Commento all’art. 5 l.r. n. 14/2017

di Mario Panzarino e Giulio Vidali

ART. 5
Riqualificazione edilizia ed ambientale
1. Rispondono alla finalità di cui al presente Capo:

a) la demolizione integrale di opere incongrue o di elementi di degrado nonché di manufatti ricadenti in aree a pericolosità idraulica e geologica, o nelle fasce di rispetto stradale, con ripristino del suolo naturale o seminaturale, fatti salvi eventuali vincoli o autorizzazioni;
b) il recupero, la riqualificazione e la destinazione ad ogni tipo di uso compatibile con le caratteristiche urbanistiche ed ambientali del patrimonio edilizio esistente, mediante il miglioramento della qualità edilizia in relazione a tutti o ad una parte rilevante dei parametri seguenti: qualità architettonica e paesaggistica; qualità delle caratteristiche costruttive, dell’impiantistica e della tecnologia; efficientamento energetico e riduzione dell’inquinamento atmosferico; eliminazione o riduzione delle barriere architettoniche; incremento della sicurezza sotto il profilo, statico e antisismico, idraulico e geologico, garantendo nella trasformazione dell’area l’invarianza idraulica e valutando, ove necessario, il potenziamento idraulico.

2. Fermo restando il rispetto del dimensionamento del piano di assetto del territorio (PAT), il piano degli interventi (PI) di cui all’articolo 12, comma 3, della legge regionale 23 aprile 2004, n. 11, definisce le misure e gli interventi finalizzati al ripristino, al recupero e alla riqualificazione nelle aree occupate dalle opere di cui al comma 1 e prevede misure di agevolazione che possono comprendere il riconoscimento di crediti edilizi per il recupero di potenzialità edificatoria negli ambiti di urbanizzazione consolidata, premialità in termini volumetrici o di superficie e la riduzione del contributo di costruzione. Le demolizioni devono precedere l’eventuale delocalizzazione delle relative volumetrie in area o aree diverse, salvo eccezioni motivate e prestazione di adeguate garanzie.
3. Il suolo ripristinato all’uso naturale o seminaturale, con utilizzazione delle agevolazioni di cui al comma 2, è assoggettato ad un vincolo di non edificazione, trascritto presso la conservatoria dei registri immobiliari a cura e spese del beneficiario delle agevolazioni; il vincolo permane fino all’approvazione di una specifica variante allo strumento urbanistico che non può essere adottata prima di dieci anni dalla trascrizione del vincolo.

Sommario: 1. Premessa: un cambio di prospettiva2. Interventi di demolizione3. Interventi di recupero e riqualificazione4. Le direttive per la disciplina degli interventi5. Gli indirizzi regolativi6. Gli indirizzi sulle misure di incentivazione7. I meccanismi premiali8. Il ruolo del Comune9. Vincoli e garanzie.

1. Premessa: un cambio di prospettiva

Tradizionalmente, nel mondo dell’urbanistica è sempre stato valido il principio secondo cui “nulla si distrugge”: tanto le volumetrie esistenti quanto gli indici assegnati sono stati valutati sic et simpliciter come un elemento idoneo a rappresentare – sempre ed automaticamente – un valore economico in sé, da difendere nella sua consistenza e, se possibile, da aumentare nella sua misura.

Ma il mondo è cambiato: e questo tipo di impostazione “classica”, negli ultimi anni, ha dovuto cedere il passo sotto i colpi combinati della crisi economica mondiale e, più in particolare, di quella del settore immobiliare, che ha colpito con grande incisività il territorio veneto, a fronte di un evidente eccesso di offerta[1].

Fenomeni come quello delle “varianti verdi[2]”, anche solo pochi anni fa, erano impensabili: ed è sempre meno raro assistere alla demolizione di edifici esistenti per far posto, ad esempio, a coltivazioni di pregio. Si tratta davvero di un cambio epocale, che può e deve portare ad un’inversione di rotta tanto da parte pubblica, nel governo del territorio, quanto da parte dei singoli, nell’impostazione mentale.

Nel contesto attuale, la demolizione senza ricostruzione di manufatti esistenti non deve dunque più considerarsi alla stregua di una perdita “secca” di valore economico: in molti casi oggi un intervento di “pulizia” del territorio può avere positivi effetti economici.

Mentre un edificio dismesso o in condizioni di degrado rappresenta un costo certo sia in termini fiscali che in termini di mantenimento (oltre che un’immobilizzazione di capitali non facilmente reversibile sul mercato attuale) la sua demolizione per realizzare un’area verde determinerà, per converso, un sensibile aumento del pregio, e dunque del valore, degli edifici circostanti, specie laddove ci si trovi in un contesto abitativo di particolare densità[3]. Allo stesso modo, un vecchio capannone abbandonato in zona agricola, magari lungo un fiume e nei pressi di un percorso ciclabile, oggi non rappresenta in sé un valore, ma solo un costo: la sua integrale demolizione, con la possibilità di realizzare in sua sostituzione un piccolo chiosco-bar, magari con annessa officina per biciclette, può invece rivelarsi ben più conveniente sul piano economico e ben più rilevante per l’interesse della collettività (oltre che contribuire ad un innalzamento generale della qualità dell’ambiente).

La norma in esame si inserisce in questo trend ed è finalizzata proprio a consentire una più efficace gestione di problematiche analoghe a quelle descritte, fornendo strumenti più adeguati e direttive più incisive nel confronto con le nuove questioni poste dalla realtà economica ed ambientale.

Si badi bene: non si tratta di strumenti nuovi: quanto alle demolizioni, la legge urbanistica veneta già nel 2004, in modo davvero lungimirante, consentiva, con l’introduzione del credito edilizio, interventi non dissimili da quelli auspicati dalle nuove norme. Quanto agli incentivi al recupero ed alla riqualificazione, invece, alcuni degli strumenti proposti dall’articolo 5 in esame trovano un precedente nella legislazione eccezionale del cosiddetto “Piano Casa”.

