimonio edilizio esistente avviata dal “Piano Casa”, ponendo il pianificatore comunale al centro della disciplina degli interventi che risultano più delicati, rimasti estranei, negli anni scorsi, agli interventi legislativi a regime eccezionale.

9. Vincoli e garanzie

L’ultima parte del secondo comma dell’articolo, unitamente al comma terzo, sono infine dedicati alla tutela della finalità di “pulizia” del territorio e si riferiscono essenzialmente all’intervento previsto dal comma 1, lett. a) dell’articolo 5 (la cd. “demolizione integrale”).

Si tratta di “garanzie” che rendono più difficoltoso l’eventuale tentativo di eludere la normativa, mantenendo in essere il volume che si dovrebbe demolire o ricostruendo nuovi volumi sulle aree “liberate” in forza della demolizione.

Si tratta di due diversi strumenti: il primo attiene alle modalità dell’intervento di demolizione, che deve avvenire prima dell’eventuale ricostruzione delle volumetrie in altro luogo. La prescrizione tende ad impedire il fenomeno (in passato verificatosi ad esempio con riferimento alla demolizione e ricostruzione in zona agricola di volumi siti in fascia di rispetto, ammessa in forza della l. n. 24/1985) che vedeva l’edificazione di un nuovo immobile (che avrebbe dovuto sostituire il “vecchio”), senza poi – a seguire – la demolizione della preesistenza, con il risultato di rendere illegittimo il nuovo fabbricato.

È ben possibile, in caso di necessità (si pensi alla circostanza in cui la casa da demolire sia l’unica abitazione familiare) demolire dopo la traslazione e ricostruzione dei volumi: ma in tal caso sarà necessario disporre di garanzie fideiussorie che – ove il privato non ottemperi all’impegno relativo alla demolizione – diano al Comune la possibilità ed i mezzi per intervenire in via sostitutiva.

Il secondo strumento è invece rappresentato da un vincolo urbanistico di non edificazione che si impone, a cura e spese dell’interessato, sulle aree oggetto dell’intervento di demolizione. Il vincolo garantisce il mantenimento dell’area “libera” per un decennio almeno: non solo nei confronti delle iniziative private, ma anche nei confronti dell’Amministrazione, che – per un certo tempo – non può comunque consentire l’edificazione delle aree.

Non solo: la norma è altresì finalizzata a dare tutela ai terzi, i quali – a qualche anno di distanza – potrebbero acquistare il bene nell’ignoranza della sua “speciale” condizione giuridica di inedificabilità, la quale non è detto emerga dalla semplice consultazione dello strumento urbanistico o dal rilascio del certificato di destinazione urbanistica. La trascrizione del vincolo, in tal senso, garantisce che sul punto non possa esservi incertezza alcuna[21].

 

[1] A titolo esemplificativo, si pensi che in Provincia di Treviso le aree residenziali previste negli strumenti urbanistici nel 2003 erano già sufficienti a garantire la domanda attesa sino al 2020, cfr. PTCP di Treviso, Relazione di Piano, pg. 78. Nella prospettiva del mercato immobiliare, invero, da alcuni anni si registrano segnali di ripresa: in questo senso, si veda il quadro generale aggiornato su scala nazionale e regionale al maggio 2017 dall’Agenzia dell’Entrate disponibile su http://www.agenziaentrate.gov.it/wps/file/Nsilib/Nsi/Documentazione/omi/Pubblicazioni/Rapporti+immobiliari+residenziali/rapporto+immobiliare2017/RI_2017_QuadroGenerale_15052017.pdf. Si tratta in effetti di un’inversione graduale di marcia – confermata anche dai dati Istat – che, tuttavia, non ha ancora consentito di raggiungere in generale i volumi d’affari consolidati nella prima metà degli anni 2000: ciò vale soprattutto per i piccoli Comuni, il cui trend di ripresa appare ancora debole, sia rispetto ai capoluoghi sia in relazione ai dati pre-crisi.

[2] Le cd. “varianti verdi” sono state introdotte dall’art. 7 della l.r. n. 4/2015. Esse consistono nella riclassificazione delle aree da “edificabili” a “verde”, con conseguente azzeramento della potenzialità edificatoria riconosciuta loro dal vigente strumento urbanistico comunale”. L’utilizzo del termine “verde” suggerisce di riclassificare le aree edificabili come “aree agricole” o “aree a verde privato”, fermo restando la facoltà dei Comuni dotati di Piano di Assetto del Territorio di ricorrere alle classificazioni urbanistiche previste dai rispettivi piani urbanistici (cfr. Circolare cd. “varianti verdi”, approvata con d.G.R. n. 99 del 2.02.2016).

Questa disposizione sta avendo molto successo in Veneto: invero, molti cittadini ed imprese hanno richiesto ai Comuni, conformemente alle previsioni contenute all’art. 7 l.r. n. 4/2015, la riclassificazione delle loro aree edificabili “a verde”, eliminando così la capacità edificatoria attribuita dai vigenti strumenti urbanistici.

[3] In un recentissimo studio edito dalla LIPU – sulla base di precisi riferimenti alla letteratura di settore – si sottolinea che la presenza di importanti spazi verdi in città non determina solo più ovvi benefici in termini ambientali (riduzione dell’inquinamento atmosferico, miglioramento del clima e riduzione dei gas climalteranti, attenuazione dei rumori, protezione idrogeologica) ma comporta altresì un indubbio incremento di valore immobiliare per gli edifici residenziali vicini: “aumenti di valore del 10% sono considerati canonici dalla letteratura (…) in una zona alberata e attraente gli edifici possono essere valutati il 3-12% in più rispetto alle zone prive di alberi e più degradate” (cfr. Dinetti M. 2017. Il verde e gli alberi in città. Documenti Lipu per la Conservazione della Natura n. 2, pg. 18 ss.).

[4] Invero, già la Carta Europea del Suolo (Consiglio d’Europa 1972), definiva il suolo come “..uno dei beni più preziosi dell’umanità” (art. 1), precisando altresì che “il suolo è una risorsa limitata che si distrugge facilmente” (art. 2). Più recentemente, la Strategia tematica per la protezione del suolo del 20106 ha definito il suolo come lo “strato superiore della crosta terrestre”, evidenziando che si “(..) tratta di un sistema estremamente dinamico che svolge numerose funzioni e un ruolo fondamentale per l’attività umana e la sopravvivenza degli ecosistemi. Il processo di formazione e rigenerazione del suolo è molto lento e per questo motivo il suolo è una risorsa essenzialmente non rinnovabile” (cfr. http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=URISERV%3Al28181). Il Parlamento Europeo, inoltre, con l’approvazione del Settimo Programma di Azione Ambientale del 2013 (cfr. http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=CELEX%3A32013D1386#ntr21-L_2013354IT.01017101-E0021), ha fissato le priorità dell’Unione in tale ambito, tra cui “realizzare l’obiettivo di un mondo esente dal degrado del suolo nel contesto dello sviluppo sostenibile” (cfr. considerando n. 19), conformemente alla Risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite A/Res/66/288 del 27 luglio 2012 sui risultati della conferenza Rio + 20 dal titolo «The Future We Want» (Il futuro che vogliamo).

[5] Per un esame più esaustivo, si rinvia al commento dell’art. 2 sulle “definizioni” contenute nella l.r. n. 14/2017.

[6] In tal senso, va ricordato che la categoria del “degrado” in senso edilizio ha assunto nel tempo un’accezione sempre più ampia, tale da annoverare nella casistica profili e caratteristiche che un tempo si consideravano minori o comunque non rilevanti: al contrario, “l’insussistenza di problemi di dissesto e della non necessità di interventi di tipo strutturale, non escludono lo stato di abbandono e degrado consistente nella mancanza di intonaco esterno ed interno, avanzato degrado degli infissi in legno, copertura mancante di strato impermeabile e di un sistema di convogliamento delle acque che giustificano l’inserimento nella attività di recupero” (cfr. C.G.A.S., 18 febbraio 2016, n. 48).

[7] I PAI sono i Piani a scala di bacino idrografico, originariamente previsti dalla legge quadro sulla difesa del suolo n. 183 del 18 maggio 1989 (poi confluita nella legislazione emergenziale di cui al d.l. 180/1998 e al d.l. 279/2000 e relative leggi di conversione, ed ora confluita nel d.lgs. n. 152/2006 e s.m.i., cd. “Codice dell’Ambiente”), che contengono indicazioni precise e dettagliate in ordine alle condizioni di pericolosità idrogeologica del territorio, la perimetrazione delle aree da sottoporre a misure di salvaguardia e la determinazione delle misure stesse.

[8] La l.r. n. 32/2013 ha introdotto l’art. 3-quater alla l.r. n. 14/2009 (cd. “Piano Casa”), il quale prevede che “per gli edifici ricadenti nelle aree dichiarate ad alta pericolosità idraulica o idrogeologica è consentita l’integrale demolizione e la successiva ricostruzione in zona territoriale omogenea propria non dichiarata di pericolosità idraulica o idrogeologica, anche in deroga ai parametri dello strumento urbanistico comunale, con un incremento fino al 50 per cento del volume o della superficie”.

[9] Si noti bene che il Piano Casa fa riferimento alle aree dichiarate di “alta pericolosità idraulica o idrogeologica”. Il Piano Casa, dunque, si riferisce alle sole aree identificate dal PAI come di “alta pericolosità”. Diversamente, la legge regionale in commento si riferisce più genericamente a tutte le aree “a pericolosità idraulica e geologica”. Le prime, dunque, dovrebbero essere ricomprese nelle seconde, ma non viceversa.

[10] L’art. 63, co. 5, l.r. n. 30/2016 ha introdotto il comma 4-ter alla l.r. n. 11/2004, secondo cui: “Il piano degli interventi può altresì consentire, attraverso specifiche schede di intervento, gli ampliamenti dei fabbricati residenziali esistenti nelle fasce di rispetto delle strade, in misura non superiore al 20 per cento del volume esistente, necessari per l’adeguamento alle norme igienico-sanitarie, alle norme di sicurezza e alle norme in materia di eliminazione delle barriere architettoniche, purché tali ampliamenti siano realizzati sul lato opposto a quello fronteggiante la strada e a condizione che non comportino, rispetto alla situazione preesistente, pregiudizi maggiori alle esigenze di tutela della sicurezza della circolazione”.

[11] La l.r. n. 16 del 12.07.2007 ha ad oggetto disposizioni generali in materia di eliminazione delle barriere architettoniche e contiene semplificazioni per l’esecuzione di interventi edilizi volti ad eliminare dette barriere architettoniche.

[12] La l.r. n. 32/2013 aveva infatti modificato la l.r. n. 14/2009 (cd. “Piano Casa”) introducendo, tra le finalità della legge, proprio quella di incentivare l’eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici esistenti (cfr. art. 1, co. 1, lett, b). Invero, l’art 11-bis l.r. n. 14/2009 e s.m.i. ha previsto bonus volumetrici aggiuntivi in caso di eliminazione delle barriere architettoniche.

[13] Si segnala che la Legge Finanziaria 2017 (ossia la legge n. 232 del 11.12.2016, pubblicata in G.U. il 21/12/2016) ha prorogato il cosiddetto “Sisma Bonus” sino al 2021. A seconda dell’intervento programmato sono previste detrazioni del 50-70-80% per le case e del 50-75-85% per i condomini. Il 28 febbraio 2017 il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti ha firmato il decreto recante le “Linee Guida” per la classificazione di rischio sismico delle costruzioni nonché le modalità per l’attestazione, da parte di professionisti abilitati, dell’efficacia degli interventi effettuati (d.m. 28.02.2017). Le “Linee Guida” consentono di attribuire ad un edificio una specifica Classe di Rischio Sismico, mediante un unico parametro che tenga conto sia della sicurezza sia degli aspetti economici. Esse, inoltre, forniscono due metodologie per la valutazione, di cui una semplificata per lavori minori e il miglioramento di una sola classe di rischio, l’indirizzo di massima su come progettare interventi di riduzione del rischio per portare la costruzione ad una o più classi superiori. Sono state individuate otto classi di rischio sismico: da A+ (meno rischio), ad A, B, C, D, E, F e G (più rischio). Per attivare i benefici fiscali occorre fare riferimento alla classificazione prevista dalle nuove “Linee Guida”, con le quali si attribuisce ad un edificio una specifica Classe di rischio sismico. Gli interventi previsti dalla norma in commento, dunque, potranno eventualmente giovarsi anche dei benefici fiscali previsti dalla legge statale.

[14] Questi parametri acquisteranno maggior rilievo nel caso in cui l’edificio o gli edifici da sottoporre ad interventi di riqualificazione edilizia ed ambientale ricadano in aree sensibili sotto il profilo idraulico e/o geologico. Si pensi, ad esempio, a quelle aree ubicate in prossimità di fiumi, torrenti o laghi, che – ancorché non classificate “pericolose” – meritano comunque una particolare attenzione.

[15] Al riguardo, si segnalano le “Linee Guida” per la redazione della Valutazione di Incidenza Idraulica (predisposte dal Commissario Delegato concernente gli eccezionali eventi meteorologici del 26 settembre 2007 che hanno colpito parte del territorio della Regione Veneto – O.P.C.M. n. 3261 del 18.10.2007). Si tratta di un documento dedicato agli operatori tecnici del settore per orientare le scelte progettuali di opere che modificano l’uso del suolo o che comportano comunque delle modificazioni dell’idraulica del territorio.

[16] In questa prospettiva, potrà essere utile una sorta di censimento degli immobili da sottoporre ad intervento, da attuare anche mediante formule partecipative: nel 2014, ad esempio,  il Comune di Milano ha avviato la mappatura degli immobili privati inutilizzati e in stato di degrado proprio al fine di adottare gli indirizzi amministrativi per favorire la riqualificazione ed il recupero del tessuto urbano della città esistente (cfr. http://www.comune.milano.it/wps/portal/ist/it/servizi/territorio/Monitoraggio_edifici_aree_stato_di_degrado).

[17] L’art. 36 l.r. n. 11/2004 è in effetti rubricato “Riqualificazione ambientale e credito edilizio” e, nella sua previgente versione già disponeva quanto segue: “1. Il comune nell’ambito del piano di assetto del territorio (PAT) individua le eventuali opere incongrue, gli elementi di degrado, gli interventi di miglioramento della qualità urbana e di riordino della zona agricola definendo gli obiettivi di ripristino e di riqualificazione urbanistica, paesaggistica, architettonica e ambientale del territorio che si intendono realizzare e gli indirizzi e le direttive relativi agli interventi da attuare. 2. Il comune con il piano degli interventi (PI) disciplina gli interventi di trasformazione da realizzare per conseguire gli obiettivi di cui al comma 1. 3. La demolizione delle opere incongrue, l’eliminazione degli elementi di degrado, o la realizzazione degli interventi di miglioramento della qualità urbana, paesaggistica, architettonica e ambientale di cui al comma 1, determinano un credito edilizio. (…)”. Il dispositivo della norma, pur ribadendo le originarie finalità, è stato ora rivisto dalla legge in commento armonizzandone con maggior dettaglio le previsioni in relazione ai contenuti della novella. Per un esame più approfondito si veda infra il commento all’art. 25.

[18] A livello statale, infatti, più recentemente, la legge n. 164 dell’11.11.2014 (cd. “Sblocca Italia” ) ha introdotto il comma 1-bis all’art. 14 del d.P.R. n. 380/2001 (cd. “Testo Unico dell’Edilizia”) prevedendo, in via generale, misure incentivanti per la riqualificazione edilizia di edifici. Il nuovo comma, infatti, prevede che “per gli interventi di ristrutturazione edilizia, attuati anche in aree industriali dismesse, è ammessa la richiesta di permesso di costruire anche in deroga alle destinazioni d’uso, previa deliberazione del Consiglio comunale che ne attesta l’interesse pubblico, a condizione che il mutamento di destinazione d’uso non comporti un aumento della superficie coperta prima dell’intervento di ristrutturazione, fermo restando, nel caso di insediamenti commerciali, quanto disposto dall’articolo 31, comma 2, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, e successive modificazioni”.

Lo stesso “Sblocca Italia” ha altresì introdotto l’art. 3-bis al d.P.R. 380/2001 per favorire la riqualificazione di edifici esistenti non più compatibili con gli indirizzi dei vigenti strumenti urbanistici. In queste ipotesi, infatti, l’amministrazione comunale – dopo aver puntualmente individuato questi edifici nel proprio strumento urbanistico – “(..) può favorire, in alternativa all’espropriazione, la riqualificazione delle aree attraverso forme di compensazione incidenti sull’area interessata e senza aumento della superficie coperta, rispondenti al pubblico interesse e comunque rispettose dell’imparzialità e del buon andamento dell’azione amministrativa”.

