Commento all’art. 8 l.r. n. 14/2017

Art. 8

Interventi di riuso temporaneo del patrimonio immobiliare esistente

1. Al fine di evitare il consumo di suolo e favorire la riqualificazione, il recupero e il riuso dell’edificato esistente, il comune può consentire l’uso temporaneo di volumi dismessi o inutilizzati ubicati in zona diversa da quello agricola, con esclusione di ogni uso ricettivo.

2. I progetti di riuso mirano preferibilmente a sviluppare l’interazione tra la creatività, l’innovazione, la formazione e la produzione culturale in tutte le sue forme, creando opportunità di impresa e di occupazione, start up. In particolare sono considerate funzioni prioritarie per il riuso:

a) il lavoro di prossimità: artigianato di servizio all’impresa e alle persone, negozi temporanei, mercatini temporanei, servizi alla persona;

b) la creatività e la cultura: esposizioni temporanee, mostre, eventi, teatri, laboratori didattici;

c) il gioco e il movimento: parchi gioco diffusi, attrezzature sportive autogestite, campi da gioco;

d) le nature urbane: orti sociali di prossimità, giardinaggio urbano collettivo, parchi urbani.

3. Il riuso temporaneo è consentito anche nel caso in cui l’uso richiesto sia diverso dal precedente o da quello previsto dallo strumento urbanistico, per una sola volta e per un periodo di tempo non superiore a tre anni, prorogabili di altri due, dalla data di agibilità degli immobili oggetto di intervento.

4. Il comune, a seguito di specifica proposta da parte dei proprietari o dei soggetti aventi titolo, può autorizzare l’uso temporaneo di singoli immobili, stabilendo con apposita deliberazione:

a) il nuovo utilizzo ammesso, nel rispetto delle normative in materia di sicurezza negli ambienti di lavoro, di tutela della salute e della incolumità pubblica e delle norme igienico sanitarie e dell’ordine pubblico;

b) gli utilizzi e le modalità d’uso vietate e quelle che possono creare situazioni di conflitto, tensione o pericolo sociale, o arrecare disturbo agli insediamenti circostanti; la violazione del divieto di tali utilizzi e modalità comporta la immediata sospensione della autorizzazione;

c) il termine per l’utilizzo temporaneo, che non può in ogni caso essere complessivamente superiore a cinque anni.5.

5. Il comune autorizza il riuso temporaneo previa presentazione di un progetto di riuso e la sottoscrizione di una convenzione approvata dal Consiglio comunale nella quale sono precisati:

a) le condizioni per il rilascio degli immobili alla scadenza del termine fissato per l’utilizzo temporaneo;

b) le sanzioni a carico dei soggetti inadempienti;

c) le eventuali misure di incentivazione, comprese quelle di natura contributiva, nel caso di immobili privati messi a disposizione del comune;

d) le dotazioni territoriali e infrastrutturali minime necessarie e funzionali all’uso temporaneo ammesso, con particolare riferimento all’accesso viabilistico e ai parcheggi;

e) le altre condizioni e modalità necessarie a garantire il raggiungimento delle finalità di cui al comma 1.

6. I comuni pubblicano nel sito internet del comune l’elenco dei “Luoghi del Riuso”, in cui sono riportate le aree e i volumi autorizzati al riuso temporaneo, con i progetti di riuso e le relative convenzioni, e lo trasmettono alla Giunta regionale entro il 31 dicembre di ogni anno.

Sommario: 1. Dalle destinazioni d’uso agli usi temporanei (B. Barel)2. Il riuso temporaneo (D. Gerotto)3. La Valorizzazione Immobiliare e la Rigenerazione Urbana tramite gli usi temporanei degli immobili (A. Balduzzi)4. Il valore del “Temporiuso” (C. Bertorelli).

1. Dalle destinazioni d’uso agli usi temporanei

Anche l’attività normativa può avere dei momenti di creatività. È il caso di questa disposizione, che non figurava nei disegni di legge originari confluiti nel testo di sintesi ma che è stata felicemente inserita in dirittura d’arrivo, mediante un emendamento dell’ultimo minuto ampiamente condiviso dal consiglio regionale e auspicato anche da tutti i commentatori di questo articolo.