La novità della norma, in questa prospettiva, sta in un rilancio ed in una riorganizzazione di questi strumenti che si rendono oggi più che mai necessari, a fronte della “scomparsa” dell’interesse (economico) a nuove espansioni e dell’avanzare della sensibilità (culturale) per il riuso dell’esistente e la tutela delle risorse non rinnovabili (quale è il suolo[4]).

Con la norma in esame, dunque, si intende perfezionare, coordinare e dare nuovo vigore ad alcuni strumenti giuridici che – già presenti in gran parte nell’ordinamento – vengono ora combinati tra loro per essere estesi a nuovi ambiti, dotati di maggiore flessibilità ed infine collocati in un contesto di obiettivi e direttive che ne possa consentire la più ampia, incisiva e coerente applicazione.

2. Interventi di demolizione

Al primo comma dell’articolo in commento il Legislatore regionale ha voluto cristallizzare in modo chiaro ed inequivoco le finalità cui devono tendere gli interventi di riqualificazione edilizia ed ambientale.

Obiettivo prioritario di questi interventi è incentivare il ripristino di “suolo naturale o seminaturale” mediante la demolizione integrale di opere incongrue o elementi di degrado ovvero dei manufatti ricadenti in zone sensibili, come le aree di pericolosità idraulica e geologica o le fasce di rispetto.

Per “superficie naturale o seminaturale” si intendono[5]tutte le superfici non impermeabilizzate, comprese quelle situate all’interno degli ambiti di urbanizzazione consolidata e utilizzate, o destinate a verde pubblico o ad uso pubblico, quelle costituenti continuità ambientale, ecologica e naturalistica con le superficie esterne della medesima natura, nonché quelle destinate all’attività agricolo” (cfr. lett. a), art. 2, co. 1).

Emerge dunque chiaramente l’obiettivo perseguito dalla “nuova” legge regionale con l’introduzione degli interventi di riqualificazione edilizia ed ambientale: incentivare il ripristino di “superfici naturali o seminaturali” (ossia, le superfici non impermeabilizzate) anche (e soprattutto) all’interno degli ambiti di urbanizzazione consolidata (ossia all’interno delle aree già edificate), così da consentire la realizzazione di spazi verdi attrezzati all’interno delle città.

La norma fa espresso riferimento agli interventi di “demolizione integrale”. Devono pertanto ritenersi esclusi gli interventi di “demolizione parziale” delle singole opere incongrue o elementi di degrado ovvero dei manufatti che insistono sulle aree sensibili, salva ovviamente la possibilità di riferire comunque la demolizione “integrale” a singoli elementi o unità funzionalmente autonomi nel contesto di più ampi compendi immobiliari. Ovviamente sarà il Piano degli Interventi (cfr. amplius infra) ad individuare i manufatti da demolire nell’ambito degli interventi di riqualificazione edilizia ed ambientale.

Ai fini dell’applicabilità della legge in commento, per “opere incongrue ed elementi di degrado” si intendono quegli edifici ed altri manufatti che, per caratteristiche localizzative, morfologiche, strutturali, funzionali, volumetriche od estetiche, costituiscono elementi non congruenti con il contesto paesaggistico, ambientale od urbanistico o sotto il profilo igienico-sanitario e della sicurezza (cfr. lett. f), art. 2, co. 1). La valutazione di “congruenza” non viene dunque limitata ai soli parametri urbanistici (quale, ad esempio, la compatibilità con le destinazioni d’uso ammesse dello strumento urbanistico generale), dovendo, al contrario, spingersi sino all’esame dei valori paesaggistici e/o ambientali propri dalla zona di riferimento, senza trascurare i profili igienico-sanitari e di sicurezza[6].

La legge in commento non definisce le “aree a pericolosità idraulica e geologica”. Sembrerebbe pertanto necessario rinviare alle disposizioni dei Piani di Assetto Idrogeologico (PAI)[7], che definiscono ed individuano puntualmente le aree a pericolosità idraulica e geologica nonché, ove previsto, ai Piani di Assetto del Territorio (PAT), i quali, infatti, contengono una specifica disciplina normativa in ordine alle invarianti di natura geologica, geomorfologica e idrogeologica (cfr. art. 13, co. 1, lett. b), l.r. n. 11/2004). Deve tuttavia rilevarsi che l’art. 3, co. 3, della legge in commento demanda agli strumenti di pianificazione il compito di “individuare le parti di territorio a pericolosità idraulica e geologica” (cfr. lett. d). Ai fini dell’applicazione di questa norma, sarà quindi necessario che i singoli Comuni, ove non vi abbiano già provveduto, individuino le “aree a pericolosità idraulica e geologica”, coerentemente con gli indirizzi dei PAI ed eventualmente dei PAT.

Si segnala che il Legislatore veneto già con la l.r. n. 32/2013 (cd. “Terzo Piano Casa”)[8] aveva cercato di incentivare la demolizione integrale dei manufatti che insistono in aree dichiarate ad “alta pericolosità idraulica o idrogeologica” e la loro ricostruzione in aree dichiarate di non “pericolosità idraulica o idrogeologica”[9], attribuendo all’uopo ulteriori bonus volumetrici. Questa disposizione è tuttora vigente: appare dunque evidente che il Comune (nelle aree ad alta pericolosità) dovrà prevedere incentivi maggiori rispetto a quelli previsti dal “Piano Casa” – almeno fino alla perdurante validità della legislazione eccezionale – coordinando le misure previste dal Piano degli Interventi con quelle proposte dal “Piano Casa”.

Per quanto riguarda le “fasce di rispetto” è sufficiente ricordare che esse sono definite e regolate da specifiche disposizioni normative finalizzate alla tutela di particolari beni, infrastrutture e servizi (cfr. art. 41 l.r. n. 11/2004). Tra le più significative “fasce di rispetto” possono annoverarsi quelle volte alla tutela del demanio stradale, alla tutela del demanio marittimo, alla tutela del demanio idrico, alla tutela del demanio militare, alla tutela dei cimiteri, etc.