[19] Al riguardo, occorre infatti ricordare che già il d.l. n. 70 del 13.05.2011, convertito con modificazioni in legge n. 106 del 12.07.2011 (cd. “Decreto Sviluppo”) aveva previsto misure incentivanti per la riqualificazione del patrimonio edilizio esistente. Invero, l’art. 5, comma 9, stabiliva espressamente che: “al fine di incentivare la razionalizzazione del patrimonio edilizio esistente nonché di promuovere e agevolare la riqualificazione di aree urbane degradate con presenza di funzioni eterogenee e tessuti edilizi disorganici o incompiuti nonché di edifici a destinazione non residenziale dismessi o in via di dismissione ovvero da rilocalizzare, tenuto conto anche della necessità di favorire lo sviluppo dell’efficienza energetica e delle fonti rinnovabili, le Regioni approvano entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto specifiche leggi per incentivare tali azioni anche con interventi di demolizione e ricostruzione che prevedano: a) il riconoscimento di una volumetria aggiuntiva rispetto a quella preesistente come misura premiale; b) la delocalizzazione delle relative volumetrie in area o aree diverse; c) l’ammissibilità delle modifiche di destinazione d’uso, purché si tratti di destinazioni tra loro compatibili o complementari; d) le modifiche della sagoma necessarie per l’armonizzazione architettonica con gli organismi edilizi esistenti”.

[20] Si tratta, ovviamente di valutare di volta in volta quale tipologia di intervento – tra le categorie previste dalla legislazione statale e regionale – si attagli maggiormente al singolo caso, indicando tutta una serie di interventi edilizi che possono dar luogo a una mera “ristrutturazione edilizia” di cui all’art. 3, lett. d), d.P.R. n. 380/2001 finanche ad più ampio e complesso intervento edilizio, assimilabile quindi alla “ristrutturazione urbanistica” di cui all’art. 3, lett. f), d.P.R. n. 380/2001.

[21] Al riguardo, si segnala che l’art. 2645-quater del Codice Civile (inserito, in sede di conversione, dall’art. 6 del d.l. n. 16 del 2 marzo 2012, convertito con modificazioni in legge n. 44 del 26 aprile 2012) prevede espressamente che “si devono trascrivere, se hanno per oggetto beni immobili, gli atti di diritto privato, i contratti e gli altri atti di diritto privato, anche unilaterali, nonché le convenzioni e i contratti con i quali vengono costituiti a favore dello Stato, della regione, degli altri enti pubblici territoriali ovvero di enti svolgenti un servizio di interesse pubblico, vincoli di uso pubblico o comunque ogni altro vincolo a qualsiasi fine richiesto dalle normative statali e regionali, dagli strumenti urbanistici comunali nonché dai conseguenti strumenti di pianificazione territoriale e dalle convenzioni urbanistiche a essi relative”. I predetti vincoli di natura pubblicistica, incidendo sulla proprietà immobiliare, hanno natura di limitazioni del diritto di proprietà e, pertanto, devono essere portati a conoscenza dei terzi, comunque interessati dalla circolazione dei beni.

Commento all’art. 4 l.r. n. 14/2017

di Massimo Foccardi e Fabio Mattiuzzo

Art. 4

Misure di programmazione e di controllo sul contenimento del consumo di suolo

1. Il consumo di suolo è gradualmente ridotto nel corso del tempo ed è soggetto a programmazione regionale e comunale.

2. La Giunta regionale, sentita la competente commissione consiliare, stabilisce entro centottanta giorni dall’entrata in vigore della presente legge:

a) la quantità massima di consumo di suolo ammesso nel territorio regionale nel periodo preso a riferimento, in coerenza con l’obiettivo comunitario di azzerarlo entro il 2050, e la sua ripartizione per ambiti comunali o sovracomunali omogenei, anche sulla base del “Documento per la pianificazione paesaggistica” di cui all’Allegato B3 della deliberazione della Giunta regionale n. 427 del 10 aprile 2013, pubblicata nel Bollettino Ufficiale della Regione del Veneto n. 39 del 3 maggio 2013, tenendo conto, sulla base delle informazioni disponibili in sede regionale e di quelle fornite dai comuni con le modalità e nei termini indicati al comma 5, dei seguenti aspetti:

1) delle specificità territoriali, in particolare di quelle montane, in armonia con quanto previsto dalla legge regionale 8 agosto 2014, n. 25 “Interventi a favore dei territori montani e conferimento di forme e condizioni particolari di autonomia amministrativa, regolamentare e finanziaria alla provincia di Belluno in attuazione dell’articolo 15 dello Statuto del Veneto” e di quelle relative ai comuni ad alta tensione abitativa;

2) delle caratteristiche qualitative, idrauliche e geologiche dei suoli e delle loro funzioni eco-sistemiche;

3) delle produzioni agricole, delle tipicità agroalimentari, dell’estensione e della localizzazione delle aree agricole rispetto alle aree urbane e periurbane;

4) dello stato di fatto della pianificazione territoriale, urbanistica e paesaggistica;

5) dell’esigenza di realizzare infrastrutture e opere pubbliche;

6) dell’estensione del suolo già edificato, della consistenza delle aree e degli edifici dismessi o, comunque, inutilizzati;

7) delle varianti verdi approvate dai comuni ai sensi dell’articolo 7 della legge regionale 16 marzo 2015, n. 4 “Modifiche di leggi regionali e disposizioni in materia di governo del territorio e di aree naturali protette regionali”;

8) degli interventi programmati dai Consorzi di sviluppo di cui all’articolo 36, comma 5 della legge 5 ottobre 1991, n. 317 “Sistemi produttivi locali, distretti industriali e consorzi di sviluppo industriale”;

b) i criteri di individuazione e gli obiettivi di recupero degli ambiti urbani di rigenerazione, nel rispetto delle specifiche finalità di cui all’articolo 2, comma 1, lettera h), nonché gli strumenti e le procedure atti a garantire l’effettiva partecipazione degli abitanti alla progettazione e gestione dei programmi di rigenerazione urbana sostenibile di cui all’articolo 7;

c) le politiche, gli strumenti e le azioni positive per concorrere, in collaborazione con le autonomie locali e gli altri enti pubblici, al conseguimento degli obiettivi di cui all’articolo 3;

d) le regole e le misure applicative ed organizzative per la determinazione, registrazione e circolazione dei crediti edilizi, tenendo conto di quanto previsto dall’articolo 46, comma 1, lettera c), della legge regionale 23 aprile 2004, n. 11, ferma restando la disciplina di cui all’articolo 36 della medesima legge;

e) le procedure di verifica e monitoraggio, avvalendosi dell’attività dell’osservatorio della pianificazione territoriale e urbanistica di cui all’articolo 8 della legge regionale 23 aprile 2004, n. 11;

f) i criteri di individuazione degli interventi pubblici di interesse regionale di cui all’articolo 11 per i quali, mancando alternative alla loro localizzazione negli ambiti di urbanizzazione consolidata, non trovano applicazione le limitazioni di cui al presente Capo, fermo restando il loro assoggettamento ad idonee misure di mitigazione e ad interventi di compensazione ecologica;

g) l’articolazione, l’ambito di intervento, le modalità, i tempi di presentazione, i criteri di selezione delle domande e la relativa modulistica, del fondo regionale di cui all’articolo 10;

h) ogni altra indicazione anche metodologica ritenuta appropriata in funzione degli obiettivi perseguiti dal presente Capo.

3. Il provvedimento di cui al comma 2, lettera a), è adottato dalla Giunta regionale sentito il Consiglio delle autonomie locali (CAL) di cui all’articolo 16 dello Statuto; fino all’istituzione del CAL, tale parere è espresso dalla Conferenza Regione-Autonomie locali di cui all’articolo 12 della legge regionale 3 giugno 1997, n. 20 “Riordino delle funzioni amministrative e principi in materia di attribuzione e di delega agli enti locali”.

4. Il decorso del termine di centottanta giorni di cui al comma 2 è sospeso per l’acquisizione dei pareri della competente commissione consiliare e del CAL di cui al comma 3, entrambi da rendersi entro sessanta giorni dal ricevimento della proposta di provvedimento della Giunta regionale, decorsi i quali si prescinde dai pareri.

5. Le informazioni territoriali che i comuni trasmettono alla Giunta regionale, ai sensi del comma 2, lettera a), sono rese nella scheda informativa di cui all’allegato A, che sarà trasmessa, tramite posta elettronica certificata, entro tre giorni dall’entrata in vigore della presente legge e che i comuni restituiscono alla Giunta regionale entro i successivi sessanta giorni; decorso inutilmente tale termine, nei comuni che non hanno provveduto si applicano, fino all’integrazione del suddetto provvedimento della Giunta regionale sulla base dei dati tardivamente trasmessi, le limitazioni previste dall’articolo 13, commi 1, 2, 4, 5 e 6.

6. La Giunta regionale, sulla base dei dati forniti dall’osservatorio della pianificazione territoriale ed urbanistica di cui all’articolo 8 della legge regionale 23 aprile 2004, n. 11, sottopone a revisione almeno quinquennale la quantità massima del consumo di suolo ammesso nel territorio regionale ai sensi del comma 2, lettera a).

7. La Giunta regionale, sentita la competente commissione consiliare, può modificare od integrare la scheda informativa di cui all’allegato A.

Sommario: 1. Osservazioni generali2. I compiti della Giunta regionale3. I compiti dei Comuni4. Considerazioni finali.

1. Osservazioni generali

Con l’articolo 4 il legislatore introduce le misure di programmazione e di controllo delle politiche urbanistiche comunali finalizzate al contenimento del consumo di suolo, affidando alla Giunta regionale importanti ed urgenti compiti gestionali ed attuativi per l’implementazione di tali misure. E per svolgere questa attività nel rispetto dei principi di sussidiarietà e di leale collaborazione, la Giunta regionale ha bisogno del contributo attivo dei Comuni nella definizione del quadro d’insieme, all’interno del quale dovranno essere messe a punto le nuove misure di contenimento.

Entro tre giorni dall’entrata in vigore della legge, la Regione è tenuta a trasmettere – tramite posta elettronica certificata – la scheda informativa che i Comuni sono tenuti a compilare per poter acquisire una parte significativa delle informazioni territoriali necessarie alla Giunta regionale per emanare il provvedimento previsto dall’articolo 4, lettera a).

La completa efficacia della legge è stata infatti subordinata all’adozione del provvedimento attuativo più rilevante – soprattutto dal punto di vista degli effetti “urbanistici” – tra quelli previsti dalle nuove disposizioni, cioè della Deliberazione con la quale la Giunta regionale stabilirà la quantità massima di consumo di suolo ammessa nel territorio regionale e la sua ripartizione per ambiti comunali o sovracomunali omogenei. Nella definizione di questi limiti è ovviamente cruciale poter partire da informazioni il più possibile corrette ed aggiornate e, per questo motivo, è stata ritenuta necessaria l’integrazione delle numerose informazioni già disponibili in sede regionale, con quelle fornite direttamente dai Comuni attraverso la compilazione della scheda informativa.

Il legislatore ha, in questo caso, opportunamente “agganciato” le due componenti conoscitive, quella regionale (co. 2 lett. a) punti da 1 a 8) e quella comunale relativa allo stato di attuazione della pianificazione urbanistica (co. 5), per consentire alla Giunta di provvedere in maniera appropriata ed entro il termine di 180 giorni alla determinazione della quantità massima di consumo di suolo nel territorio regionale e, conseguentemente, alla sua ripartizione.

2. I compiti della Giunta regionale

Per poter decidere misure così importanti per il futuro assetto del territorio regionale come quelle che dovranno essere assunte nei prossimi anni per contenere il consumo di suolo, la Giunta dovrà tener conto di una pluralità di informazioni, nella logica che ogni buona decisione non può che partire da una buona informazione.

In armonia con il dettato normativo dichiarato al co. 1 “Il consumo di suolo è gradualmente ridotto nel corso del tempo ed è soggetto a programmazione regionale e comunale” il legislatore ha definito le linee d’azione affinché la Giunta elabori e fornisca non solo quantità e modalità operative (co. 2 lett. a) ma anche criteri, regole, indicazioni metodologiche per l’attuazione degli obiettivi della legge e perseguire le nuove politiche sul contenimento del consumo di suolo (co. 2 lettere da b) ad h).

Ecco perché la base informativa necessaria per la messa a punto delle misure attuative di primo livello (co. 2 lett. a) deve considerare, oltre agli aspetti legati alle specificità territoriali di natura sociale ed economica (aree montane, Comuni ad alta tensione abitativa), le caratteristiche qualitative, idrauliche e geologiche dei suoli e le loro funzioni eco-sistemiche, le produzioni agricole, le tipicità agroalimentari, l’estensione e la localizzazione delle aree agricole rispetto alle aree urbane e periurbane, ed ogni altro elemento di valutazione utile a rendere conto in maniera trasparente delle misure che saranno adottate, non solo in rapporto alla capacità concreta di raggiungere l’obiettivo primario (la riduzione del consumo di suolo), ma anche in rapporto alla consapevolezza degli effetti ambientali, sociali, economici e politici che conseguiranno dall’adozione delle misure medesime.

Tale obiettivo deve essere concluso con apposito provvedimento dalla Giunta regionale entro 180 giorni dall’entrata in vigore della legge pubblicata sul BUR n. 56 del 9 giugno 2017.

3. I compiti dei Comuni

Le disposizioni contenute al co. 2 lett. a) vanno coordinate con quanto disposto dal co. 5 che, come anticipato in premessa, sigillano il binomio Regione-Comune per l’attuazione degli aspetti programmatori/ripartitivi del provvedimento della Giunta regionale da redigere entro 180 giorni.

La Giunta infatti per poter decidere misure così importanti per il futuro assetto del territorio regionale ha bisogno di una “fotografia” aggiornata dello stato della pianificazione comunale.

Pare in questo senso ampiamente giustificato il fatto che la legge si rivolga direttamente ai Comuni per poter acquisire in tempi rapidi informazioni aggiornate sullo stato delle previsioni urbanistiche, tanto in riferimento all’attuazione degli strumenti (sia quelli adeguati alla l.r. n. 11/2004 che i “vecchi” PRG), quanto in riferimento alle concrete trasformazioni insediative o alle scelte “virtuose” finalizzate ad invertire il processo di progressiva urbanizzazione del territorio.

Lo sforzo “informativo” richiesto ai Comuni è stato peraltro reso il meno oneroso possibile nel corso del dibattito consiliare. Infatti nella versione del DDL licenziato dalla Seconda Commissione Consiliare la scheda informativa allegata prevedeva la compilazione di una numerosa serie di dati da parte dei comuni. Le possibili problematiche indotte da quella previsione hanno verosimilmente orientato il legislatore alla sua sostituzione, nel testo definitivo, con una più appropriata formulazione del questionario della scheda al fine di consentire ai Comuni la compilazione e la restituzione entro il termine fissato in 60 giorni. Tale termine appare del tutto motivato, in ragione non solo della semplificazione operata, ma anche per effetto della versione in parte “autocompilativa” per tutte quelle informazioni già in possesso della regione e che caratterizzano ogni comune.

La scheda (Allegato A alla legge) risulta, di fatto, un foglio elettronico di agevole compilazione, scaricabile dalla pagina internet del portale regionale, nel quale sono state fornite tutte le istruzioni per la compilazione dei dati essenziali richiesti. Il foglio elettronico contiene già tutta una serie di informazioni riferite ad ogni singolo Comune, estraibili attraverso la selezione del codice ISTAT identificativo del Comune stesso.

Nella prima parte della scheda risultano in questo modo “precompilate” una serie di informazioni generali, quali il nome del Comune, la Provincia o Città Metropolitana di appartenenza, la superficie territoriale, l’inclusione nell’elenco dei “Comuni ad alta tensione abitativa” (Delibera CIPE n. 87/2003), la zona altimetrica (Pianura, Collina o Montagna), la classe di pericolosità sismica (D.C.R. n. 67 del 3 dicembre 2003), ecc..

La seconda parte della scheda (pagina 2) – per la quale vengono dichiarate le sue finalità essenzialmente informative -, consente ai Comuni di reperire le quantità estratte dalla Banca dati della Carta della copertura del suolo 2012 della Regione del Veneto (la cui classificazione deriva dal programma europeo CORINE-Land Cover). Appare chiaramente la volontà del legislatore di non assegnare all’estrazione di questi dati alcun valore urbanistico avendo il solo scopo di coadiuvare i Comuni nei compiti loro assegnati, attraverso la restituzione di una “fotografia” omogenea del proprio territorio al 2012 con un focus sulle quantità relative ai Territori Modellati Artificialmente (Classe 1 CORINE-Land Cover), che rappresentano il territorio trasformato alla data del 2012.