Al di là del dettato letterale, che ha inevitabilmente risentito dei tempi ristrettissimi dei lavori conclusivi, è la sostanza che conta e che fa la differenza. Si tratta infatti di un’assoluta novità non solo per la legislazione regionale del Veneto ma anche per la legislazione in genere, statale e di altre regioni.

La disciplina urbanistica è infatti prigioniera da oltre cinquant’anni del mito dello zooning, delle destinazioni d’uso degli immobili tipizzate dalla legge e disegnate dagli atti di pianificazione in una griglia sempre più rigida e sempre più datata. Destinazioni d’uso assunte a presupposto per la determinazione degli standard e dei contributi di costruzione, perimetrate con parole sempre più anacronistiche e insignificanti al mutare dell’economia, della società e dei lavori. Parole spesso usate con libertà e vaghezza dai pianificatori, compiaciuti dal fascino esercitato da espressioni accattivanti quanto vacue e polivalenti come “parco tecnologico” o come “zone produttive e terziarie”.

Fino a degenerazioni ridicole, come nel caso di imprenditori brillanti insediati in origine in zone artigianali e colpevoli di essere poi diventati industriali, in contrasto con la destinazione di zona, o come nel caso di officine divenute pian piano concessionarie di autoveicoli e perciò meritevoli di essere sfrattate dalle zone produttive siccome degenerate in attività commerciali.

Se nei decenni dell’espansione edilizia poteva apparire ragionevole indirizzare l’insediamento delle imprese in ambiti selezionati del territorio comunale, a protezione del tessuto edilizio consolidato e degli spazi agricoli e aperti, secondo vocazioni che sembravano stabilmente tipizzabili, già non lo era più agli inizi di questo secolo, tanto che la riforma urbanistica veneta del 2004 ha rimesso ai piani territoriali provinciali la funzione di inventariare le aree produttive disperse e di segnarne la sorte, distinguendo quelle meritevoli di espansione da quelle ormai esaurite e ancor più da quelle da sopprimere prima possibile.

Ma la crisi economica dell’ultimo decennio è stata più veloce ed efficace della pianificazione territoriale. E, forse più ancora della crisi, è la nuova economia post-globalizzazione a far intuire scenari radicalmente diversi, nei quali cerca una ridefinizione lo stesso rapporto fra spazio e lavoro, fra contenitore e contenuto. Basta osservare i giovani creativi ospiti degli “incubatori” di start-up per capire come la loro idea di ufficio o di laboratorio sia talora radicalmente diversa da quella tradizionale.

La crisi del tessuto produttivo tradizionale e lo svuotamento dei capannoni disseminati nel territorio regionale non sono che un pallido riflesso del cambiamento radicale in atto delle forme del lavoro, dei servizi necessari alla nuova economia, della nuova domanda di dare senso e intensità e significato e emozioni al tempo libero, dell’aspirazione sempre più diffusa ad una qualità di vita diversa dal passato, ad una diversa modulazione del proprio tempo e dei propri ritmi di vita.

Che ne sarà allora degli scheletri della vecchia economia, dei capannoni ancora soggetti a pesante tassazione, come se fossero ancora segni tangibili di redditività e non invece fardelli pesanti generatori di oneri, fiscali e manutentivi, di premi assicurativi e di costi di guardiania?

La nuova domanda della nuova economia guarda da tutt’altra parte. Cerca manufatti di grandi e grandissime dimensioni, adatti alla logistica più che alla produzione, prossimi alle grandi vie di comunicazione, localizzati in punti strategici rispetto ai bacini di interesse, adeguati alle più recenti normative tecniche e di sicurezza, dotati di impiantistica al passo coi tempi.

Che fare, dunque, per evitare che il territorio veneto diventi un cimitero di ruderi industriali fatiscenti, con evaporazione di investimenti e tracollo di bilanci aziendali, senza neppure quel malinconico oblio che velava le rovine di Roma antica vegliate da pecore e capre nelle struggenti stampe del Piranesi?