In senso opposto, si segnala la recente l.r. n. 30/2016 (cd. “Collegato alla legge di stabilità regionale 2017”), la quale all’art. 63[10] ha previsto la possibilità per i Piani degli Interventi di consentire ampliamenti dei fabbricati residenziali esistenti nelle fasce di rispetto delle strade. Al Piano degli Interventi è dunque rimessa la scelta urbanistica se consentire eventuali ulteriori ampliamenti in fascia di rispetto stradale ovvero – attraverso interventi di riqualificazione edilizia ed ambientale – incentivare lo spostamento di questi manufatti mediante la loro demolizione integrale.

3. Interventi di recupero e riqualificazione

Ulteriore obiettivo prioritario della legge è quello di “recuperare”, “riqualificare” e “rifunzionalizzare” il patrimonio immobiliare esistente attraverso interventi che possano assicurare l’effettivo “miglioramento della qualità edilizia”.

La norma in commento precisa altresì che il “miglioramento della qualità edilizia” deve essere valutato in relazione “a tutti o ad una parte rilevante” di alcuni parametri tassativamente previsti dalla stessa disposizione.

Si tratta, in particolare: (i) della qualità architettonica e paesaggistica; (ii) della qualità delle caratteristiche costruttive, dell’impiantistica e della tecnologia; (iii) dell’efficientamento energetico e riduzione dell’inquinamento atmosferico; (iv) dell’eliminazione delle barriere architettoniche; (v) dell’incremento della sicurezza sotto il profilo statico e antisismico, idraulico e geologico, garantendo nella trasformazione dell’ara l’invarianza idraulica e valutando, ove necessario, il potenziamento idraulico.

L’esame della qualità architettonica e paesaggistica riguarda essenzialmente il profilo architettonico del progetto presentato ed il suo inserimento nel paesaggio circostante. È dunque richiesta una valutazione complessa, che tenga conto sia dei profili strettamente edilizi-architettonici che dei profili propriamente paesaggistici, al fine di assicurare l’armonica integrazione con l’ambiente circostante. Questa valutazione ha evidentemente natura discrezionale, ma non potrà sfociare in valutazioni soggettive o addirittura arbitrarie. Dovrà sempre tenere in debita considerazione la situazione di fatto esistente, il grado di compromissione del contesto, l’ubicazione dell’area interessata dal progetto, l’inserimento del progetto nell’ambiente circostante etc., con particolare attenzione al paesaggio ed al miglioramento complessivo generato dall’approvazione dal progetto.

L’esame della qualità delle caratteristiche costruttive, dell’impiantistica e della tecnologia nonché dell’efficientamento energetico e riduzione dell’inquinamento atmosferico dovrà invece essere effettuata sulla base delle specifiche tecniche contenute nelle norme di settore (NTC 2008, d.m. 37/2008, d.lgs. n. 192/2005, d.P.R. 59/2009, l.r. n. 4/2007, etc.). Una migliore qualità edilizia sarà garantita, ad esempio, dall’utilizzo di impianti tecnologici volti ad assicurare una maggiore coibentazione dei fabbricati, dall’adozione di sistemi di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili in misura superiore a quella prescritta per legge, nonché dall’utilizzo di tecniche costruttive di “edilizia sostenibile” etc.

Ulteriore parametro previsto è quello relativo all’eliminazione delle barriere architettoniche. In precedenza, già la l.r. n. 16/2007[11] e la l.r. n. 32/2013 (cd. “Terzo Piano Casa”)[12] avevano cercato di favorire l’eliminazione delle barriere architettoniche attraverso l’introduzione di misure premiali e semplificazione; ora la “nuova” legge regionale pone l’eliminazione delle barriere architettoniche quale presupposto oggettivo per valutare il “miglioramento della qualità edilizia” degli interventi di riqualificazione.

L’ultimo parametro ha ad oggetto il miglioramento apportato sotto il profilo della maggiore sicurezza statica, delle migliori misure antisismiche[13]. nonché della maggiore sicurezza idraulica e geologica[14]. Questo parametro ha dunque ad oggetto il differenziale tra la situazione esistente e la situazione progettata, al fine di poter verificare l’effettivo miglioramento complessivo delle strutture sotto i predetti profili.

Il progetto deve inoltre garantire l’invarianza idraulica, ossia non deve provocare un aggravio alla portata di piena del corpo idrico riceventi e i deflussi superficiali derivati dall’area interessata dal progetto (cfr. lett. m) art. 2, co. 1). Al progetto sarà quindi necessario allegare una puntuale Valutazione di Compatibilità Idraulica[15].

In ogni caso, sarà positivamente valutata l’adozione di eventuali misure di “potenziamento idraulico”, ossia misure volte ad effettuare tutti gli interventi preventivi sui corpi idrici superficiali indirizzati alla protezione dell’ambiente e delle persone in ragione dei radicali cambiamenti climatici (cfr. lett. n) art. 2, co. 1). Tra queste, potranno annoverarsi gli interventi di pulizia degli alvei e delle sponde dei corpi idrici limitrofi alle aree di intervento.

Sotto un profilo procedimentale, la valutazione del “miglioramento della qualità edilizia” sarà verosimilmente svolta nel corso del procedimento di rilascio del titolo edilizio, considerato che presuppone l’esame del progetto architettonico definitivo, comprensivo di tutta la documentazione afferente gli impianti tecnologici adottati nel progetto. Questa valutazione è quindi rimessa agli Uffici tecnici comunali, i quali dovranno valutare se il progetto presentato sia conforme e coerente con gli indirizzi prescritti dalla variante al Piano degli Interventi di cui al secondo comma (cfr. infra).

Ovviamente, nell’ambito del contraddittorio procedimentale, l’Amministrazione dovrà e potrà interloquire con il proponente ed il tecnico incaricato al fine di meglio adeguare la progettazione del singolo intervento agli indirizzi dati dalla presente legge e dalle norme attuative inserite nello strumento urbanistico comunale.

4. Le direttive per la disciplina degli interventi

Il secondo comma dell’articolo in commento affida al Piano degli Interventi il compito di provvedere alla disciplina operativa degli interventi indicati e definiti dal primo comma della norma. A tal fine, gli indirizzi dati al pianificatore comunale sono di due tipi.

Il primo, più classico, è quello “regolativo” e si riferisce alla necessità di precisare la disciplina degli interventi proposti, dando quindi “corpo”, definizione e disciplina a tutti quegli elementi cui la norma in esame si limita a fare un riferimento più generico.