Ad ogni Comune vengono in definitiva richieste alcune informazioni dirette riferite a:

  • dati di tipo ricognitivo, ovvero all’avvenuto adeguamento della pianificazione alla l.r. n. 11 del 2004 (presenza o meno di PAT o PATI integrale approvato) e all’attuale popolazione residente.
  • informazioni territoriali afferenti alla pianificazione vigente ed allo stato di attuazione delle previsioni in essa contenute, suddivise nelle due macro-destinazioni prevalenti: quella residenziale e quella produttiva (intesa come sommatoria dei differenti usi – industriale, artigianale, commerciale, direzionale, turistico-ricettiva, ecc.).

I dati richiesti sono limitati a quelli strettamente necessari e in buona parte reperibili senza eccessivo impegno. L’informazione per la quale è richiesto uno sforzo maggiore da parte degli uffici tecnici comunali è probabilmente quella che riguarda i dati relativi alla “Superficie territoriale prevista”.

Per i pochi Comuni che non hanno ancora approvato o adottato il PAT il compito è relativamente semplice, in quanto andrà riportata nella scheda la “Superficie territoriale” delle previsioni di espansione complessivamente previste nel PRG vigente.

L’estrapolazione del dato potrebbe invece risultare più complicata nei Comuni dotati di PAT, per i quali il dimensionamento previsionale è parametrizzato in volume o superfici lorde di pavimento (o altro ancora), e dove le previsioni cartografiche contengono indicazioni preferenziali di sviluppo non conformative in considerazione della natura strategica del Piano. La nota contenuta nella scheda precisa opportunamente che i valori dovranno essere stimati in funzione dell’indice medio per singola ATO.

Completano la dotazione delle informazioni richieste, sempre in relazione alle finalità della legge, alcuni dati inerenti le superfici oggetto delle varianti allo strumento urbanistico generale ai sensi dell’articolo 7 della legge regionale 16 marzo 2015, n. 4 – cd. Varianti Verdi – e le superfici oggetto di interventi programmati dai Consorzi di Sviluppo ai sensi dell’art. 36, co. 5, della legge 5 ottobre 1991, n. 317, nonché le superfici di aree dismesse all’interno del proprio territorio comunale.

4. Considerazioni finali

È da ritenere che l’insieme delle informazioni che perverranno dai Comuni costituiscano solo una parte della base conoscitiva necessaria per la corretta chiave di lettura delle diverse componenti del territorio regionale ed è perciò evidente che, per la stesura del provvedimento finale, la Giunta regionale dovrà avvalersi di analisi multicriteriali, così da pervenire ad una lettura complessiva degli aspetti coinvolti ed all’adozione di scelte argomentate, consapevoli, eque e trasparenti.

Resta dunque in capo alla Giunta il compito più rilevante per l’attuazione di misure determinanti per il territorio regionale come quelle che dovranno essere assunte nei prossimi anni per contenere il consumo di suolo.

L’ultima annotazione riguarda il comma 7 di chiusura dell’art. 4 che consente alla Giunta, sentita la commissione consigliare, di modificare o integrare la scheda; tale disposizione è senza dubbio opportuna per consentire quelle modifiche che si rendessero necessarie sotto il profilo operativo in sede di prima applicazione della legge.

Commento all’art. 3 l.r. n. 14/2017

di Livio Viel e Anna Za

Art. 3

Obiettivi e finalità

1. La Regione in attuazione dei principi di cui all’articolo 1:

a) promuove la collaborazione con le autonomie locali e gli altri enti pubblici titolari di competenze afferenti la materia di cui al presente Capo;

b) stabilisce criteri, indirizzi, metodi e contenuti degli strumenti di pianificazione territoriale ed urbanistica per programmare, limitare e controllare l’uso del suolo a fini insediativi ed infrastrutturali, per tutelare e valorizzare il territorio aperto e per promuovere la riqualificazione e la rigenerazione degli ambiti di urbanizzazione consolidata;

c) disciplina l’acquisizione, l’elaborazione, la condivisione e l’aggiornamento di tutti i dati utili per il buon governo del territorio regionale, anche promuovendo la più ampia collaborazione con l’agenzia regionale per la prevenzione e protezione ambientale del Veneto, istituita con legge regionale 18 ottobre 1996, n. 32 “Norme per l’istituzione ed il funzionamento dell’agenzia regionale per la prevenzione e protezione ambientale del Veneto (ARPAV)” e con l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (ISPRA), istituito con decreto legge 25 giugno 2008, n. 112 “Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria”, convertito, con modificazione, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133;

d) propone iniziative volte a promuovere concorsi di idee, reperire risorse finanziarie e favorire accordi tra soggetti pubblici e privati, al fine di assumere nella pianificazione proposte di riqualificazione e rigenerazione urbana sostenibile di rilevante interesse pubblico e di supportare l’iniziativa privata, orientandola verso obiettivi di interesse anche pubblico in tempi prevedibili e certi, rafforzando la trasparenza, l’efficienza e l’efficacia dell’azione amministrativa.

2. La pianificazione territoriale e urbanistica privilegia gli interventi di trasformazione urbanistico-edilizia all’interno degli ambiti di urbanizzazione consolidata che non comportano consumo di suolo, con l’obiettivo della riqualificazione e rigenerazione, sia a livello urbanistico-edilizio che economico-sociale, del patrimonio edilizio esistente, degli spazi aperti e delle relative opere di urbanizzazione, assicurando adeguati standard urbanistici, nonché il recupero delle parti del territorio in condizioni di degrado edilizio, urbanistico e socio-economico, o in stato di abbandono, sotto utilizzate o utilizzate impropriamente.

3. Sono obiettivi delle politiche territoriali ed, in particolare, degli strumenti di pianificazione:

a) ridurre progressivamente il consumo di suolo non ancora urbanizzato per usi insediativi e infrastrutturali, in coerenza con l’obiettivo europeo di azzerarlo entro il 2050;

b) individuare le funzioni eco-sistemiche dei suoli e le parti di territorio dove orientare azioni per il ripristino della naturalità, anche in ambito urbano e periurbano;

c) promuovere e favorire l’utilizzo di pratiche agricole sostenibili, recuperando e valorizzando il terreno agricolo, anche in ambito urbano e periurbano;

d) individuare le parti di territorio a pericolosità idraulica e geologica, incentivandone la messa in sicurezza secondo il principio di invarianza idraulica e valutandone, ove necessario, il potenziamento idraulico e favorendo la demolizione dei manufatti che vi insistono, con restituzione del sedime e delle pertinenze a superficie naturale e, ove possibile, agli usi agricoli e forestali; nonché disciplinando l’eventuale riutilizzo, totale o parziale, della volumetria o della superficie, dei manufatti demoliti negli ambiti di urbanizzazione consolidata o in aree allo scopo individuate nel Piano degli interventi (PI), mediante riconoscimento di crediti edilizi o altre misure agevolative;

e) valutare gli effetti degli interventi di trasformazione urbanistico-edilizia sulla salubrità dell’ambiente, con particolare riferimento alla qualità dell’aria, e sul paesaggio, inteso anche quale elemento identitario delle comunità locali;

f) incentivare il recupero, il riuso, la riqualificazione e la valorizzazione degli ambiti di urbanizzazione consolidata, favorendo usi appropriati e flessibili degli edifici e degli spazi pubblici e privati, nonché promuovendo la qualità urbana ed architettonica ed, in particolare, la rigenerazione urbana sostenibile e la riqualificazione edilizia ed ambientale degli edifici;

g) ripristinare il prevalente uso agrario degli ambiti a frammentazione territoriale, prevedendo il recupero dei manufatti storici e del paesaggio naturale agrario, il collegamento con i corridoi ecologici ed ambientali, la valorizzazione dei manufatti isolati, la rimozione dei manufatti abbandonati;

h) valorizzare le ville venete e il loro contesto paesaggistico, come elemento culturale identitario del territorio veneto;

i) rivitalizzare la città pubblica e promuovere la sua attrattività, fruibilità, qualità ambientale ed architettonica, sicurezza e rispondenza ai valori identitari e sociali della comunità locale, con particolare attenzione alle specifiche esigenze dei bambini, degli anziani e dei giovani, nonché alla accessibilità da parte dei soggetti con disabilità;

l) assicurare la trasparenza amministrativa e la partecipazione informata dei cittadini alle scelte strategiche di trasformazione urbanistico-edilizia, di riqualificazione e rigenerazione urbana e territoriale, anche promuovendo la partecipazione dei diversi soggetti portatori di interessi nei procedimenti di pianificazione;

m) attivare forme di collaborazione pubblico-privato che contribuiscano alla riqualificazione del territorio e della città, su basi di equilibrio economico-finanziario e di programmazione temporale dei procedimenti e delle iniziative in un contesto di prevedibilità, certezza e stabilità della regolazione.

Sommario: 1. La struttura della norma di cui all’art. 3 in riferimento ai principi dell’art. 1 della legge2. Il ruolo della Regione e la necessità dell’armonizzazione delle politiche territoriali nella prospettiva del contenimento del consumo di suolo3. Il ruolo privilegiato delle attività non comportanti consumo di suolo. Il riuso del territorio in applicazione dei principi della “economia circolare”4. Gli obiettivi delle politiche territoriali e il ruolo degli strumenti di pianificazione.

1. La struttura della norma di cui all’art. 3 in riferimento ai principi dell’art. 1 della legge.

La norma di cui all’art. 3 della legge esplicitamente rinvia, già nell’incipit del primo comma, all’art. 1 e ai “principi” colà enunciati quali “informatori” delle norme contenute nel capo I della legge medesima.

Occorre dunque richiamare, per commentare la norma in esame, quanto si è detto trattando dell’art. 1 e in particolare del secondo comma dello stesso, laddove si era evidenziata la complessità della formulazione[1] dei “principi” e, soprattutto, la valenza degli stessi in chiave – per così dire – “sovra-urbanistica”, essendo evidente che con la centralizzazione della categoria del “suolo” e della sua “conservazione”, la tradizionale concezione del “governo del territorio” è destinata ad esser messa profondamente in discussione assieme ai suoi strumenti (in primis proprio la pianificazione comunale); soprattutto, però, sono destinati ad essere ridefiniti gli stessi livelli decisionali e le competenze programmatorie e pianificatorie.

È infatti conseguente che l’intersettorialità delle funzioni e delle competenze (soprattutto di natura ambientale) che saranno coinvolte dalle politiche di contenimento del consumo di suolo, politiche che a questo devono riconoscersi quali obbligatorie, comporterà la necessità di un’integrazione delle competenze all’interno di procedimenti intesi ad una superiore sintesi. Integrazione di funzioni e di competenze, sia verticale che orizzontale, che impone di pensare e interpretare il territorio secondo piani e programmi di area vasta piuttosto che sulla base degli ordinari schemi urbanistici, per lo più di ambito comunale. Ciò, soprattutto per evitare il pericolo di contrasti e contraddizioni tra i diversi interessi e funzioni, e per contenere e armonizzare la “naturale” spinta espansiva della trasformazione territoriale con quella conservativa della difesa e della riconquista del suolo permeabile.

Risulta chiaro, in questa prospettiva, che l’attore fondamentale chiamato a interpretare – a livello locale e in attesa della legge nazionale – quella che si annuncia come una svolta storica nella gestione del territorio, sia proprio la Regione alla quale l’art. 3, non a caso, dedica il primo comma, di cui si tratterà immediatamente. Non senza peraltro aver ricordato – sempre nella prospettiva dei principi informatori della legge – che la struttura della medesima norma si articola in altri due commi: il secondo rivolto alla pianificazione urbanistica nelle aree di urbanizzazione consolidata, e il terzo dedicato agli “obiettivi” della programmazione e della pianificazione territoriale.

L’articolazione della norma conferma, dunque, la fondamentale preoccupazione della legge di evitare che si verifichino divaricazioni e contrapposizioni nella gestione del c.d. territorio (tale intendendosi, a questo punto, anche il “suolo” in tutti i suoi aspetti sopra declinati): per tal ragione, una volta affermato – come si è detto – il ruolo fondamentale della Regione, la norma sposta l’attenzione proprio sulla “pianificazione territoriale e urbanistica” (secondo comma) nonché sulle “politiche territoriali” e sugli “strumenti di pianificazione” (terzo comma) individuando immediatamente delle priorità e degli obiettivi di rango superiore cui evidentemente (e obbligatoriamente) dovranno conformarsi le scelte di chi avrà la responsabilità della gestione strategica del territorio.

Pare conseguente a quanto detto che le attività di programmazione e di pianificazione territoriale e urbanistica dovranno sin d’ora conformarsi alle linee stabilite dalla norma in commento, indipendentemente dall’attuazione da parte della Regione di quanto stabilito al primo comma.2

2. Il ruolo della Regione e la necessità dell’armonizzazione delle politiche territoriali nella prospettiva del contenimento del consumo di suolo.

Nella consapevolezza della necessità di integrare plurime funzioni e competenze e, con esse, plurimi livelli amministrativi, il primo comma dell’art. 3 ha inteso assegnare alla Regione un ruolo fondamentale di coordinamento e di governo dei processi decisionali in vista del perseguimento e dell’attuazione delle finalità esplicitate anche nei successivi commi.

A questo fine, l’articolo in commento definisce tre sostanziali linee di azione da parte della Regione:

1) attività di promozione e di coordinamento: la Regione deve favorire la collaborazione tra autonomie locali e tra enti (in primis i Comuni, le Province, le Città Metropolitane) titolari di competenze in materia di contenimento del consumo di suolo e, in particolare, tra quegli enti che si occupano della pianificazione. La collaborazione esplicitamente richiesta dalla norma dovrà svilupparsi, evidentemente, con una integrazione sia verticale (enti territoriali anche di area vasta) che, pure, orizzontale poiché gli interessi e le funzioni coinvolte nell’attuazione dei principi di cui all’art. 1 riguardano necessariamente – lo si è detto – più livelli decisionali, con competenze specifiche anche in ambiti diversi da quelli della pianificazione strettamente intesa, che coinvolgono comunque il tema del “suolo” e del contenimento del suo consumo (ad es. ARPAV, Asl, etc.);

2) adozione di specifici atti normativi e regolamentari volti sempre ad armonizzare e indirizzare gli strumenti della pianificazione territoriale e urbanistica nel senso di limitare e controllare il consumo di suolo, riqualificare gli ambiti già urbanizzati e tutelare il territorio aperto, non urbanizzato. In questa attività si inseriscono in particolare tutte quelle misure di programmazione e di controllo, di stretta competenza della Giunta regionale, previste dall’art. 4 della legge;

3) azione di monitoraggio: disciplinando la raccolta, l’elaborazione, l’aggiornamento dei dati ritenuti utili per il buon governo del territorio anche in collaborazione con ARPAV e ISPRA.

Quest’ultima attività costituisce un’implementazione del principio già presente nella legge urbanistica regionale, della necessità di un sistema integrato delle informazioni e dei dati presenti negli strumenti di pianificazione, relativi agli aspetti fisici e socioeconomici del territorio, che costituisce il c.d. “Quadro conoscitivo degli strumenti di pianificazione” previsto dall’art. 10 della l.r. n. 11/2004.

3. Il ruolo privilegiato delle attività non comportanti consumo di suolo. Il riuso del territorio in applicazione dei principi della “economia circolare”.

Il secondo comma dell’art. 3 della nuova legge regionale, molto opportunamente, afferma il ruolo privilegiato degli interventi di trasformazione urbanistico-edilizia all’interno degli ambiti di urbanizzazione consolidata non comportanti consumo di suolo: si tratta più precisamente di quegli interventi che tradizionalmente rientravano nella nozione di “recupero del patrimonio edilizio esistente” ma che la nuova legge comprende nella definizione di “trasformazione urbanistico-edilizia” caratterizzata dagli ambiti in cui si svolge, che non devono comportare consumo di suolo. L’individuazione di questi ambiti come quelli di “urbanizzazione consolidata” (riprendendo con ciò la nozione di cui alla lettera o) dell’art. 13 della l.r. n. 11/2004) vale a definire anche il perimetro di applicazione del secondo comma dell’art. 3 in commento, che così fa coincidere lo stesso ambito normativo con il perimetro che la legge urbanistica considera quale già trasformato[2].

Si tratta del perimetro di applicazione del c.d. “riuso del territorio”, finalità ritenuta particolarmente importante anche dalla nuova legge che vi dedica particolare spazio e attenzione nelle successive norme, trattandosi di una questione di rilievo non meramente territoriale ma anche economico e sociale individuata da tempo nelle stesse politiche dell’Unione Europea in tema di risparmio del suolo e anche di economia circolare.