Il secondo tipo di direttiva è invece quella “premiale” e propone (rectius, impone) l’utilizzo di misure incentivanti finalizzate a rendere meno onerosi o più convenienti gli interventi la cui realizzazione è prevista ed auspicata.

5. Gli indirizzi regolativi

Sotto il profilo regolativo, se lo spazio dato allo strumento urbanistico è più limitato rispetto agli interventi di demolizione previsti dalla lettera a) del primo comma (la cui definizione è data già dalla legge con sufficiente grado di precisione), non altrettanto può dirsi degli interventi di recupero/riqualificazione/destinazione del patrimonio edilizio esistente di cui alla successiva lettera b).

In tale secondo caso, infatti, sembrerebbe spettare al pianificatore comunale indicare quali parametri, tra i vari indicati dalla norma, debbano ritenersi rilevanti al fine di valutare il “miglioramento della qualità edilizia” dell’immobile o degli immobili oggetto di intervento. Ciò a maggior ragione, se si considera che – a fronte dell’ampio bouquet di parametri forniti dalla norma – non sempre (nello specifico intervento o contesto territoriale) tutti i criteri possono effettivamente rilevare nella valutazione del miglioramento di qualità del costruito.

Si pensi ad un manufatto che sia stato oggetto di un recente intervento di rifacimento totale degli impianti con inserzione di sistemi di sfruttamento di energie rinnovabili e conseguente acquisizione della massima classe energetica: nella eventuale valutazione dell’intervento di recupero non sarà certo il parametro della qualità dell’impiantistica e dell’efficientamento energetico a venire in rilievo. Se tuttavia quello stesso immobile presenta scarsissima qualità architettonica ed è posizionato in un contesto di pregio paesaggistico, sarà invece il parametro del miglioramento di tali caratteristiche quello su cui si dovrà e potrà “far leva” per progettare e valutare il miglioramento della qualità edilizia.

Proprio per fare fronte in modo adeguato ed efficace a questo tipo di casistica – potenzialmente infinita nel numero e modalità di combinazione tra i parametri di volta in volta rilevanti – il Legislatore ha ritenuto opportuno prevedere una certa flessibilità nell’applicazione dei criteri di valutazione degli interventi, affidando le scelte operative al pianificatore comunale, che meglio di chiunque conosce il proprio territorio e le specifiche problematiche che esso pone.

La norma non precisa con quali modalità tale flessibilità dovrà essere applicata in seno allo strumento urbanistico: spetterà dunque a ciascun pianificatore declinare come meglio ritenuto opportuno tale disciplina. In prima battuta, è possibile immaginare un approccio “generale” che identifichi delle regole valide per tutto il territorio comunale o – più probabilmente – per specifici, ma comunque ampi, ambiti territoriali omogenei, rimandando alla sede edilizia/autorizzativa ogni verifica di rispondenza ai criteri di miglioramento della qualità del costruito.

In alternativa, è ben possibile – sebbene più gravoso, per il pianificatore – procedere in via “atomistica”, di fatto “schedando” i singoli immobili o insiemi di immobili[16] (per intendersi, come è d’uso per i centri storici o per le attività in zona impropria) e dunque individuando già in sede urbanistica quali siano i criteri di valutazione cui far di volta in volta riferimento nella progettazione del miglioramento della qualità architettonica. Non è neppure esclusa la possibilità di operare con modalità “ibrida”, riservando la “schedatura” solo ad interventi di impatto o importanza maggiore, nel contesto di una normativa generalmente applicabile a tutti gli interventi di demolizione o recupero.

6. Indirizzi sulle misure di incentivazione

Quale che sia la disciplina regolativa che ciascun Comune deciderà di introdurre, in connessione ad essa il pianificatore dovrà comunque prevedere delle forme di incentivazione degli interventi, così da dare attuazione alla seconda “direttiva” data dal Legislatore al secondo comma dell’articolo 5, ovvero quella della premialità.

Alla base di questo indirizzo sta l’evidente consapevolezza dei risultati positivi sin qui raggiunti – in termini di riqualificazione del patrimonio edilizio esistente – da politiche “attive” di governo del territorio che non si limitano a fornire una mera disciplina degli interventi (sperando poi, per la loro attuazione, nella buona volontà di chi vi ha interesse) ma che intervengono anche al fine di agevolare la realizzazione degli interventi auspicata, operando così – in coerenza con i modelli comunitari – una convergenza tra buone pratiche e convenienza.

In tal senso, il pianificatore comunale viene spinto non tanto ad imporre la scelta del recupero (obbligo che spesso, a fronte di oneri rilevanti, rimane solo sulla carta, con il risultato che l’edificio non viene affatto recuperato ma rimane in stato di degrado) quanto ad incentivare tale opzione garantendo una serie di agevolazioni sostanziali. Il Legislatore ne indica alcune: il riconoscimento di crediti edilizi da “reimpiegare” in ambiti urbanizzati, premialità volumetriche, la riduzione del contributo di costruzione.

Si tratta, come si è già detto, di strumenti già presenti nell’ordinamento: nella legislazione regionale ordinaria (si pensi al credito edilizio, già previsto dall’art. 36 l.r. n. 11/2004[17] anche in relazione ad interventi di demolizione e/o riqualificazione), nella normativa statale[18] nonché in quella eccezionale tanto di fonte statale[19] quanto di fonte regionale (come ad esempio gli ampliamenti volumetrici e le agevolazioni sui contributi previsti dalla l.r. n. 14/2009 ed ora dalla l.r. n. 14/2019).

Tale elencazione, tuttavia, non è da considerarsi tassativa. Le misure di agevolazione che spetta al pianificatore comunale individuare, infatti, “possono comprendere” quelle elencate dalla norma, ma possono altresì consistere in altri e diversi strumenti incentivanti, anche in tal caso “ritagliati su misura” a seconda delle esigenze e particolarità dei casi.