Secondo la Commissione Europea[3] infatti occorre modificare lo sviluppo dell’economia quale avvenuto all’insegna del “prendi, produci, usa e getta” come se la crescita possa esser fondata su risorse sempre abbondanti e disponibili, altresì smaltibili senza costi. Nella strategia europea la base di un’economia virtuosa sta nel concetto di economia circolare, ove i prodotti e le risorse restano nel sistema economico, in guisa da poter essere riutilizzate più volte a fini produttivi creando nuovo valore: è dunque coerente, anche con tale impostazione, concepire il risparmio di suolo e insieme il riuso del territorio come applicazioni virtuose dei principi della “economica circolare”.

La nozione di contenimento del consumo di suolo si collega dunque, immediatamente e in modo coerente, con la nozione di riuso e di recupero del patrimonio edilizio inutilizzato, coniugando la preservazione dello spazio naturale con la qualità dello spazio urbano: efficienti politiche intese a salvaguardare i “suoli” non possono prescindere dalla parallela riqualificazione e rigenerazione non solo urbanistica ed edilizia ma, anche, economica e sociale delle aree già urbanizzate. In questa prospettiva il secondo comma dell’articolo in commento assegna dunque un ruolo privilegiato a tutte quelle attività che si svolgono all’interno degli “ambiti di urbanizzazione consolidata” non comportanti consumo di suolo.

Si tratta, anche in questo caso, di un’affermazione di principio sulla priorità delle politiche di recupero del territorio già consumato, rispetto alla trasformazione di ulteriore suolo naturale. Peraltro anche in questo caso la norma di principio, pur rivolta alla strumentazione territoriale urbanistica, deve comunque intendersi come immediatamente precettiva nei confronti delle corrispondenti attività di pianificazione, nelle quali in questo caso è il Comune che assume un ruolo centrale, trattandosi di amministrare il patrimonio edilizio inutilizzato: funzione di governo, questa, eminentemente di competenza comunale. È infatti il Comune che può consentire il riuso, attraverso il regolamento edilizio, i piani attuativi e di recupero (PUA), i c.d. “strumenti complessi” e il rilascio dei titoli edilizi (tra i quali il permesso di costruire in deroga di cui all’art. 14 del DPR 380/2001) all’interno degli spazi e delle superfici già compromesse. La centralità dell’amministrazione comunale in questo ambito emergerà ulteriormente e ancor più chiaramente nei commenti alle successive disposizioni della legge e, in particolare, degli articoli da 5 a 9 alla cui lettura si rinvia, che specificamente riguardano la riqualificazione edilizia e urbana, la rigenerazione e la qualità architettonica ambientale e, in genere, proprio il riuso del territorio urbano.

4. Gli obiettivi delle politiche territoriali e il ruolo degli strumenti di pianificazione.

Il terzo comma dell’art. 3 della nuova legge, dopo che il secondo ha come sopra stabilito la priorità privilegiata del riuso del territorio già urbanizzato rispetto alle trasformazioni comportanti consumo di nuovo suolo, si occupa delle c.d. “politiche territoriali” volte essenzialmente a disciplinare quelle parti di territorio non ancora trasformare e il rapporto delle stesse con gli ambiti di urbanizzazione invece consolidata. Non a caso questo tema, riferito appunto alle “politiche territoriali” degli strumenti di pianificazione, è contemplato dalla norma successivamente al prioritario obiettivo, definito appunto privilegiato, del recupero e del riuso degli spazi urbanizzati.

Il comma in commento, trattando delle “politiche territoriali” non individua peraltro specifici strumenti per le stesse (che dunque potranno tradursi anche in strumenti atipici), ma si riferisce comunque alla “pianificazione” che, allo stato della legislazione regionale, si compendia negli strumenti di governo del territorio previsti dalla l.r. n. 11/2004 secondo i vari livelli amministrativi: a scala comunale i Piani di Assetto Territoriale (PAT) e anche intercomunale (PATI), il Piano degli Interventi (PI) nonché i Piani Urbanistici Attuativi (PUA); a scala superiore, invece, il piano provinciale (PTCP) e ancor sopra quello regionale (PTRC).

È evidente, da quanto già detto in precedenza, che le politiche territoriali orientate al contenimento del consumo di suolo troveranno le loro fondamentali scelte e decisioni all’interno degli strumenti di area vasta: vale a dire il piano provinciale se non, addirittura, quello regionale.

In effetti la norma prevede che gli obiettivi legati al contenimento del consumo del suolo andranno definiti all’interno della pianificazione, costituendo dunque questi l’elemento fondamentale e centrale della stessa.

La pianificazione diventa quindi principalmente lo strumento attuativo delle politiche territoriali volte al contenimento e al risparmio del suolo, come stabilito dal punto a) del terzo comma, ossia l’azzeramento del consumo entro il 2050, in linea con le politiche europee.

Seguono poi, nell’elencazione degli obiettivi, altre finalità che costituiscono una migliore specificazione e un’indicazione di maggiore dettaglio di quanto già peraltro previsto dalla legge urbanistica regionale per la corretta elaborazione dei piani e in particolare dall’art. 13 della l.r. n. 11/2004 che in effetti già prevede che il piano di assetto comunale sia redatto fissando “gli obiettivi e le condizioni di sostenibilità degli interventi e delle trasformazioni ammissibili”.

È meritevole di menzione, a questo proposito, il fatto che molteplici contenuti già propri del piano comunale fissati dalla legge urbanistica regionale, si ritrovino anche nell’art. 3 della legge sul consumo di suolo, dove peraltro è maggiore l’attenzione a indirizzare le strategie di pianificazione verso le specifiche azioni definite dal legislatore per la riduzione della trasformazione delle aree naturali. Si tratta di un taglio operativo che conferma l’importanza dei contenuti già presenti nella legge urbanistica, arricchendoli con nuovi obiettivi ma soprattutto affermando il “suolo” – nella sua configurazione di “risorsa limitata e non rinnovabile” definita dall’art. 1 “bene comune” – quale elemento centrale e fondamentale delle azioni di governo del territorio già in sede di pianificazione.

In questa prospettiva, per quanto riguarda gli aspetti ambientali, l’obiettivo dei piani fissato direttamente dalla nuova legge sarà quello di ripristinare la naturalità delle aree in ambiti urbani e periurbani anche se frazionate e frammentate e incentivare il loro uso agricolo, attraverso una serie di specifiche azioni (peraltro dettagliate in ordine sparso e non conseguenziale).

Ulteriori obiettivi puntuali e specifici per i piani urbanisti, sono l’agricoltura e le politiche agricole sostenibili, nei cui confronti la pianificazione territoriale dovrà prevedere azioni volte, come indicato nella lettera g), a “ripristinare il prevalente uso agricolo degli ambiti a frammentazione territoriale, prevedendo il recupero dei manufatti storici e del paesaggio naturale agrario, il collegamento con i corridoi ecologici ed ambientali, la valorizzazione dei manufatti isolati, la rimozione dei manufatti abbandonati”.

È interessante a questo punto confrontare gli obiettivi della nuova legge per i territori con particolari dissesti idraulici e idrogeologici con il contenuto del punto b) del citato art. 13 della l.r. n. 11/2004. In effetti la legge regionale n. 14/2017 risulta estremamente dettagliata nel definire gli obiettivi delle politiche per i territori con fragilità, attenzione già evidenziata nella legge regionale sul piano casa, il cui art. 3 quater (introdotto dalla l.r. n. 32 del 29/11/2013) prevede la possibilità dell’integrale demolizione e della successiva ricostruzione, anche con incremento volumetrico, dei fabbricati ricadenti in aree ad alta pericolosità idraulica ed idrogeologica.

Rispetto alle possibilità di intervento previste dal piano casa, per ora “a scadenza” alla fine del 2018, l’obiettivo previsto dalla lettera d) del terzo comma in commento risulta più ampio e rivolto ai territori con problematiche di pericolosità anche diverse da quelle evidenziate nel Piano di Assetto Idrogeologico (PAI) previsto dal d.lgs. n. 152/2006. Gli approfondimenti idrogeologici e geologici in sede di elaborazione dei piani possono, infatti, riscontrare come “pericolose” anche aree diverse da quelle previste dal PAI o sovrapponibili alle stesse, che necessitano di specifiche azioni di intervento per garantire comunque la stabilità dei terreni e la sicurezza degli abitati. La centralità del “suolo” e in particolare la riduzione del suo consumo oltre che la sua tutela sono, anche in questo caso, contemplati dalla legge come prioritari e agli stessi si legano tutta una serie di azioni e strategie pianificatorie al centro delle politiche urbanistiche.

Si passa così da una logica di “messa in sicurezza” a seguito di eventi calamitosi (vedasi la legge “Sarno” di cui al D.L. 11 giugno 1998, n. 180) ad una vera e propria azione di prevenzione, dove la salvaguardia e la messa in sicurezza delle aree diviene strategia specifica e prioritaria dei piani, da sviluppare anche attraverso la previsione della demolizione dei manufatti e il ripristino delle aree a superficie naturale, con il possibile recupero/riutilizzo delle volumetrie in altre aree, secondo normative delegate al Piano degli interventi (PI).

La modifica della prospettiva nelle politiche di pianificazione risulta dunque evidente e particolarmente importante proprio per il territorio del Veneto, dove sono presenti innumerevoli situazioni di dissesto e di fragilità, sia nelle aree montane che in quelle pianeggianti.

L’elencazione degli obiettivi della pianificazione, di cui al terzo comma della norma in commento, contiene ulteriori aspetti di estremo interesse, completamente nuovi e innovativi per l’urbanistica veneta: trattasi della c.d. “città pubblica” (lettera i) e soprattutto del tema, ripetuto in altre parti della legge e già presente nel secondo comma, delle aree urbanizzate (lettera f) per le quali si ribadisce l’obiettivo di “incentivare il recupero, il riuso, la riqualificazione e la valorizzazione degli ambiti di urbanizzazione consolidata, favorendo usi appropriati e flessibili degli edifici e degli spazi pubblici e privati, nonché promuovendo la qualità urbana ed architettonica ed, in particolare, la rigenerazione urbana sostenibile e la riqualificazione edilizia ed ambientale degli edifici”.

Gli ultimi due obiettivi rivolti alle politiche territoriali (lettere l ed m) rimarcano procedure di coinvolgimento dei cittadini rispetto alle scelte di panificazione, con individuazione di tempi certi nella programmazione: finalità, queste, già peraltro presenti nella legge urbanistica regionale con la procedura di valutazione ambientale strategica dei piani (VAS) prevista dall’art. 4 della l.r. n. 11/2004, in conformità con la normativa nazionale (d.lgs. n. 152/2006) che ha recepito le direttive europee (direttiva 2001/42/CE) e con i principi generali dell’attività amministrativa, basati sui criteri di economicità, trasparenza, efficacia e imparzialità previsti dalla L. 241/90 “Norme sul procedimento amministrativo”.

Pare peraltro opportuno, per meglio intendere la portata degli obiettivi esplicitati dal terzo comma con riferimento agli strumenti di pianificazione, comparare quanto previsto dalla legge sul contenimento del consumo di suolo con l’art. 13 della legge urbanistica regionale, che attiene specificatamente alla pianificazione territoriale comunale e intercomunale.

Si riporta, per questo, la seguente tavola di confronto che si ritiene poter risultare utile anche a chi quotidianamente opera nella formazione e approvazione degli strumenti di pianificazione.

 

Art. 3 comma 3 – l.r. n. 14/2017

Obiettivi delle politiche territoriali e degli strumenti di pianificazione

Art. 13 comma 1 – l.r. n. 11/2004

Obiettivi e contenuti del Piano di Assetto del Territorio

f) incentivare il recupero, il riuso, la riqualificazione e la valorizzazione degli ambiti di urbanizzazione consolidata, favorendo usi appropriati e flessibili degli edifici e degli spazi pubblici e privati, nonché promuovendo la qualità urbana ed architettonica ed, in particolare, la rigenerazione urbana sostenibile e la riqualificazione edilizia ed ambientale degli edifici; o) individua[re] le aree di urbanizzazione consolidata in cui sono sempre possibili interventi di nuova costruzione o di ampliamento di edifici esistenti attuabili nel rispetto delle norme tecniche di cui al comma 3, lettera c);

c) individua[re] gli ambiti territoriali cui attribuire i corrispondenti obiettivi di tutela, riqualificazione e valorizzazione, nonché le aree idonee per interventi diretti al miglioramento della qualità urbana e territoriale;

b) individuare le funzioni ecosistemiche dei suoli e le parti di territorio dove orientare azioni per il ripristino della naturalità, anche in ambito urbano e periurbano;

 

d) recepi[re] i siti interessati da habitat naturali di interesse comunitario e definisce le misure idonee ad evitare o ridurre gli effetti negativi sugli habitat e sulle specie floristiche e faunistiche;
c) promuovere e favorire l’utilizzo di pratiche agricole sostenibili, recuperando e valorizzando il territorio agricolo, anche in ambito urbano e periurbano;

g) ripristinare il prevalente uso agrario degli ambiti a frammentazione territoriale, prevedendo il recupero dei manufatti storici e del paesaggio naturale agrario, il collegamento con i corridoi ecologici ed ambientali, la valorizzazione dei manufatti isolati, la rimozione dei manufatti abbandonati;

h) detta[re] una specifica disciplina con riferimento ai centri storici, alle zone di tutela e alle fasce di rispetto e alle zone agricole in conformità a quanto previsto dagli articoli 40, 41 e 43;

 

d) individua[re] le parti del territorio a pericolosità geologica, incentivandone la messa in sicurezza secondo il principio della invarianza idraulica e valutandone, ove necessario, il potenziamento idraulico e favorendo la demolizione dei manufatti che vi insistono, con restituzione del sedime e delle pertinenze a superficie naturale e ove possibile, agli usi agricoli e forestali; nonché disciplinando l’eventuale riutilizzo, totale o parziale, della volumetria o della superficie, dei manufatti demoliti negli ambiti di urbanizzazione consolidata o in aree allo scopo individuate nel Piano degli interventi (PI) mediante riconoscimento di crediti edilizi o altre misure agevolative; b) disciplina[re], attribuendo una specifica normativa di tutela, le invarianti di natura geologica, geomorfologica, idrogeologica, paesaggistica, ambientale, storico-monumentale e architettonica, in conformità agli obiettivi ed indirizzi espressi nella pianificazione territoriale di livello superiore;

 

 

 

e) valutare gli effetti degli interventi di trasformazione urbanistico-edilizia sulla salubrità dell’ambiente, con particolare riferimento alla qualità dell’aria, e sul paesaggio, inteso anche quale elemento identitario delle comunità locali;

Art. 4, co. 2 procedura di VAS

 

La VAS evidenzia la congruità delle scelte degli strumenti di pianificazione di cui al comma 2 rispetto agli obiettivi di sostenibilità degli stessi, alle possibili sinergie con gli altri strumenti di pianificazione individuando, altresì, le alternative assunte nella elaborazione del piano, gli impatti potenziali, nonché le misure di mitigazione e/o di compensazione da inserire nel piano.

 

[1] Vale la pena di ricordare l’elencazione dei “principi informatori” di cui al secondo comma dell’art. 1: “programmazione dell’uso del suolo e la riduzione progressiva e controllata della sua copertura artificiale”; “tutela del paesaggio, delle reti ecologiche, delle superfici agricole forestali”; “promozione della biodiversità coltivata”; “rinaturalizzazione di suolo impropriamente occupato”; “riqualificazione e rigenerazione degli ambiti di urbanizzazione consolidata”. Infine l’affermazione che “l’utilizzo di nuove risorse territoriali” può avvenire “esclusivamente quando non esistano alternative alla riorganizzazione e riqualificazione del tessuto insediativo esistente, in coerenza con quanto previsto dall’art. 2, comma 1, lettera d) della legge regionale 23 aprile 2004, n. 11”.

[2] Si rinvia, per le conseguenze che ciò determina in ordine al rapporto tra il “suolo” il cui consumo è da contenere e le aree trasformate (soggette per questo al riuso) alla sentenza 2921 del 28 giugno 2016 del Consiglio di Stato citata nel commento all’art. 1.

[3] Crf. Commissione Europea, Verso un’economia circolare: programma per un’Europa a zero rifiuti, del 2 luglio 2014.