Qui, tanto nella disciplina dei meccanismi di incentivazione (quale incentivo applicare al singolo intervento? In quale rapporto deve stare lo specifico incentivo con la demolizione o il miglioramento della qualità edilizia?) quanto nell’individuazione di nuovi e diverse forme di incentivazione all’intervento riemerge lo spazio “regolativo” affidato al pianificatore comunale.

7. I meccanismi premiali

Quanto ai meccanismi di funzionamento delle misure di agevolazione, infatti, ampio è lo spazio per agire in sede operativa: il medesimo intervento può essere infatti oggetto di diverse misure incentivanti, calibrate – ed eventualmente graduate – a seconda di quali siano le finalità che il pianificatore si prefigge o preferisce. La demolizione di un intero edificio può portare al riconoscimento di un credito edilizio in misura pari o inferiore all’esistente dove l’incongruità del manufatto non sia grave, mentre l’eliminazione di un elemento di degrado nella piazza del paese – ad esempio – può per converso giustificare un “tasso di conversione” in crediti edilizi di maggior convenienza.

Allo stesso modo, si può prevedere che un intervento di recupero che porti al mero efficientamento energetico di un determinato edificio consegua il riconoscimento di qualche beneficio economico o di un ampliamento minimo, mentre la sua riqualificazione architettonica possa invece consentire anche un aumento volumetrico più consistente o (ove il bene presenti un pregio che non consente modifiche volumetriche incisive) il riconoscimento di un credito edilizio. Non è detto che i meccanismi di incentivazione debbano per forza ed in ogni caso riferirsi al singolo intervento: è ovviamente possibile procedere in via generale, ipotizzando ad esempio la possibilità di ampliare – in via generalizzata ed in una certa misura, eventualmente graduale – ogni immobile che sia sottoposto ad interventi tali da garantire il raggiungimento di una classe energetica superiore. Anche in tal caso, insomma, la casistica può essere sterminata, e spetta al pianificatore comunale disciplinarla.

Non minore attenzione va poi data all’individuazione di nuove ed originali forme incentivanti, diverse da quelle già proposte dalla norma. Anche qui la possibilità (o la necessità) di innovare può rinvenirsi ponendo mente al singolo caso. Si pensi al cambio di destinazione d’uso, alla possibilità di una totale traslazione, senz’alcun vincolo di sedime, del volume esistente all’interno del lotto o, ove ne sussistano i presupposti, al declassamento del grado di protezione vigente sull’immobile[20]. Ancora, si può immaginare di connettere la demolizione di un manufatto con la possibilità di riuso e gestione dell’area verde ricavata per finalità private di rilievo collettivo (si pensi all’apertura di locali pubblici o di ristorazione) o alla permuta delle aree ove avviene la demolizione con altre aree, di proprietà comunale, site in ambito consolidato.

8. Il ruolo del Comune

Lo spazio dato al pianificatore comunale dalla legge, insomma, appare ampio; è uno spazio di libertà ma, ovviamente, anche di responsabilità: è solo se lo strumento urbanistico riuscirà a “mescolare” in modo sapiente regole ed incentivi, cercando di adeguare le scelte “a misura” di ogni intervento, si otterrà l’esito auspicato dalla legge.

In questo spazio di regolazione ed incentivazione, si profila una nuova centralità per il ruolo del Comune. Come è noto, è stata proprio l’impossibilità di valutare “caso per caso” ogni situazione che ha spinto il Legislatore a non estendere la possibilità di applicare il “Piano Casa” né nei centri storici, dove vi fossero gradi di protezione di un certo rilievo, né nelle zone improprie.

Questa scelta nasceva dalla consapevolezza che più delicato e sensibile è il contesto, o l’immobile, su cui si interviene, più diviene importante la valutazione in dettaglio delle possibilità e limiti del suo recupero: ciò che certo non si poteva fare con un provvedimento di rango legislativo astratto e generale. Non potendo controllarne in dettaglio l’esito, giustamente si è deciso in quella sede di “non rischiare” di operare – con forme di incentivazione “standardizzata” – anche in relazione al recupero del patrimonio edilizio più vulnerabile o sito in contesti delicati.

Per l’effetto, molti immobili che necessiterebbero di interventi di demolizione o recupero e riqualificazione da tutti auspicati ancor oggi restano in condizioni di degrado. In questa prospettiva, l’articolo 5 oggi consente di operare anche su questi immobili, affidando però l’individuazione delle modalità di intervento e di agevolazione al Comune. Si restituisce così all’ente locale, in un certo senso, un ruolo attivo nell’azione di recupero e riqualificazione del patrimonio edilizio esistente avviata dal “Piano Casa”, ponendo il pianificatore comunale al centro della disciplina degli interventi che risultano più delicati, rimasti estranei, negli anni scorsi, agli interventi legislativi a regime eccezionale.

9. Vincoli e garanzie

L’ultima parte del secondo comma dell’articolo, unitamente al comma terzo, sono infine dedicati alla tutela della finalità di “pulizia” del territorio e si riferiscono essenzialmente all’intervento previsto dal comma 1, lett. a) dell’articolo 5 (la cd. “demolizione integrale”).

Si tratta di “garanzie” che rendono più difficoltoso l’eventuale tentativo di eludere la normativa, mantenendo in essere il volume che si dovrebbe demolire o ricostruendo nuovi volumi sulle aree “liberate” in forza della demolizione.

Si tratta di due diversi strumenti: il primo attiene alle modalità dell’intervento di demolizione, che deve avvenire prima dell’eventuale ricostruzione delle volumetrie in altro luogo. La prescrizione tende ad impedire il fenomeno (in passato verificatosi ad esempio con riferimento alla demolizione e ricostruzione in zona agricola di volumi siti in fascia di rispetto, ammessa in forza della l. n. 24/1985) che vedeva l’edificazione di un nuovo immobile (che avrebbe dovuto sostituire il “vecchio”), senza poi – a seguire – la demolizione della preesistenza, con il risultato di rendere illegittimo il nuovo fabbricato.

È ben possibile, in caso di necessità (si pensi alla circostanza in cui la casa da demolire sia l’unica abitazione familiare) demolire dopo la traslazione e ricostruzione dei volumi: ma in tal caso sarà necessario disporre di garanzie fideiussorie che – ove il privato non ottemperi all’impegno relativo alla demolizione – diano al Comune la possibilità ed i mezzi per intervenire in via sostitutiva.