Commento all’art. 2 l.r. n. 14/2017

di Dario Meneguzzo, Marisa Fantin e Matteo Acquasaliente

Art. 2

Definizioni

1. Ai fini del presente Capo, si intende per:

a) superficie naturale e seminaturale: tutte le superfici non impermeabilizzate, comprese quelle situate all’interno degli ambiti di urbanizzazione consolidata e utilizzate, o destinate, a verde pubblico o ad uso pubblico, quelle costituenti continuità ambientale, ecologica e naturalistica con le superfici esterne della medesima natura, nonché quelle destinate all’attività agricola;

b) superficie agricola: i terreni qualificati come tali dagli strumenti urbanistici, nonché le aree di fatto utilizzate a scopi agro-silvo-pastorali, indipendentemente dalla destinazione urbanistica e quelle, comunque libere da edificazioni e infrastrutture, suscettibili di utilizzazione agricola anche presenti negli spazi liberi delle aree urbanizzate;

c) consumo di suolo: l’incremento della superficie naturale e seminaturale interessata da interventi di impermeabilizzazione del suolo, o da interventi di copertura artificiale, scavo o rimozione, che ne compromettano le funzioni eco-sistemiche e le potenzialità produttive; il calcolo del consumo di suolo si ricava dal bilancio tra le predette superfici e quelle ripristinate a superficie naturale e seminaturale;

d) impermeabilizzazione del suolo: il cambiamento della natura o della copertura del suolo che ne elimina la permeabilità, impedendo alle acque meteoriche di raggiungere naturalmente la falda acquifera; tale cambiamento si verifica principalmente attraverso interventi di urbanizzazione, ma anche nel caso di compattazione del suolo dovuta alla presenza di infrastrutture, manufatti, depositi permanenti di materiali o attrezzature;

e) ambiti di urbanizzazione consolidata: l’insieme delle parti del territorio già edificato, comprensivo delle aree libere intercluse o di completamento destinate dallo strumento urbanistico alla trasformazione insediativa, delle dotazioni di aree pubbliche per servizi e attrezzature collettive, delle infrastrutture e delle viabilità già attuate, o in fase di attuazione, nonché le parti del territorio oggetto di un piano urbanistico attuativo approvato e i nuclei insediativi in zona agricola. Tali ambiti di urbanizzazione consolidata non coincidono necessariamente con quelli individuati dal piano di assetto del territorio (PAT) ai sensi dell’articolo 13, comma 1, lettera o), della legge regionale 23 aprile 2004, n. 11;

f) opere incongrue o elementi di degrado: gli edifici e gli altri manufatti, assoggettabili agli interventi di riqualificazione edilizia ed ambientale di cui all’articolo 5, che per caratteristiche localizzative, morfologiche, strutturali, funzionali, volumetriche od estetiche, costituiscono elementi non congruenti con il contesto paesaggistico, ambientale od urbanistico, o sotto il profilo igienico-sanitario e della sicurezza;

g) ambiti urbani degradati: le aree ricadenti negli ambiti di urbanizzazione consolidata, assoggettabili agli interventi di riqualificazione urbana di cui all’articolo 6, contraddistinti da una o più delle seguenti caratteristiche:

1) degrado edilizio, riferito alla presenza di un patrimonio architettonico di scarsa qualità, obsoleto, inutilizzato, sottoutilizzato o impropriamente utilizzato, inadeguato sotto il profilo energetico, ambientale o statico-strutturale;

2) degrado urbanistico, riferito alla presenza di un impianto urbano eterogeneo, disorganico o incompiuto, alla scarsità di attrezzature e servizi, al degrado o assenza degli spazi pubblici e alla carenza di aree libere, alla presenza di attrezzature ed infrastrutture non utilizzate o non compatibili, sotto il profilo morfologico, paesaggistico o funzionale, con il contesto urbano in cui ricadono;

3) degrado socio-economico, riferito alla presenza di condizioni di abbandono, di sottoutilizzazione o sovraffollamento degli immobili, di impropria o parziale utilizzazione degli stessi, di fenomeni di impoverimento economico e sociale o di emarginazione;

4) degrado ambientale: riferito a condizioni di naturalità compromesse da inquinanti, antropizzazioni, squilibri degli habitat e altre incidenze anche dovute a mancata manutenzione del territorio ovvero da situazioni di rischio individuabili con la pianificazione generale e di settore;

h) ambiti urbani di rigenerazione: le aree ricadenti negli ambiti di urbanizzazione consolidata, caratterizzati da attività di notevole consistenza, dismesse o da dismettere, incompatibili con il contesto paesaggistico, ambientale od urbanistico, nonché le parti significative di quartieri urbani interessate dal sistema infrastrutturale della mobilità e dei servizi; tali ambiti sono assoggettabili ai programmi di rigenerazione urbana sostenibile, di cui all’articolo 7, finalizzati:

1) alla sostenibilità ecologica e all’incremento della biodiversità in ambiente urbano;

2) al contenimento del consumo di suolo;

3) alla riduzione dei consumi idrici ed energetici mediante l’efficientamento delle reti pubbliche e la riqualificazione del patrimonio edilizio;

4) all’integrazione sociale, culturale e funzionale mediante la formazione di nuove centralità urbane, alla qualità degli spazi pubblici, alla compresenza e all’interrelazione di residenze, attività economiche, servizi pubblici e commerciali, attività lavorative, nonché spazi ed attrezzature per il tempo libero, per l’incontro e la socializzazione, con particolare considerazione delle esigenze dei soggetti con disabilità;

5) al soddisfacimento della domanda abitativa e alla coesione sociale, mediante la realizzazione di interventi di edilizia residenziale sociale;

6) all’integrazione delle infrastrutture della mobilità veicolare, pedonale e ciclabile con il tessuto urbano e, più in generale, con le politiche urbane della mobilità sostenibile e con la rete dei trasporti collettivi;

7) alla partecipazione attiva degli abitanti alla progettazione e gestione dei programmi di intervento;

8) all’innovazione e sperimentazione edilizia e tecnologica, promuovendo la sicurezza e l’efficientamento energetico;

9) allo sviluppo di nuove economie e di nuova occupazione, alla sicurezza sociale ed al superamento delle diseguaglianze sociali;

i) mitigazione: misure volte a mantenere le funzioni eco-sistemiche del suolo e a ridurre gli effetti negativi, diretti o indiretti, degli interventi di edificazione ed urbanizzazione del territorio sull’ambiente e sul benessere umano;
l) compensazione ecologica: interventi volti al ripristino delle condizioni di naturalità o seminaturalità dei suoli, finalizzati a compensare quelle perse con gli interventi di edificazione ed urbanizzazione, quali la bonifica e la deimpermeabilizzazione del suolo o gli interventi di cui all’articolo 6 della legge 14 gennaio 2013, n. 10 “Norme per lo sviluppo degli spazi verdi”;
m) invarianza idraulica: il principio secondo il quale la trasformazione di un’area non deve provocare un aggravio della portata di piena del corpo idrico ricevente i deflussi superficiali originati dall’area stessa;
n) potenziamento idraulico: misure volte ad effettuare tutti gli interventi preventivi sui corpi idrici superficiali indirizzati alla protezione dell’ambiente e delle persone in ragione dei radicali cambiamenti climatici.

Sommario: 1. Premessa2. Le singole definizioni; a) “superficie naturale e seminaturale”; b) “superfice agricola”; c) “consumo di suolo”; d) “impermeabilizzazione del suolo”; e) “ambiti di urbanizzazione consolidata”; – f) “opere incongrue o elementi di degrado”; g) “ambiti urbani degradati”; h) “ambiti urbani di rigenerazione”; i) “mitigazione”; l) “compensazione ecologica”; m) “invarianza idraulica” e n) “potenziamento idraulico”3. Considerazioni conclusive.

1. Premessa

La costruzione dell’apparato delle definizioni e, quindi, di un glossario condiviso di quanto viene declinato negli articoli successivi, riveste sempre un ruolo importante all’interno di un testo di legge. Nel caso di questo specifico disegno di legge si tratta non solo di intendersi sui significati, ma di costruire un progetto culturale a partire proprio dalle definizioni che sono, per la maggior parte, divenute patrimonio comune per chi ragiona di governo del territorio, di rigenerazione, di tutela ambientale. Questa legge non è solamente indirizzata a nuovi meccanismi di trasformazione del territorio, legata ad azioni di carattere urbanistico, ma è la risposta a una diffusa consapevolezza della necessità di mettere in sicurezza il territorio veneto dalle scelte sbagliate, non capaci di tutelare e valorizzare le risorse. La necessità di stabilire un limite al consumo di suolo, infatti, non deve far dimenticare che il territorio è un sistema complesso al quale le leggi settoriali possono rispondere solo in modo limitato. Per di più non sempre una nuova legge è una risposta sufficiente: serve un progetto, uno strumento che metta a frutto gli obiettivi e le finalità, che ragioni sui vincoli in modo selettivo e legato alla valutazione degli esiti, che promuova le buone pratiche e che sappia costruire una regia delle trasformazioni a garanzia di una rigenerazione complessiva e non episodica.

Alla base delle definizioni contenute nell’articolo 2 stanno le più recenti norme ed esperienze europee. A partire dalla proposta di Direttiva “Strategia tematica per la protezione del suolo dell’Unione europea” del 2006[1] che ha riconosciuto la necessità di ridurre gli effetti negativi del consumo del suolo. Quest’ultimi sono stati individuati dalla Tabella di marcia verso un’Europa efficiente nell’impiego delle risorse del 2011[2], la quale contiene anche le strategie sul consumo del suolo che l’UE deve perseguire entro il 2020, nonché l’ambizioso obiettivo di imporre il consumo netto di suolo pari a zero entro il 2050. Nel 2012 la Commissione europea ha poi approvato le linee guida per limitare, mitigare e compensare l’impermeabilizzazione del suolo, indicando le priorità da seguire e rinviando agli Stati membri l’adozione della normativa di dettaglio[3]. Infine, nel 2013, il Parlamento europeo ha approvato il settimo programma di azione ambientale, ove si è ribadito che, per essere efficaci, le politiche ambientali devono essere coordinate con le altre politiche europee[4]. Di recente, nel 2016, la Commissione europea ha adottato il documento No net land take 2050, pubblicato all’interno del servizio “Future Briefs” dell’ufficio per le politiche scientifiche e ambientali della Commissione europea, che fa il punto sulle azioni da intraprendere per realizzare l’obiettivo dello stop al consumo del suolo entro il 2050. Ivi si legge che “consumo di suolo pari a zero” non significa impedire un’ulteriore estensione delle aree urbane e infrastrutturali, quanto che per ogni superficie di terreno antropizzata è necessario prevedere la rinaturalizzazione di una superficie di terreno di uguale estensione.

Questi principi europei sono già stati attuati da alcuni Paesi: Austria, Belgio (Fiandre), Germania e Lussemburgo hanno fissato limiti quantitativi all’occupazione di terreno. Questi valori, tuttavia, sono puramente indicativi e sono stati usati come strumento di monitoraggio: in Germania, ad esempio, i risultati ottenuti sono valutati regolarmente, ma dimostrano che, senza misure e programmi vincolanti, gli obiettivi indicati non bastano. In Andalusia (Spagna meridionale), invece, è stato adottato un piano territoriale regionale che introduce un limite quantitativo per i piani regolatori nei Comuni di piccole e medie dimensioni.

In Italia, è in corso di approvazione al Senato il Disegno di Legge S. n. 2383 che, già approvato dalla Camera dei deputati in data 12.05.2016, disciplina il “Contenimento del consumo del suolo e riuso del suolo edificato”. Il testo, di iniziativa governativa, mira al contenimento del consumo di suolo attraverso l’adozione di un limite quantitativo stabilito da una Conferenza unificata, che potrà essere implementato dalle Regioni in base a propri criteri. Questo testo mira a migliorare anche il riuso e la riqualificazione urbana, mitigando il processo di degrado e di impermeabilizzazione del suolo. Oltre a questo, anche altri Disegni di Legge di iniziativa parlamentare si occupano del tema, ad esempio l’Atto del Senato n. 1181 – Legge quadro per la protezione e la gestione sostenibile del suolo, che intende dettare una legge organica e sistematica sull’utilizzo suolo[5].

L’assenza di un quadro nazionale certo sul consumo del suolo non ha impedito alle singole Regioni italiane di definire alcuni limiti quantitativi, incidendo a livello di pianificazione e regolamentazione urbanistica locale. A tal fine ricordiamo che la Regione Lombardia ha adottato la L. R. Lombardia 8.12.2014 n. 31 (Disposizioni per la riduzione del consumo di suolo e per la riqualificazione del suolo degradato), mentre in Emila Romagna è ancora in corso di approvazione il Disegno di Legge recante “Disciplina regionale sulla tutela e l’uso del territorio” che punta a ridurre fortemente le previsioni di nuove costruzioni al di fuori dei territori già urbanizzati. In Toscana (legge regionale 10.11.2014, n. 65) e nella provincia autonoma di Bolzano (legge provinciale 11.08.2009, n. 131) sono state approvate Linee guida indicative che tengono conto della qualità del suolo nella pianificazione territoriale e indirizzano le nuove costruzioni verso suoli di minor valore al fine di preservare le funzionalità esistenti.

2. Le singole definizioni

Con riferimento al contesto normativo, culturale e sociale nel quale la legge è stata scritta, le stesse definizioni sono accomunate dall’obiettivo di mettere in relazione le definizioni urbanistiche e le azioni progettuali con l’effettivo stato dei suoli. Non va infatti dimenticato che, nella maggior parte dei casi, gli strumenti urbanistici vigenti sono stati concepiti in una logica diversa rispetto a quella che dovrebbe essere alla base della riduzione del consumo di suolo. L’approccio progettuale e analitico, anche nei casi virtuosi, è legato alla logica della valutazione delle aree sulla base della loro propensione alla trasformazione. La regolamentazione proposta per il consumo di suolo si struttura principalmente sulla esigenza di salvaguardarne la integrità, evitandone la sottrazione alle attività agricole, promuovendo azioni di mitigazione dei rischi idrogeologico-ambientali, ed interventi di rigenerazione urbana che portino ad abbassare drasticamente gli effetti devastanti della cementificazione subita in questi decenni. Il contenimento del consumo di suolo deriva, dunque, da una logica opposta a quella della pianificazione tradizionale, che è quella di valutare le aree sotto il profilo della capacità di essere conservate. Dunque, è necessario rivedere anche le modalità urbanistiche secondo questo nuovo indirizzo che non è banalmente un divieto di costruire o di impermeabilizzare suoli, quanto la promozione di un metodo che lavora con l’obiettivo di conservare, anche quando ciò comporta la necessità di trasformare.

a) “superficie naturale e seminaturale”

La disposizione accomuna ed accorpa due concetti diversi, “superficie naturale” e “seminaturale”, analogamente alla Direttiva 92/43/CEE del Consiglio del 21 maggio 1992 (Conservazione degli habitat naturali e seminaturali e della flora e della fauna selvatiche), che definisce in questi termini gli habitat naturali: “zone terrestri o acquatiche che si distinguono grazie alle loro caratteristiche geografiche, abiotiche e biotiche, interamente naturali o seminaturali”. È logico supporre che il discrimine tra le due superfici previste dalla norma regionale debba essere ricercato nella diversità ontologica della loro origine: sarebbe “naturale” ciò che è frutto spontaneo della natura (i.e. prati incolti, boschi, foreste, torrenti, ruscelli) e semi-naturale quelle opere che, pur essendo biologiche, sono il frutto dell’attività antropica (i.e. prati coltivati, giardini, parchi, scavi). La disposizione comprende “tutte le superfici non impermeabilizzate”, all’interno delle quali sono comprese: le aree verdi presenti all’interno dell’urbanizzazione consolidata, quelle costituenti continuità ambientale, le aree agricole. Con questo si è inteso sottolineare l’importanza di valutare non solo i terreni agricoli o quelli esterni al tessuto consolidato, ma anche quelle aree verdi che, pur essendo all’interno del costruito, costituiscono continuità ambientale, ecologica e naturalistica. Con riferimento alle indicazioni degli strumenti urbanistici, va sottolineato che nella quantificazione del suolo disponibile deve essere considerato l’uso reale dei suoli e non tanto la previsione di piano: le aree di nuova edificazione non realizzate (in base alla definizione degli “ambiti di urbanizzazione consolidata” di cui alla successiva lett. e), devono intendersi come tali le aree soggette a PUA non ancora approvati) devono essere comprese tra quelle che consumano suolo perché allo stato attuale sono aree libere a tutti gli effetti. Escluderle porterebbe ad una valutazione non corretta delle trasformazioni e andrebbe a premiare i Comuni che hanno sovradimensionato i piani rispetto a quelli che hanno programmato uno sviluppo più attinente alle reali esigenze.