Il secondo strumento è invece rappresentato da un vincolo urbanistico di non edificazione che si impone, a cura e spese dell’interessato, sulle aree oggetto dell’intervento di demolizione. Il vincolo garantisce il mantenimento dell’area “libera” per un decennio almeno: non solo nei confronti delle iniziative private, ma anche nei confronti dell’Amministrazione, che – per un certo tempo – non può comunque consentire l’edificazione delle aree.

Non solo: la norma è altresì finalizzata a dare tutela ai terzi, i quali – a qualche anno di distanza – potrebbero acquistare il bene nell’ignoranza della sua “speciale” condizione giuridica di inedificabilità, la quale non è detto emerga dalla semplice consultazione dello strumento urbanistico o dal rilascio del certificato di destinazione urbanistica. La trascrizione del vincolo, in tal senso, garantisce che sul punto non possa esservi incertezza alcuna[21].

 

[1] A titolo esemplificativo, si pensi che in Provincia di Treviso le aree residenziali previste negli strumenti urbanistici nel 2003 erano già sufficienti a garantire la domanda attesa sino al 2020, cfr. PTCP di Treviso, Relazione di Piano, pg. 78. Nella prospettiva del mercato immobiliare, invero, da alcuni anni si registrano segnali di ripresa: in questo senso, si veda il quadro generale aggiornato su scala nazionale e regionale al maggio 2017 dall’Agenzia dell’Entrate disponibile su http://www.agenziaentrate.gov.it/wps/file/Nsilib/Nsi/Documentazione/omi/Pubblicazioni/Rapporti+immobiliari+residenziali/rapporto+immobiliare2017/RI_2017_QuadroGenerale_15052017.pdf. Si tratta in effetti di un’inversione graduale di marcia – confermata anche dai dati Istat – che, tuttavia, non ha ancora consentito di raggiungere in generale i volumi d’affari consolidati nella prima metà degli anni 2000: ciò vale soprattutto per i piccoli Comuni, il cui trend di ripresa appare ancora debole, sia rispetto ai capoluoghi sia in relazione ai dati pre-crisi.

[2] Le cd. “varianti verdi” sono state introdotte dall’art. 7 della l.r. n. 4/2015. Esse consistono nella riclassificazione delle aree da “edificabili” a “verde”, con conseguente azzeramento della potenzialità edificatoria riconosciuta loro dal vigente strumento urbanistico comunale”. L’utilizzo del termine “verde” suggerisce di riclassificare le aree edificabili come “aree agricole” o “aree a verde privato”, fermo restando la facoltà dei Comuni dotati di Piano di Assetto del Territorio di ricorrere alle classificazioni urbanistiche previste dai rispettivi piani urbanistici (cfr. Circolare cd. “varianti verdi”, approvata con d.G.R. n. 99 del 2.02.2016).

Questa disposizione sta avendo molto successo in Veneto: invero, molti cittadini ed imprese hanno richiesto ai Comuni, conformemente alle previsioni contenute all’art. 7 l.r. n. 4/2015, la riclassificazione delle loro aree edificabili “a verde”, eliminando così la capacità edificatoria attribuita dai vigenti strumenti urbanistici.

[3] In un recentissimo studio edito dalla LIPU – sulla base di precisi riferimenti alla letteratura di settore – si sottolinea che la presenza di importanti spazi verdi in città non determina solo più ovvi benefici in termini ambientali (riduzione dell’inquinamento atmosferico, miglioramento del clima e riduzione dei gas climalteranti, attenuazione dei rumori, protezione idrogeologica) ma comporta altresì un indubbio incremento di valore immobiliare per gli edifici residenziali vicini: “aumenti di valore del 10% sono considerati canonici dalla letteratura (…) in una zona alberata e attraente gli edifici possono essere valutati il 3-12% in più rispetto alle zone prive di alberi e più degradate” (cfr. Dinetti M. 2017. Il verde e gli alberi in città. Documenti Lipu per la Conservazione della Natura n. 2, pg. 18 ss.).

[4] Invero, già la Carta Europea del Suolo (Consiglio d’Europa 1972), definiva il suolo come “..uno dei beni più preziosi dell’umanità” (art. 1), precisando altresì che “il suolo è una risorsa limitata che si distrugge facilmente” (art. 2). Più recentemente, la Strategia tematica per la protezione del suolo del 20106 ha definito il suolo come lo “strato superiore della crosta terrestre”, evidenziando che si “(..) tratta di un sistema estremamente dinamico che svolge numerose funzioni e un ruolo fondamentale per l’attività umana e la sopravvivenza degli ecosistemi. Il processo di formazione e rigenerazione del suolo è molto lento e per questo motivo il suolo è una risorsa essenzialmente non rinnovabile” (cfr. http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=URISERV%3Al28181). Il Parlamento Europeo, inoltre, con l’approvazione del Settimo Programma di Azione Ambientale del 2013 (cfr. http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=CELEX%3A32013D1386#ntr21-L_2013354IT.01017101-E0021), ha fissato le priorità dell’Unione in tale ambito, tra cui “realizzare l’obiettivo di un mondo esente dal degrado del suolo nel contesto dello sviluppo sostenibile” (cfr. considerando n. 19), conformemente alla Risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite A/Res/66/288 del 27 luglio 2012 sui risultati della conferenza Rio + 20 dal titolo «The Future We Want» (Il futuro che vogliamo).

[5] Per un esame più esaustivo, si rinvia al commento dell’art. 2 sulle “definizioni” contenute nella l.r. n. 14/2017.

[6] In tal senso, va ricordato che la categoria del “degrado” in senso edilizio ha assunto nel tempo un’accezione sempre più ampia, tale da annoverare nella casistica profili e caratteristiche che un tempo si consideravano minori o comunque non rilevanti: al contrario, “l’insussistenza di problemi di dissesto e della non necessità di interventi di tipo strutturale, non escludono lo stato di abbandono e degrado consistente nella mancanza di intonaco esterno ed interno, avanzato degrado degli infissi in legno, copertura mancante di strato impermeabile e di un sistema di convogliamento delle acque che giustificano l’inserimento nella attività di recupero” (cfr. C.G.A.S., 18 febbraio 2016, n. 48).