Infine sottolineiamo che l’art. 15, lett. h) della legge attribuisce alla Regione il compito di stimare la superficie naturale e seminaturale, compresa quella agricola, che verrà recuperata in virtù della presente legge e che l’art. 20, modificando l’art. 13 della L. R. Veneto n. 11/2004, ha introdotto i concetti di “superficie naturale e seminaturale” anche nella legge veneta sul governo del territorio.

b) “superfice agricola”

Per “superficie agricola” si intende sia quella classificata come tale negli strumenti urbanistici comunali/provinciali/regionali sia quella utilizzata di fatto come area agricola[6], anche se in contrasto con la zonizzazione e con la classificazione urbanistica. L’utilizzazione dell’area deve rispondere a scopi “agro-silvo-pastorali”, ovvero alle tipiche attività svolte dall’imprenditore agricolo, ex art. 2135 c.c.. Alquanto generica, invece, si rivela l’espressione “spazi liberi delle aree urbanizzate”. A tal proposito riteniamo che il legislatore abbia voluto riferirsi a quelli spazi non edificati che, comunque, sono suscettibili di utilizzazione agricola.

c) “consumo di suolo”

Il consumo del suolo ricomprende non solo l’impermeabilizzazione della superficie naturale e seminaturale, come definita nella successiva lettera d), ma anche gli interventi di “copertura artificiale, scavo o rimozione”. Questi concetti, però, non sono stati enucleati dal legislatore. Si può ipotizzare che la copertura artificiale consista in ogni opera dell’umo che, anche se non impermeabilizza definitivamente il terreno (rectius: modificandone la natura e/o la composizione), lo copra temporaneamente, impedendone la permeabilizzazione; lo scavo, invece, dovrebbe implicare il dissotterramento del terreno che, però, viene mantenuto in loco; la rimozione dovrebbe concernere l’asportazione tout court del suolo. Tutte queste attività, inoltre, devono compromettere le funzioni naturali del suolo, ossia la sua permeabilizzazione. Dato che la norma utilizza il verbo “compromettere”, non è necessario che il consumo del suolo determini un’obliterazione totale delle funzioni eco-sistemiche e delle potenzialità produttive del terreno, essendo sufficiente anche una mera limitazione di queste potenzialità. Collegandosi con quanto già evidenziato con riferimento alla lettera b), sottolineiamo che il legislatore ha utilizzato una nozione “concreta” di consumo del suolo[7] e non una nozione “formale”[8]. Le altre nome della legge che si occupano del consumo del suolo sono: l’art. 1[9], l’art. 3 che indica le finalità della legge, l’art. 4 che contiene le misure di programmazione sul consumo del suolo, l’art. 8 che indica gli interventi di riuso temporaneo del patrimonio esistente, l’art. 11 che disciplina gli accordi di programma che possono derogare ai limiti del consumo del suolo, l’art. 17 che, modificando l’art. 8 della L. R. Veneto n. 11/2004, ha attribuito all’Osservatorio della pianificazione territoriale ed urbanistica il compito di redigere una relazione annuale anche sullo stato del consumo del suolo, oltre che sulle aree degradate e sui programmi di rigenerazione.

d) “impermeabilizzazione del suolo”

A livello europeo, il soil sealing è definito in questi termini: “L’impermeabilizzazione del suolo è la costante copertura di un’area di terreno e del suo suolo con materiali impermeabili artificiali, come asfalto e cemento[10]. La definizione di impermeabilizzazione prevista dal legislatore regionale riguarda tutte le attività e le opere che, cambiando la natura del suolo (rectius: rendendolo definitivamente impermeabile) o coprendolo temporaneamente, “eliminano” la permeabilità dello stesso. Evidenziamo che, se il consumo del suolo di cui alla lett. c) implica soltanto una compromissione delle sue c.d. originarie funzionalità, l’impermeabilizzazione di cui alla lett. d) deve determinare l’annullamento della sua capacità assorbente[11]. Si tratta di una diversità terminologica dalle indubbie ripercussioni pratiche e giuridiche: se, da un lato, vi può essere consumo del suolo anche realizzando opere che non impermeabilizzano il terreno, dall’altro lato, ogni attività di impermeabilizzante determina un consumo del suolo. Anche qui la norma introduce un concetto che risulta privo di una chiara definizione, ove parla di “compattazione del suolo”. Si può supporre che tale concetto ricomprenda, in via residuale, ogni attività antropologica che, diversa dalla costruzione di edifici, impedisce il drenaggio delle acque a causa dell’eccessiva pressione/utilizzazione della crosta terreste[12]. Ricordiamo che nell’all. 5 degli Orientamenti della Commissione del 2012 sono indicati e descritti ben sette tipologie di materiali permeabili, ovvero: (1) prati rasati, (2) ghiaia inerbita, (3) grigliato erboso in plastica e (4) in calcestruzzo, (5) superfici aggregate con acqua, (6) pavimentazioni in calcestruzzo permeabile e (7) asfalto poroso. Infine, anche nell’art. 9 si parla di superfici impermeabili.

e) “ambiti di urbanizzazione consolidata”

La norma introduce la definizione degli ambiti di urbanizzazione consolidata. Questa definizione, però, desta qualche perplessità laddove statuisce che essi possono non coincidere con gli ambiti di urbanizzazione consolidata già definiti dal P.A.T., ex art. 13, co. 1, lett. o) della l.r. n. 11/2004. Come già evidenziato nel commento alla precedente lett. a), la disposizione in esame definisce come “ambiti di urbanizzazione consolidata”, oltre all’ “insieme della parti del territorio già edificato, comprensivo delle aree libere intercluse o di completamento” con le destinazioni urbanistiche (insediativa, dotazione a standard e ad attrezzature pubbliche) ivi richiamate, anche le “parti del territorio oggetto di un piano urbanistico attuativo approvato”, oltre ai “nuclei insediativi in zona agricola”. Quanto alle aree comprese negli ambiti assoggettati a pianificazione attuativa, va evidenziato che il riferimento al “piano urbanistico attuativo approvato” si discosta dalla definizione delle “aree di urbanizzazione consolidata”, fornita dall’Atto d’indirizzo di cui all’50, co. 1, lett. f) (“contenuti essenziali del quadro conoscitivo, della relazione illustrativa, delle norme tecniche del piano di assetto del territorio e del piano degli interventi”) della l.r. n. 11/2004, approvato con D.G.R.V. n. 3811 del 9 dicembre 2009. In tale provvedimento, infatti, viene chiarito che nelle aree di urbanizzazione consolidata vanno ricomprese le “zone di completamento e le aree a servizi (zone F) già realizzate, con l’aggiunta delle zone in corso di trasformazione”, con la precisazione che “si intendono in corso di trasformazione anche gli Ambiti di Piano Attuativo con la relativa convenzione già stipulata”. Pertanto, la definizione che qui si commenta finisce per ampliare le possibilità di consumare il suolo, anziché ridurne l’uso. Detto in altre parole, introducendo una definizione di ambiti di urbanizzazione consolidata più ampia di quella dei P.A.T. comunali o dei P.A.T.I. intercomunali, la norma “favorisce” l’edificazione, perché gli interventi previsti dagli strumenti urbanistici generali ricadenti all’interno degli ambiti di urbanizzazione consolidato sono “fatti salvi” dalla legge regionale (cfr. art. 3, co. 2 e co. 3, art. 5, co. 2, art. 6, co. 3, art. 11, art. 12, co. 1, lett. a)). Forse sarebbe stato auspicabile una definizione unitaria ed universale di questi ambiti, anziché realizzare un c.d. doppio binario. A livello procedimentale, la disciplina che i Comuni devono seguire per individuare e/o rettificare questi ambiti è contenuta nell’art. 13, co. 9.

f) “opere incongrue o elementi di degrado”

La norma si riferisce agli edifici singoli o a quei manufatti che sono incongrui o che si trovano in uno stato di degrado che li rende soggetti alla riqualificazione edilizia ed ambientale di cui all’art. 5. L’individuazione di queste strutture, però, lascia perplessi: la norma, infatti, attribuisce un’ampia discrezionalità alla Pubblica Amministrazione nell’individuare e/o nel definire le opere incongrue. A tal fine suggeriamo di porre in essere istruttorie articolate e approfondite per evitare di incorrere in valutazioni che potrebbero essere annullate dal Giudice Amministrativo per eccessiva genericità, disparità di trattamento o irragionevolezza. Le altre disposizioni che si occupano delle opere incongrue sono gli artt. 9, 10 e 15 della legge.

g) “ambiti urbani degradati”

Qui il legislatore ha inteso introdurre la definizione delle aree che, ricadenti all’interno degli ambiti di urbanizzazione consolidati, sono assoggettabili alla riqualificazione urbana di cui all’art. 6. Si è in presenza di un ambito degradato se ricorre almeno una delle ipotesi di degrado previste dalla norma, ovvero: – degrado edilizio – degrado urbanistico – degrado socio-economico – degrado ambientale. Anche qui si tratta di valutazioni che i diversi enti competenti devono svolgere usufruendo di un’ampia discrezionalità amministrativa che, come già ricordato, non deve sfociare nell’irragionevolezza o nell’ingiustizia manifesta. Un elemento a favore di una valutazione “ponderata” potrebbe derivare dalla definizione di “qualità architettonica” contenuta nell’art. 9, co. 1 della legge, che fornisce vari parametri di riferimento. Sul concetto di degrado evidenziamo che l’art. 5, co. 9 della L. 12.07.2011 n. 106, di conversione in legge del Decreto Legge 13 maggio 2011 n. 70 (c.d. Decreto Sviluppo), aveva già attribuito alle Regioni il compito di approvare specifici testi normativi “Al fine di incentivare la razionalizzazione del patrimonio edilizio esistente nonché di promuovere e agevolare la riqualificazione di aree urbane degradate con presenza di funzioni eterogenee e tessuti edilizi disorganici o incompiuti nonché di edifici a destinazione non residenziale dismessi o in via di dismissione ovvero da rilocalizzare”. Questa norma statale, però, non conteneva le definizioni delle varie tipologie di degrado. A livello procedimentale, l’art. 15 attribuisce alla Giunta regionale il compito di redigere la ricognizione degli ambiti urbani degradati, come individuati dai singoli Comuni ai sensi dell’art. 6.

h) “ambiti urbani di rigenerazione”

La norma si riferisce alle aree che, ricadenti all’interno degli ambiti di urbanizzazione consolidati, sono assoggettabili alla rigenerazione urbana e sostenibile di cui all’art. 7.

Con questa definizione si introduce il principio secondo il quale la rigenerazione urbana non può essere intesa in modo generalizzato, come recupero dell’esistente e delle aree dismesse e degradate; è necessario distinguere tra operazioni edilizie, recuperi di comparti edificati e rigenerazione urbana in senso proprio. Tutte queste trasformazioni sono importanti e contribuiscono alla riduzione del consumo di suolo, ma non sono tra loro equivalenti. Per questa ragione è importante distinguere gli interventi di rigenerazione urbana sostenibile, rispetto a quelli di riqualificazione edilizia, ambientale, energetica e a quelli di riqualificazione urbana. La rigenerazione urbana sostenibile comporta l’individuazione di ambiti urbani complessi, strategici con riferimento a territori ampi, ma anche a criteri di sviluppo economico, alla creazione di posti di lavoro, alla promozione della ricerca e della qualità dei luoghi. È un’operazione che deve essere gestita da un soggetto pubblico proprio per la sua estensione e complessità e deve anche essere sostenuta economicamente sia nella fase di progettazione sia nell’attuazione, costituendo un elemento prioritario per l’accesso a fondi regionali, statali ed europei. Anche in questo caso l’elenco dei temi e delle specificità che caratterizzano la rigenerazione urbana va oltre il ruolo della definizione e vuole costruire un concetto che non è solo utile a riconoscere tali caratteristiche nei luoghi, ma anche a orientarne la trasformazione.

Per comprendere appieno la portata dell’art. 7 è indispensabile leggere gli obiettivi della rigenerazione urbana indicati nella presente definizione. Sottolineiamo che questa disposizione, per essere applicata concretamente e correttamente dai Comuni, deve essere attuata assieme all’art. 7 ed all’art. 36 della l. r. n. 11/2004 che, come modificata dalla presente l. r. n. 14/2017, attribuisce al P.A.T. e poi al P.I. il compito di individuare gli edifici e le aree di cui alla lettera f), g) e h). La norma va coordinata anche con l’art. 4, co. 1, lett. b), che attribuisce alla Giunta regionale il compito di individuare i criteri e gli obiettivi per recuperare questi ambiti. Infine l’art. 15 invita poi la Giunta regionale a redigere la ricognizione degli ambiti di rigenerazione urbani come individuati ai sensi dell’art. 7.

i) “mitigazione”

Si tratta di quelle misure che, direttamente o indirettamente, permettono di limitare e/o neutralizzare gli effetti negativi causati dall’edificazione. La norma parla genericamente di “effetti negativi”. Questa espressione così ampia e generica, però, desta non poche perplessità, soprattutto a causa delle ovvie difficoltà connesse all’individuazione di questi effetti sfavorevoli. Merita osservare che la definizione introduce per la prima ed unica volta nel corpo della legge regionale l’espressione “benessere umano”. Da ciò si ricava che le misure previste da questa lett. i) devono mitigare non solo gli effetti negativi causati all’ambiente lato sensu inteso, ma anche quelli provocati alla salute umana ed al benessere psico-fisico dell’individuo. Si tratta davvero di un obiettivo apprezzabile, seppur alquanto difficile da realizzare[13]. Anche gli artt. 4 e 11 si occupano della mitigazione ambientale.

l) “compensazione ecologica”

La previsione prevede che gli interventi di edificazione devono essere compensati con altri interventi idonei a ristabilire le superfici naturali e seminaturali. La norma contiene alcuni esempi di questi interventi, quali la bonifica, la deimpermeabilizzazione e gli interventi previsti dall’art. 6 della L. n. 10/2013, che incentiva le c.d. cinture verdi attorno ai centri abitati ed il c.d. rinverdimento verticale sugli edifici. Si tratta di interventi meramente esemplificativi: nulla osta che la permeabilizzazione del suolo venga realizzata attraverso altri strumenti. Si parla di compensazione ecologica anche negli artt. 4 e 11.

m) “invarianza idraulica” e n) “potenziamento idraulico”

Si tratta di concetti già noti a livello europeo[14]. Con riferimento alla lettera n), va rilevato che la norma collega l’adozione di queste misure non tanto all’edificazione che impedisce, de facto, la permeabilizzazione del suolo, quanto ai “radicali cambiamenti climatici”, intendendo con ciò, verosimilmente, fare riferimento ai nuovi, impattanti, fenomeni metereologici, quali le c.d. “bombe d’acqua”, che rendono sempre più deficitarie le portate dei corpi idrici superficiali. Questi concetti sono richiamati anche nell’art. 3 della legge.

3. Considerazioni conclusive

Si tratta di una articolazione delle definizioni che raccoglie tutti i temi che compongono la cultura contemporanea, italiana ed europea, della salvaguardia dei suoli e della rigenerazione urbana.

Probabilmente non sarà semplice e immediata l’applicazione, perché è una scrittura “progettuale” che declina non tanto le limitazioni quanto gli obiettivi che si vogliono conseguire, mettendo assieme le aree naturali con quelle degradate, non in contrapposizione ma in sinergia tra loro. Dunque, la lettura non è univoca e richiede che si valuti il senso di quanto viene definito avendo a disposizione l’ampia cultura ed esperienza prodotta dalla lunga stagione della pianificazione in Veneto. Questo obiettivo è anche di difficile attuazione, perché richiede la capacità di tornare sulle scelte fatte e sulle aspettative che queste hanno generato. A tal fine serve avere presente che ciò che rimane dal suolo utilizzato per le urbanizzazioni non è un negativo del costruito, ma un compendio di aree verdi naturali e un sistema produttivo di alta qualità, quale è quello agricolo, che merita di essere affrontato non solo in termini di edificabilità (tema centrale delle diverse leggi regionali sulle zone agricole), ma di tutela, controllo dagli usi impropri anche ai fini colturali e valorizzazione economica.

Le parole, e anche gli strumenti, ci sono: esse, però, non devono essere tradite dal modo in cui vengono applicate o, ancor peggio, eluse.

[1] Trattasi della Comunicazione della Commissione al Consiglio, al Parlamento europeo, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle Regioni del 22.09.2006 COM (2006) 231 definitivo. Ivi si legge che: “Per un utilizzo più razionale del suolo, gli Stati membri saranno chiamati ad adottare provvedimenti adeguati per limitare il fenomeno dell’impermeabilizzazione (sealing) tramite il recupero dei siti contaminati e abbandonati (i cosiddetti brownfields) e ad attenuare gli effetti di questo fenomeno utilizzando tecniche di edificazione che permettano di conservare il maggior numero possibile di funzioni del suolo”. Questa proposta di Direttiva, però, è stata ritirata dalla Commissione nella seduta del 30.04.2014 (pubblicata nella G.U. C163 del 28.05,2014), perché non vi era una maggioranza qualificata per approvarla.