[7] I PAI sono i Piani a scala di bacino idrografico, originariamente previsti dalla legge quadro sulla difesa del suolo n. 183 del 18 maggio 1989 (poi confluita nella legislazione emergenziale di cui al d.l. 180/1998 e al d.l. 279/2000 e relative leggi di conversione, ed ora confluita nel d.lgs. n. 152/2006 e s.m.i., cd. “Codice dell’Ambiente”), che contengono indicazioni precise e dettagliate in ordine alle condizioni di pericolosità idrogeologica del territorio, la perimetrazione delle aree da sottoporre a misure di salvaguardia e la determinazione delle misure stesse.

[8] La l.r. n. 32/2013 ha introdotto l’art. 3-quater alla l.r. n. 14/2009 (cd. “Piano Casa”), il quale prevede che “per gli edifici ricadenti nelle aree dichiarate ad alta pericolosità idraulica o idrogeologica è consentita l’integrale demolizione e la successiva ricostruzione in zona territoriale omogenea propria non dichiarata di pericolosità idraulica o idrogeologica, anche in deroga ai parametri dello strumento urbanistico comunale, con un incremento fino al 50 per cento del volume o della superficie”.

[9] Si noti bene che il Piano Casa fa riferimento alle aree dichiarate di “alta pericolosità idraulica o idrogeologica”. Il Piano Casa, dunque, si riferisce alle sole aree identificate dal PAI come di “alta pericolosità”. Diversamente, la legge regionale in commento si riferisce più genericamente a tutte le aree “a pericolosità idraulica e geologica”. Le prime, dunque, dovrebbero essere ricomprese nelle seconde, ma non viceversa.

[10] L’art. 63, co. 5, l.r. n. 30/2016 ha introdotto il comma 4-ter alla l.r. n. 11/2004, secondo cui: “Il piano degli interventi può altresì consentire, attraverso specifiche schede di intervento, gli ampliamenti dei fabbricati residenziali esistenti nelle fasce di rispetto delle strade, in misura non superiore al 20 per cento del volume esistente, necessari per l’adeguamento alle norme igienico-sanitarie, alle norme di sicurezza e alle norme in materia di eliminazione delle barriere architettoniche, purché tali ampliamenti siano realizzati sul lato opposto a quello fronteggiante la strada e a condizione che non comportino, rispetto alla situazione preesistente, pregiudizi maggiori alle esigenze di tutela della sicurezza della circolazione”.

[11] La l.r. n. 16 del 12.07.2007 ha ad oggetto disposizioni generali in materia di eliminazione delle barriere architettoniche e contiene semplificazioni per l’esecuzione di interventi edilizi volti ad eliminare dette barriere architettoniche.

[12] La l.r. n. 32/2013 aveva infatti modificato la l.r. n. 14/2009 (cd. “Piano Casa”) introducendo, tra le finalità della legge, proprio quella di incentivare l’eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici esistenti (cfr. art. 1, co. 1, lett, b). Invero, l’art 11-bis l.r. n. 14/2009 e s.m.i. ha previsto bonus volumetrici aggiuntivi in caso di eliminazione delle barriere architettoniche.

[13] Si segnala che la Legge Finanziaria 2017 (ossia la legge n. 232 del 11.12.2016, pubblicata in G.U. il 21/12/2016) ha prorogato il cosiddetto “Sisma Bonus” sino al 2021. A seconda dell’intervento programmato sono previste detrazioni del 50-70-80% per le case e del 50-75-85% per i condomini. Il 28 febbraio 2017 il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti ha firmato il decreto recante le “Linee Guida” per la classificazione di rischio sismico delle costruzioni nonché le modalità per l’attestazione, da parte di professionisti abilitati, dell’efficacia degli interventi effettuati (d.m. 28.02.2017). Le “Linee Guida” consentono di attribuire ad un edificio una specifica Classe di Rischio Sismico, mediante un unico parametro che tenga conto sia della sicurezza sia degli aspetti economici. Esse, inoltre, forniscono due metodologie per la valutazione, di cui una semplificata per lavori minori e il miglioramento di una sola classe di rischio, l’indirizzo di massima su come progettare interventi di riduzione del rischio per portare la costruzione ad una o più classi superiori. Sono state individuate otto classi di rischio sismico: da A+ (meno rischio), ad A, B, C, D, E, F e G (più rischio). Per attivare i benefici fiscali occorre fare riferimento alla classificazione prevista dalle nuove “Linee Guida”, con le quali si attribuisce ad un edificio una specifica Classe di rischio sismico. Gli interventi previsti dalla norma in commento, dunque, potranno eventualmente giovarsi anche dei benefici fiscali previsti dalla legge statale.

[14] Questi parametri acquisteranno maggior rilievo nel caso in cui l’edificio o gli edifici da sottoporre ad interventi di riqualificazione edilizia ed ambientale ricadano in aree sensibili sotto il profilo idraulico e/o geologico. Si pensi, ad esempio, a quelle aree ubicate in prossimità di fiumi, torrenti o laghi, che – ancorché non classificate “pericolose” – meritano comunque una particolare attenzione.

[15] Al riguardo, si segnalano le “Linee Guida” per la redazione della Valutazione di Incidenza Idraulica (predisposte dal Commissario Delegato concernente gli eccezionali eventi meteorologici del 26 settembre 2007 che hanno colpito parte del territorio della Regione Veneto – O.P.C.M. n. 3261 del 18.10.2007). Si tratta di un documento dedicato agli operatori tecnici del settore per orientare le scelte progettuali di opere che modificano l’uso del suolo o che comportano comunque delle modificazioni dell’idraulica del territorio.

[16] In questa prospettiva, potrà essere utile una sorta di censimento degli immobili da sottoporre ad intervento, da attuare anche mediante formule partecipative: nel 2014, ad esempio,  il Comune di Milano ha avviato la mappatura degli immobili privati inutilizzati e in stato di degrado proprio al fine di adottare gli indirizzi amministrativi per favorire la riqualificazione ed il recupero del tessuto urbano della città esistente (cfr. http://www.comune.milano.it/wps/portal/ist/it/servizi/territorio/Monitoraggio_edifici_aree_stato_di_degrado).