[2] Trattasi della Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle Regioni del 20.09.2011 COM (2011) 571 definitivo. Ivi si legge che, poiché: “Nell’UE ogni anno oltre 1 000 km² di nuovi terreni sono utilizzati per costruire abitazioni, industrie, strade o a fini ricreativi e circa la metà di queste superfici è, di fatto, “sigillata”. La disponibilità di infrastrutture varia sensibilmente da una regione all’altra, ma complessivamente ogni dieci anni si edifica una superficie pari all’isola di Cipro. Se vogliamo seguire un percorso lineare che ci porti, entro il 2050, a non edificare più su nuove aree, occorre che nel periodo 2000-2020 l’occupazione di nuove terre sia ridotta in media di 800 km² l’anno. In molte regioni il suolo è eroso in maniera irreversibile o contiene bassissime quantità di materia organica, a cui si aggiunge il grave problema della contaminazione dei suoli”, l’obiettivo dell’Europa è che “entro il 2020 le strategie dell’UE terranno conto delle ripercussioni dirette e indirette sull’uso dei terreni nell’UE e a livello mondiale la percentuale di occupazione dei terreni sarà conforme all’obiettivo di arrivare a quota zero entro il 2050; l’erosione dei suoli sarà ridotta e il contenuto di materia organica aumentato, nel contempo saranno intraprese azioni per ripristinare i siti contaminati”.

[3] Trattasi del Documento di lavoro dei servizi della Commissione (Orientamenti in materia di buone pratiche per limitare, mitigare e compensare l’impermeabilizzazione de suolo) del 15.05.2012 SWD (2012) 101 final/2. Ivi si legge che: “Il presente documento di lavoro dei servizi della Commissione descrive gli approcci tesi a limitare, mitigare e compensare l’impermeabilizzazione del suolo, attuati negli Stati membri. Limitare l’impermeabilizzazione del suolo significa impedire la conversione di aree verdi e la conseguente impermeabilizzazione del loro strato superficiale o di parte di esso. Rientrano in tale concetto le attività di riutilizzo di aree già edificate, ad esempio siti dismessi. Sono stati fissati obiettivi da utilizzarsi come strumenti a fini di controllo e per stimolare progressi futuri. La creazione di incentivi all’affitto di case non occupate ha altresì contribuito a limitare l’impermeabilizzazione del suolo. Laddove si è verificata un’impermeabilizzazione, sono state adottate misure di mitigazione tese a mantenere alcune delle funzioni del suolo e ridurre gli effetti negativi diretti o indiretti significativi sull’ambiente e il benessere umano. Tali misure comprendono, se del caso, l’impiego di opportuni materiali permeabili al posto del cemento o dell’asfalto, il sostegno all’infrastruttura verde” e un ricorso sempre maggiore a sistemi naturali di raccolta delle acque. Qualora le misure di mitigazione adottate in loco siano state ritenute insufficienti, sono state prese in considerazione misure di compensazione, ricordando tuttavia che è impossibile compensare completamente gli effetti dell’impermeabilizzazione. L’obiettivo è stato piuttosto quello di sostenere o ripristinare la capacità generale dei suoli di una determinata zona affinché possano assolvere le loro funzioni o quanto meno gran parte di esse”.

[4] Trattasi della Decisione n. 1386/2013/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 20.11.2013 su un programma generale di azione dell’Unione in materia di ambiente fino al 2020 «Vivere bene entro i limiti del nostro pianeta».

[5] Gli altri Atti del Senato di iniziativa parlamentare sono: A.S. n. 769 – Disposizioni per il contenimento del consumo del suolo; A.S. n. 991 – Disposizioni per il contenimento del consumo del suolo e la tutela del paesaggio; A.S. n. 1734 – Riconversione ecologica delle città e limitazioni al consumo del suolo; A.S. n. 1836 – Misure per favorire la riconversione e la riqualificazione delle aree industriali dismesse.

[6] Anche nell’art. 2 del Disegno di Legge n. 1734 e nell’art. 2 del Disegno di Legge n. 769 si ritrova una definizione di superficie agricola similare; al contrario, l’art. 2 del Disegno di Legge n. 2383 contempla soltanto le superfici dichiarate agricole dagli strumenti urbanistici.

[7] Una definizione similare di consumo del suolo è contenuta nell’art. 2 del Disegno di Legge n. 2383.

[8] La diversità è lapalissiana dal raffronto con l’art. 2, co. 1, lett. c) della L. R. Lombardia 8.12.2014 n. 31 (Disposizioni per la riduzione del consumo di suolo e per la riqualificazione del suolo degradato). Come correttamente statuito dal T.A.R. Brescia, sez. I, nella sentenza del 17.01.2017, n. 47, infatti, “La disciplina introdotta dalla l.r. n. 31/2014 ha la finalità di indirizzare la pianificazione urbanistica, a tutti i livelli (PTR, PTCP, PGT), verso un minore consumo di suolo. La definizione normativa di consumo di suolo introdotta dall’art. 2 comma 1-c della l.r. n. 31/2014 (“trasformazione, per la prima volta, di una superficie agricola da parte di uno strumento di governo del territorio, non connessa con l’attività agro-silvo-pastorale, esclusa la realizzazione di parchi urbani territoriali”) ha carattere formale, ossia prende in considerazione il territorio non sulla base dello stato dei luoghi ma per la qualifica che ne è stata data dalla zonizzazione”.

[9] Sul punto si ricorda che, a livello statale, l’art. 2 del Disegno di Legge n. 1181 contiene una definizione davvero esaustiva di suolo: “lo strato superficiale della crosta terrestre, formato da particelle minerali, materia organica, acqua, aria e organismi viventi. Esso, grazie alla propria fertilità fisica, chimica e biologica, produce insostituibili funzioni e servizi ecosistemici nella produzione di alimenti e di altre biomasse, nell’immagazzinare e trasformare minerali, materia organica, acqua, energia e sostanze chimiche, nel filtrare le acque e gli inquinanti. Il suolo rappresenta la piattaforma dell’attività umana, oltre a costituire l’habitat di gran parte degli organismi della biosfera; esso è fonte di materie prime ed è testimone degli ambienti del passato; esso inoltre è componente essenziale della Zona critica della Terra, cioè dello strato che si estende dal limite più esterno della vegetazione fino alla zona in cui circolano le acque sotterranee. Il suolo è una risorsa soggetta a processi di formazione estremamente lenti e pertanto è da considerarsi una risorsa non rinnovabile”.

[10] Cfr. art. 2.1. degli Orientamenti della Commissione del 2012.

[11] Nell’art. 2 del Disegno di Legge n. 1734, si definisce l’impermeabilizzazione come “l’azione antropica che ha come conseguenza la copertura permanente o semi-permanente del suolo”.

[12] Nel Disegno di Legge S. n. 1181 (Legge quadro per la protezione e la gestione sostenibile del suolo), all’art. 2, lett. d) si può rinvenire una chiara definizione di compattazione: “fenomeno causato da eccessive pressioni meccaniche, conseguenti all’utilizzo di macchinari pesanti o al sovrapascolamento. In seguito alla compattazione, il suolo perde la naturale densità e porosità, diminuendo la sua permeabilità e fertilità”.

[13] Anche negli Orientamenti della Commissione del 2012 si parla di benessere urbano, ove si statuisce, all’art. 8 dell’All. 4, che: “È ormai assodato che le aree verdi urbane contribuiscono al benessere e alla salute degli abitanti. Qualità e quantità di spazi e corridoi verdi in una città sono essenziali per i benefici sociali e ambientali. A parte il valore estetico, sono importanti per regolare flussi idrici e temperatura, oltre che biodiversità e clima. Infine, gli spazi verdi contribuiscono alla qualità dell’aria grazie all’effetto positivo sull’umidità che mantiene una città “in buona salute”. Pertanto un’impermeabilizzazione intensiva del suolo, senza spazi aperti di qualità sufficiente, soprattutto in zone altamente urbanizzate, riduce la qualità di vita e rende più difficile una vita sociale multiforme. D’altro canto, non si può trascurare il fatto che piazze e giardinetti asciutti e puliti (preferibilmente ma non necessariamente dotati di strutture verdi) sono essenziali per la vitalità delle attività sociali, per la comunicazione, lo svago e l’intrattenimento”.

[14] Nell’art. 2.2 dell’all. 4 degli Orientamenti della Commissione del 2012 si legge: “Un suolo coperto da vegetazione assorbe molta più acqua di uno coperto da materiale impermeabile o semi-impermeabile, anche se gli alberi catturano gran parte delle precipitazioni che evaporano prima di raggiungere il suolo sottostante. L’acqua in eccesso che non è assorbita o che è rilasciata solo lentamente dal suolo o dalle falde crea un deflusso superficiale lungo i pendii oppure forma delle pozze nei bacini. In ambiente urbano normalmente bisogna raccoglierla, canalizzarla e trattarla. Il deflusso superficiale può essere considerevolmente ridotto aumentando la percentuale di suoli aperti. Modificarne la capacità di infiltrazione è molto più complesso, perché dipende in larga parte da caratteristiche del suolo difficilmente modificabili. In una certa misura, i tetti verdi evitano il deflusso superficiale, sebbene la loro capacità di ritenzione idrica sia limitata e non paragonabile a quella del suolo aperto”.

Commento all’art. 1 l.r. n. 14/2017

di Livio Viel

Art. 1

Principi generali

1. Il suolo, risorsa limitata e non rinnovabile, è bene comune di fondamentale importanza per la qualità della vita delle generazioni attuali e future, per la salvaguardia della salute, per l’equilibrio ambientale e per la tutela degli ecosistemi naturali, nonché per la produzione agricola finalizzata non solo all’alimentazione ma anche ad una insostituibile funzione di salvaguardia del territorio.
2. Il presente Capo detta norme per il contenimento del consumo di suolo assumendo quali princìpi informatori: la programmazione dell’uso del suolo e la riduzione progressiva e controllata della sua copertura artificiale, la tutela del paesaggio, delle reti ecologiche, delle superfici agricole e forestali e delle loro produzioni, la promozione della biodiversità coltivata, la rinaturalizzazione di suolo impropriamente occupato, la riqualificazione e la rigenerazione degli ambiti di urbanizzazione consolidata, contemplando l’utilizzo di nuove risorse territoriali esclusivamente quando non esistano alternative alla riorganizzazione e riqualificazione del tessuto insediativo esistente, in coerenza con quanto previsto dall’articolo 2, comma 1, lettera d) della legge regionale 23 aprile 2004, n. 11 “Norme per il governo del territorio e in materia di paesaggio”.

Sommario: 1. Il fenomeno del “consumo di suolo” e i provvedimenti dell’Unione Europea2. Il problema del consumo del suolo in Italia e lo stato della legislazione nazionale3. L’art. 1 della legge della Regione Veneto: i principi ispiratori. L’emergere della categoria giuridica del “suolo” quale “bene comune”4. Il secondo comma dell’art. 1 e il problema del “governo del territorio”.

1. Il fenomeno del “consumo di suolo” e i provvedimenti dell’Unione Europea

Per esaminare e comprendere la legge numero 14 del 9 giugno 2017 della Regione Veneto e in particolare il suo primo articolo, che ricorda i principi generali su cui è stato costruito il nuovo corpo normativo, è necessario un breve excursus sui presupposti – in particolare quelli europei – che hanno determinato l’approvazione della legge sul contenimento del consumo dei suoli in Veneto.

Il tema del contenimento, ma anche della riduzione, del consumo di suolo si è imposto, nell’ultimo decennio, come questione centrale delle politiche territoriali – intese nel senso più ampio del termine e, dunque, con tutti i risvolti sociali ed economici involti – a livello europeo trattandosi, nel caso appunto del consumo del suolo naturale, della variante più grave del problema della pressione antropica sulle risorse naturali.

I dati indicano che nell’anno 2014 il consumo giornaliero di suolo in Italia è stato di circa 70 ettari, principalmente imputabile alla costruzione di edifici, ferrovie e strade[1]. In Europa, continente maggiormente urbanizzato al mondo, ogni anno si stima un consumo di suolo di circa 1000 kmq, più dell’intera città di Berlino[2].

L’eccessivo consumo di suolo determina conseguenze negative, sempre più evidenti, sulla vita quotidiana delle comunità e dei singoli individui: il fenomeno ha superato la soglia di criticità e le negatività e i costi indotti dall’eccessiva urbanizzazione diffusa (oltretutto discontinua e di scadente qualità) hanno ormai superato in più parti del continente e anche d’Italia, il punto di sostenibilità e risultano complessivamente maggiori di tutti i possibili vantaggi e utilità ritraibili dall’urbanizzazione del suolo.

Accanto alla “questione urbana”, ormai da tempo oggetto di attenzione nell’ordinamento europeo, ha così assunto un’autonoma peculiarità e rilevanza la tematica afferente alle esternalità negative dell’uso del suolo. La Commissione Europea già nel 2002[3] aveva definito il suolo “risorsa essenzialmente non rinnovabile, caratterizzata da velocità di degrado potenzialmente rapide e processi di formazione e rigenerazione estremamente lenti”. Lo stesso documento della Commissione individuava il “suolo” come catalizzatore di fondamentali funzioni non solo ambientali, ma anche sociali ed economiche, sottolineando in proposito gli effetti negativi determinati dalla continua perdita di permeabilità dei terreni[4].

È peraltro nel 2006 che la Commissione Europea, con il documento denominato “Strategia tematica per la protezione del suolo”[5] ha giudicato necessario enunciare una strategia generale dell’Unione improntata ai seguenti principi guida: prevenzione, conservazione, recupero e ripristino della funzionalità del suolo. Secondo la Commissione è necessario che tale strategia si affidi a un complesso di interventi che per aver successo dovranno necessariamente coinvolgere sia i vari livelli del governo locale che le autorità statali quanto, infine, la stessa Unione Europea, secondo un fondamentale principio di sussidiarietà sia orizzontale che verticale[6].

Nel 2011 la Commissione è nuovamente intervenuta sul tema, indicando come obiettivo dell’Unione quello di arrivare a “quota zero entro il 2050” di occupazione di nuovo suolo[7] sottolineando l’importanza della protezione dei suoli anche attraverso l’elaborazione di “orientamenti in materia di buone pratiche per limitare, mitigare e compensare l’impermeabilizzazione del suolo[8].

Come si vede, l’attenzione è fondamentalmente rivolta al tema dell’impermeabilizzazione, vera cartina di tornasole – se così si può dire – del fenomeno dell’occupazione dei terreni naturali. Il fenomeno risulta aggravato dal fatto che ormai gli effetti negativi si estendono oltre la perdita dell’equilibrio ambientale, incidendo direttamente e sempre più negativamente sulle stesse economie delle comunità, oltre che sulla sfera sociale.

È importante dire subito che dal complesso dei documenti di elaborazione comunitaria emerge una constatazione fondamentale, ossia che l’occupazione e l’impermeabilizzazione del suolo sono fenomeni fondamentalmente riconducibili a decisioni e scelte delle varie autorità preposte alla pianificazione territoriale. Decisioni e scelte, di natura essenzialmente urbanistica, che all’analisi della Commissione sono risultate come generalmente prese in assenza di un’adeguata preventiva valutazione degli effetti complessivi della trasformazione territoriale.

2. Il problema del consumo del suolo in Italia e lo stato della legislazione nazionale

L’esistenza del problema dell’eccessivo consumo del suolo risulta particolarmente evidente in Italia, stante anche la particolare conformazione geografica e geologica del nostro territorio, caratterizzato da fenomeni di fragilità e di dissesto, pericolosità sismica e attività vulcanica, alluvioni e frane e dove la competizione tra uso agricolo del suolo e urbanizzazione, risulta ancora particolarmente accentuata nelle aree rimaste idonee.

Il fenomeno è reso più complesso da alcune particolarità della nostra legislazione territoriale, che ad esempio riserva alle amministrazioni locali il compito di disciplinare le trasformazioni territoriali, contemporaneamente prevedendo che le stesse amministrazioni reperiscano importanti risorse economiche per il proprio funzionamento attraverso strumenti di fiscalità collegati proprio allo sviluppo e all’espansione urbanistica. Il che favorisce evidentemente politiche di trasformazione territoriale espansive a discapito, come ha appunto rilevato l’Unione Europea, del mantenimento dell’equilibrio naturale del suolo[9].