[17] L’art. 36 l.r. n. 11/2004 è in effetti rubricato “Riqualificazione ambientale e credito edilizio” e, nella sua previgente versione già disponeva quanto segue: “1. Il comune nell’ambito del piano di assetto del territorio (PAT) individua le eventuali opere incongrue, gli elementi di degrado, gli interventi di miglioramento della qualità urbana e di riordino della zona agricola definendo gli obiettivi di ripristino e di riqualificazione urbanistica, paesaggistica, architettonica e ambientale del territorio che si intendono realizzare e gli indirizzi e le direttive relativi agli interventi da attuare. 2. Il comune con il piano degli interventi (PI) disciplina gli interventi di trasformazione da realizzare per conseguire gli obiettivi di cui al comma 1. 3. La demolizione delle opere incongrue, l’eliminazione degli elementi di degrado, o la realizzazione degli interventi di miglioramento della qualità urbana, paesaggistica, architettonica e ambientale di cui al comma 1, determinano un credito edilizio. (…)”. Il dispositivo della norma, pur ribadendo le originarie finalità, è stato ora rivisto dalla legge in commento armonizzandone con maggior dettaglio le previsioni in relazione ai contenuti della novella. Per un esame più approfondito si veda infra il commento all’art. 25.

[18] A livello statale, infatti, più recentemente, la legge n. 164 dell’11.11.2014 (cd. “Sblocca Italia” ) ha introdotto il comma 1-bis all’art. 14 del d.P.R. n. 380/2001 (cd. “Testo Unico dell’Edilizia”) prevedendo, in via generale, misure incentivanti per la riqualificazione edilizia di edifici. Il nuovo comma, infatti, prevede che “per gli interventi di ristrutturazione edilizia, attuati anche in aree industriali dismesse, è ammessa la richiesta di permesso di costruire anche in deroga alle destinazioni d’uso, previa deliberazione del Consiglio comunale che ne attesta l’interesse pubblico, a condizione che il mutamento di destinazione d’uso non comporti un aumento della superficie coperta prima dell’intervento di ristrutturazione, fermo restando, nel caso di insediamenti commerciali, quanto disposto dall’articolo 31, comma 2, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, e successive modificazioni”.

Lo stesso “Sblocca Italia” ha altresì introdotto l’art. 3-bis al d.P.R. 380/2001 per favorire la riqualificazione di edifici esistenti non più compatibili con gli indirizzi dei vigenti strumenti urbanistici. In queste ipotesi, infatti, l’amministrazione comunale – dopo aver puntualmente individuato questi edifici nel proprio strumento urbanistico – “(..) può favorire, in alternativa all’espropriazione, la riqualificazione delle aree attraverso forme di compensazione incidenti sull’area interessata e senza aumento della superficie coperta, rispondenti al pubblico interesse e comunque rispettose dell’imparzialità e del buon andamento dell’azione amministrativa”.

[19] Al riguardo, occorre infatti ricordare che già il d.l. n. 70 del 13.05.2011, convertito con modificazioni in legge n. 106 del 12.07.2011 (cd. “Decreto Sviluppo”) aveva previsto misure incentivanti per la riqualificazione del patrimonio edilizio esistente. Invero, l’art. 5, comma 9, stabiliva espressamente che: “al fine di incentivare la razionalizzazione del patrimonio edilizio esistente nonché di promuovere e agevolare la riqualificazione di aree urbane degradate con presenza di funzioni eterogenee e tessuti edilizi disorganici o incompiuti nonché di edifici a destinazione non residenziale dismessi o in via di dismissione ovvero da rilocalizzare, tenuto conto anche della necessità di favorire lo sviluppo dell’efficienza energetica e delle fonti rinnovabili, le Regioni approvano entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto specifiche leggi per incentivare tali azioni anche con interventi di demolizione e ricostruzione che prevedano: a) il riconoscimento di una volumetria aggiuntiva rispetto a quella preesistente come misura premiale; b) la delocalizzazione delle relative volumetrie in area o aree diverse; c) l’ammissibilità delle modifiche di destinazione d’uso, purché si tratti di destinazioni tra loro compatibili o complementari; d) le modifiche della sagoma necessarie per l’armonizzazione architettonica con gli organismi edilizi esistenti”.

[20] Si tratta, ovviamente di valutare di volta in volta quale tipologia di intervento – tra le categorie previste dalla legislazione statale e regionale – si attagli maggiormente al singolo caso, indicando tutta una serie di interventi edilizi che possono dar luogo a una mera “ristrutturazione edilizia” di cui all’art. 3, lett. d), d.P.R. n. 380/2001 finanche ad più ampio e complesso intervento edilizio, assimilabile quindi alla “ristrutturazione urbanistica” di cui all’art. 3, lett. f), d.P.R. n. 380/2001.

[21] Al riguardo, si segnala che l’art. 2645-quater del Codice Civile (inserito, in sede di conversione, dall’art. 6 del d.l. n. 16 del 2 marzo 2012, convertito con modificazioni in legge n. 44 del 26 aprile 2012) prevede espressamente che “si devono trascrivere, se hanno per oggetto beni immobili, gli atti di diritto privato, i contratti e gli altri atti di diritto privato, anche unilaterali, nonché le convenzioni e i contratti con i quali vengono costituiti a favore dello Stato, della regione, degli altri enti pubblici territoriali ovvero di enti svolgenti un servizio di interesse pubblico, vincoli di uso pubblico o comunque ogni altro vincolo a qualsiasi fine richiesto dalle normative statali e regionali, dagli strumenti urbanistici comunali nonché dai conseguenti strumenti di pianificazione territoriale e dalle convenzioni urbanistiche a essi relative”. I predetti vincoli di natura pubblicistica, incidendo sulla proprietà immobiliare, hanno natura di limitazioni del diritto di proprietà e, pertanto, devono essere portati a conoscenza dei terzi, comunque interessati dalla circolazione dei beni.

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