Senza dire del ruolo svolto presso i centri di governo legislativo dalle potenti lobbies legate agli interessi immobiliari ed edilizi e a un regime giuridico della proprietà fondiaria che favorisce la trasformazione immobiliare a discapito degli interessi collettivi.

Si è così registrato un grave ritardo da parte dell’Italia nell’affrontare il problema del contenimento del consumo del suolo, essendo ancora privo il nostro Paese di una legge in materia: è infatti tuttora giacente avanti il Senato il disegno di legge n. 2039 approvato in prima lettura dalla Camera dei Deputati il 12 maggio 2016[10].

Nell’attesa di una legislazione statale in grado di recepire i principi comunitari e di delineare (finalmente) un quadro unitario che definisca positivamente la nozione giuridica di “suolo” e inquadri il tema del “contenimento del consumo di suolo”, è intervenuta invece la legislazione regionale, attuando il principio di “sussidiarietà” fissato dalla Commissione Europea: sono ormai molte le Regioni che hanno adottato specifiche legislazioni ispirate ai ricordati documenti comunitari e ai principi colà affermati[11].

3. L’art. 1 della legge della Regione Veneto: i principi ispiratori. L’emergere della categoria giuridica del “suolo” quale “bene comune”

Anche la Regione Veneto con la legge 14 del 9 giugno 2017 si è adeguata alle indicazioni comunitarie, intendendo peraltro e prima di tutto, come ben evidenzia la relazione alla legge stessa, dare una risposta al problema concreto posto appunto dall’ormai eccessiva occupazione di suolo naturale, anche nell’ambito geografico del Veneto.

L’art. 1 della legge, enunciando i “principi generali” introduce la definizione di “suolo”, quale “risorsa limitata e non rinnovabile” riprendendo in ciò la nozione data dalla Commissione Europea nel 2006 per la quale il suolo è “risorsa fondamentale ed essenzialmente non rinnovabile”.

Proprio per la sua natura di “risorsa non rinnovabile” il suolo è stato concettualmente ricompreso – già nell’elaborazione dottrinaria prima ma, recentemente, anche in quella giurisprudenziale – nella più ampia nozione dei c.d. “beni comuni”. Questi si possono individuare in quei beni che prescindendo da una specifica individuazione legislativa, risultano comunque di per sé fondamentali per assicurare alla collettività la soddisfazione di interessi e bisogni primari ed essenziali: ciò, anche prescindendo dal titolo e dal regime formale di appartenenza proprietaria[12].

Già il disegno di legge statale approvato dalla Camera definisce il suolo “bene comune” e così anche la nuova legge veneta riprende esplicitamente la nozione giuridica di “bene comune” riferendola al “suolo”: formulazione centrale, questa, che caratterizza in realtà l’intera legge in commento.

La definizione del suolo quale “bene comune” appare infatti già nella formulazione del primo comma dell’art. 1: la nozione è chiaramente intersettoriale ed è determinata dalle plurime caratteristiche funzionali, intrinsecamente proprie appunto dei c.d. “beni comuni”.

A questo proposito, la norma richiama i vari e plurimi interessi collettivi e valori fondamentali (di rango altresì costituzionale) che determinano, come si è detto, le caratteristiche giuridiche del “bene comune”: sono infatti esplicitamente ricordate dalla norma, quali funzioni e risorse collettive assicurate dal “suolo”, la “qualità della vita delle generazioni attuali e future”, la “salvaguardia della salute”, “l’equilibrio ambientale”, la “tutela degli ecosistemi naturali”, “l’agricoltura” (sia essa finalizzata all’alimentazione che alla salvaguardia del territorio).

L’affermazione contenuta nel primo comma dell’art. 1 in commento non è dunque meramente programmatica e astratta ma costituisce un assunto fondamentale gravido di conseguenze concrete anche sul piano operativo e applicativo non solo di questa legge ma anche di molte altre disposizioni. Non occorrerà per questo evidenziare particolarmente che la ricomprensione del suolo – nel momento in cui assume le ricordate caratteristiche e funzioni definite dal primo della norma – nel novero dei “beni comuni” sia particolarmente importante dal punto di vista giuridico, sol che si consideri come il riconoscimento di risorsa non rinnovabile costituente altresì bene comune, consenta di superare la vexata quaestio della scorporabilità del c.d. ius aedificandi rispetto al diritto di proprietà[13] e di qualificare il contenimento del consumo di suolo come interesse collettivo giuridicamente tutelato.

Non vi è qui lo spazio e neppure è questo il momento per sviluppare l’argomento testé enunciato; è peraltro evidente che l’evoluzione dottrinaria e giurisprudenziale, seguita ormai anche dal legislatore regionale e presto – si auspica – da quello nazionale, sulla scia dei precedenti europei, è destinata a determinare una vera e propria rivoluzione anche rispetto a consolidati principi, quale appunto quello dell’inerenza della facoltà edificatoria (e dunque della facoltà di occupare e impermeabilizzare nuovi suoli) al diritto del privato sul bene immobile. Ciò, con tutte le inevitabili conseguenze in tema ad esempio di espropri e d’indennizzabilità, oppure sulla stessa definizione di vincolo urbanistico e sulle prescrizioni c.d. “conformative” dell’attività edilizia.

Pare qui peraltro necessario ricordare la sentenza n. 2921 del 28.06.2016 del Consiglio di Stato nella quale il giudice amministrativo è stato chiamato a conoscere della legittimità di talune trasformazioni previste da un piano regolatore comunale comportanti un “consumo di suolo” eccedente la misura consentita dagli strumenti pianificatori di rango superiore. L’importanza della ricordata decisione risiede in ciò: il giudice amministrativo ha riconosciuto legittimazione e interesse all’azione in capo ad un’associazione ambientalista (che appunto impugnava la pianificazione urbanistica di un Comune perché in contrasto con il principio del contenimento del consumo di suolo) in quanto portatrice – la stessa associazione – di un interesse diffuso meritevole di protezione costituito proprio dall’identificazione del suolo quale bene avente le caratteristiche di risorsa limitata non rinnovabile, propria dei “beni comuni”.

Ulteriore aspetto notevole della sentenza 2921/2016 del Consiglio di Stato consiste in ciò che la decisione ha anche definito il concetto di territorio destinato alla “urbanizzazione” differenziandolo e contrapponendolo al concetto di “suolo” il cui consumo va contenuto. A questo proposito la sentenza ha affrontato il problema della definizione delle superfici urbanizzate (somma delle superfici già impermeabilizzate esistenti e di quelle programmate con piani attuativi al momento dell’adozione dello strumento urbanistico) rendendo evidente la contrapposizione (neppur potenziale) esistente tra la nozione tradizionale di “urbanistica” (essenzialmente intesa come trasformazione del territorio) e quella di “suolo – bene comune” (inteso come risorsa limitata non trasformabile).

4. Il secondo comma dell’art. 1 e il problema del “governo del territorio”

Quanto testé ricordato sul delicato e complesso rapporto tra “urbanistica” e “suolo” introduce direttamente anche alla lettura del secondo comma del primo articolo della legge regionale n. 14/2017, comma che intende esplicitare quali siano i “principi informatori” assunti a base delle successive norme del capo I della legge: risulta evidente, già dalla lettura di questa parte della norma, la preoccupazione del legislatore regionale di armonizzare i principi sul contenimento del consumo di suolo con la programmazione e pianificazione territoriale che, nella nostra Regione, trova la sua massima esplicazione normativa nelle “Norme per il governo del territorio e in materia del paesaggio” espressamente citate, non a caso, proprio a chiusura dell’articolo in commento.

In effetti è evidente che l’assunzione del concetto di “suolo”, nei termini delineati dal primo comma dell’art. 1 della legge, è destinata a determinare una rimodulazione della nozione di “pianificazione territoriale” e di “governo del territorio” e della stessa concreta distribuzione delle competenze legislative e amministrative in materia.

Infatti, se è vero che per quanto concerne le competenze legislative e amministrative nella materia dell’urbanistica e della pianificazione e gestione territoriale l’ordinamento ha riservato alle Regioni e ai Comuni le fondamentali funzioni, è altrettanto vero che nella materia dell’ambiente e del paesaggio, dei parchi, della tutela delle acque, dei beni ambientali, dei boschi e delle foreste, ecc. le competenze legislative e amministrative sono attribuite allo Stato, mentre alle Regioni competono funzioni essenzialmente attuative delle disposizioni statali.

È evidente pertanto che la disciplina delle “conservazioni” si scontra inevitabilmente con quella delle “trasformazioni” e determina la necessità di una programmazione di area vasta che probabilmente ridurrà il ruolo delle amministrazioni comunali in favore di livelli gestionali superiori, come meglio si dirà nei commenti alle norme che seguono.

Va da sé infatti che l’arretramento della categoria delle funzioni dell’urbanistica e l’emergere di altri interessi e priorità, determina un ridimensionamento del potere di pianificazione tradizionalmente considerato, così che l’interesse al contenimento del consumo di suolo è destinato a incidere sensibilmente sull’esercizio della stessa discrezionalità urbanistica, ampliando nel contempo ad esempio i margini del sindacato giurisdizionale, cui competerà la verifica del rispetto degli obiettivi legislativi del contenimento del consumo di suolo e quindi del rispetto – da parte della pianificazione – dei “principi informatori” richiamati appunto dal secondo comma dell’art. 1 della l. r. n. 14/2017.

Si tratta di un’elencazione che parte dalla “programmazione dell’uso del suolo e la riduzione progressiva e controllata della sua copertura artificiale” per passare alla “tutela del paesaggio, delle “reti ecologiche”, delle superfici agricole forestali” alla “promozione della biodiversità coltivata”, la “rinaturalizzazione di suolo impropriamente occupato, la “riqualificazione e la rigenerazione degli ambiti di urbanizzazione consolidata, per finire con l’affermazione che “l’utilizzo di nuove risorse territoriali”, debba avvenire “esclusivamente quando non esistano alternative alla riorganizzazione e riqualificazione del tessuto insediativo esistente, in coerenza con quanto previsto dall’art. 2, comma 1, lettera d) della legge regionale 23 aprile 2004, n. 11”.

L’enumerazione dei principi che informano le norme sul contenimento del suolo conferma dunque che la materia solo in parte è riconducibile al tema del “governo del territorio” poiché in realtà interessa una pluralità di aspetti intersettoriali, tra i quali probabilmente quelli di maggior rilievo concernono la tutela dell’ambiente in senso lato.

Del resto, negli stessi documenti della Commissione Europea è chiaramente espresso il principio che la tematica in esame riguarda solo parzialmente il territorio e l’urbanistica, quanto piuttosto il “suolo” nell’accezione di risorsa naturale, a garanzia dell’equilibrio ecologico nel suo complesso.

Non a caso la l. r. n. 14/2017 in commento oltre a esprimere l’esigenza della tutela del suolo naturale esistente, prevede già nel suo primo articolo anche la rinaturalizzazione, la riqualificazione e la rigenerazione di ambiti territoriali urbanizzati, introducendo un criterio di necessaria interdipendenza tra aree urbane e naturali, nel senso comunque della priorità della tutela delle seconde rispetto alle prime.

Anche dal secondo comma del primo articolo della legge emerge dunque, chiaramente, il salto concettuale determinato dal rovesciamento delle tradizionali gerarchie e rapporti tra categorie quali l’urbanistica, l’ambiente e il paesaggio, che la legge vuole rimodulare attorno a quello che potremmo definire statuto giuridico del suolo, che è la risultante di un complesso di norme attinenti a diverse discipline e materie, la cui riconduzione a unità è determinata proprio dalla ricordata nozione di “suolo – bene comune”.

È evidente pertanto, già dalla lettura di questa prima norma, che si è in presenza di una vera rivoluzione concettuale, anche dal punto di vista giuridico, destinata a modificare profondamente nei prossimi anni il nostro modo di pensare e d’interpretare il territorio e lo spazio che ci circonda – sia esso naturale che urbano – anche attraverso atti e provvedimenti, sia amministrativi che giurisdizionali, come risulterà ancor più evidente dai successivi commenti agli altri articoli della legge.

(Livio Viel)

[1] Cfr. il Rapporto Ispra Consumo di suolo in Italia, anno 2014

[2] Cfr. Commissione Europea, comunicato stampa ambiente: Orientamenti per limitare l’impermeabilizzazione del suolo, 12 aprile 2012

[3] Commissione Europea, 16 aprile 2002, Verso una strategia tematica per la protezione del suolo (punto 3.4), COM (2002) 179 def.

[4] Secondo la comunicazione della Commissione per impermeabilizzazione si intende “il rivestimento del suolo per la costruzione di edifici, strade e altri usi” che “riduce la superficie disponibile per lo svolgimento delle funzioni del suolo, tra cui l’assorbimento di acqua piovana per l’infiltrazione e il filtraggio”.

[5] Commissione Europea, 22 settembre 2006, Strategia tematica per la protezione del suolo, COM (2006) 231 def.

[6] Secondo la Commissione “il suolo è un esempio evidente di una necessità di pensare in termine globali e di agire in ambito locale

[7] Commissione Europea, 20 settembre 2011, Tabella di marcia verso un’Europa efficiente nell’impiego delle risorse, COM (2011) 571 def. e anche COM 13 febbraio 2012, Attuazione della strategia tematica per la protezione del suolo e attività in corso, COM (2012) 46 final.

[8] Documento di lavoro dei servizi della Commissione Europea, 15 maggio 2012, SWG (2012) 101.

[9] Si consideri, a questo proposito, che il T.U. Edilizia ha abolito il vincolo di destinazione degli oneri di urbanizzazione, già stabilito dalla legge Bucalossi per finalità inerenti la gestione del territorio, consentendone l’impiego da parte dei Comuni per risanare i bilanci o per finanziare i servizi.

[10] Merita una menzione la legge 14 gennaio 2013 n. 10, Norme per lo sviluppo degli spazi verdi urbani, il cui art. 6 prevede, al secondo comma che “ai fini del risparmio del suolo e della salvaguardia delle aree comunali non urbanizzate, i comuni possono: a) prevedere particolari misure di vantaggio volte a favorire il riuso e la riorganizzazione degli insediamenti residenziali e produttivi esistenti, rispetto alla concessione di aree non urbanizzate ai fini dei suddetti insediamenti; b) prevedere opportuni strumenti e interventi per la conservazione e il ripristino del paesaggio rurale o forestale non urbanizzato di competenza dell’amministrazione comunale”. Anche il quarto comma merita d’esser ricordato: “i comuni e le province, in base a sistemi di contabilità ambientale, da definire previe intese con le regioni, danno annualmente conto, nei rispettivi siti internet, del contenimento o della riduzione delle aree urbanizzate e dell’acquisizione e sistemazione delle aree destinate a verde pubblico dalla strumentazione urbanistica vigente”.

[11] Si possono ricordare, esemplificativamente: la legge 28.04.2014 n. 24 dell’Abruzzo; la legge 10.11.2014 n. 65 della Toscana; la legge 28.11.2014 n. 31 della Lombardia; ma anche già l’art. 1 della l.r. Abruzzo n. 16/2009; art. 1 della L.P. Bolzano n. 13/1997; artt. 1 e 10 l.r. Calabria n. 19/2002; art. 2 l.r. Campania n. 16/2004; art. 7 ter l.r. Emilia Romagna n. 20/2000; art. 1 l.r. Friuli n. 5/2007; art. 1 l.r. Lazio n. 38/1999; la legge della Toscana n. 1/2005.

[12] La definizione di “bene comune” è stata così chiaramente enunciata dalle Sezioni Unite della Cassazione in una sentenza per molti versi “storica” che ha riconosciuto nelle valli da pesca della Laguna di Venezia un bene pubblico inteso in senso non solo di oggetto di diritto reale ma anche quale strumento finalizzato alla realizzazione di valori costituzionali: cosicché la natura di “bene comune” (nel caso specifico, delle valli da pesca lagunari ma l’affermazione della Suprema Corte è di principio) trova comunque origine nell’ordinamento legislativo composto da una pluralità di fonti, sulla base della sussistenza attuale di determinate plurime caratteristiche (fisiche, geografiche o anche funzionali) tutelate dal legislatore e prescinde, quindi, da specifiche disposizioni normative e da provvedimenti di ordine amministrativo come ad esempio una dichiarazione costituiva ed ablativa. Cfr. Cass. Civ. Sez. Un. sentenza 14.02.2011 n. 3665.

[13] Cfr. in proposito le note sentenze 55 e 56 del 1967 della Corte Costituzionale che hanno qualificato il diritto di edificare come inerente alla proprietà (“il diritto di edificare continua ad inerire alla proprietà”).