Due sono le carte che gioca il legislatore regionale per salvare il salvabile, complementari fra loro e rimesse al coraggio delle scelte difficili e pragmatiche. L’una è la demolizione, apparentemente traumatica ma in realtà lungimirante. Ciò che è inutile, è spreco per tutti: per il paesaggio e il territorio, per la proprietà destinata a sopportare oneri e rischi senza prospettive positive. La demolizione finisce allora col rivelarsi liberatoria: fa cessare costi improduttivi, rimette in gioco uno spazio libero e come tale suscettibile di essere reinterpretato e rivissuto, magari per accogliere un vigneto o un parco giochi o un noceto o un maneggio: beni oggi preziosi e spesso generatori di valore.

L’altra carta, la prima da giocare per i manufatti in migliori condizioni, è offerta dalla disposizione in commento: ridare un senso, nuovo e imprevedibile, a manufatti costruiti per le attività produttive, aprendoli alla creatività dei giovani e alla loro re-interpretazione della vita e del lavoro e dei servizi e del tempo libero. Gli usi temporanei non hanno nome, tipicità, stabilità, prevedibilità: sono un’espressione tutta da riempire di contenuti secondo l’energia creativa dei giovani e dei meno giovani dal pensiero giovane. Nessuna variante urbanistica da chiedere ai Comuni e da rimettere a faticosi e lenti procedimenti; nessun contributo da pagare per mutamenti di destinazione d’uso. La disposizione consente ai Comuni, mediante semplici accordi tra privati e consiglio comunale, di provare a riempire di idee nuove scatole edilizie nate per un altro mondo. È una sfida: il Consiglio comunale “può” autorizzare, per un massimo di cinque anni, gli usi previsti da progetti presentati dai proprietari o anche da altri soggetti, d’intesa ovviamente con i proprietari. La convenzione ha un ampio spazio d’azione, può prevedere sanzioni in caso di inadempimento, può esigere un minimo di opere come accessi e parcheggi o infrastrutture indispensabili in rapporto allo specifico uso proposto. Ma non sono imposti standard particolari, né opere che non siano indispensabili per rispettare le normative statali e regionali preposte alla salvaguardia di valori superiori, dalla sicurezza del lavoro alla tutela della salute e naturalmente della pubblica incolumità, alle esigenze igienico-sanitarie, all’ordine pubblico. Particolare attenzione è riservata anche alla tutela dei vicini, per prevenire disturbo o addirittura tensioni sociali, e l’espressa esclusione dell’uso ricettivo sembra volta proprio ad evitare in radice l’uso dei capannoni come ricoveri temporanei per l’ospitalità di persone in condizioni di disagio (ma è forse conciliabile con la possibilità di ricavarne foresterie per dipendenti delle aziende locali).

La scelta del legislatore di coinvolgere il Consiglio comunale, chiamato ad autorizzare l’uso temporaneo mediante l’approvazione di una convenzione col privato promotore, appare poco in linea col riparto di competenze tra Consiglio e Giunta secondo la competente normativa statale, e anche con la provvisorietà dell’esperimento in rapporto alla immutazione della pianificazione urbanistica. Per contro può spiegarsi col proposito di non interferire neppure temporaneamente col ruolo proprio del consiglio comunale in materia di pianificazione urbanistica comunale e allo stesso tempo con un’esigenza di massima trasparenza e partecipazione di fronte a decisioni che, sia pure temporanee, avviano processi non sono prevedibili nei loro sviluppi e suscettibili di incidere anche sul contesto sociale e ambientale nel quale si colloca l’edificio interessato dal progetto.

Lo schema di convenzione previsto è atipico e delinea i contenuti minimi, lasciando al Consiglio comunale e al proponente ampio margine per definire eventualmente altri contenuti. È palese però che la duttilità dello strumento è finalizzata a semplificare ed incentivare il perseguimento degli obiettivi enunciati dalla disposizione fin dal suo esordio, cosicché sarà efficace quanto più sarà un abito su misura, leggero e arioso, per innovatori poveri di capitali e ricchi di idee e coraggio, e non invece una cappa gravosa e rigida, onerosa e dissuasiva, capace di spegnere sul nascere quell’entusiasmo magari un po’ emotivo e improvvisato che potrebbe rappresentare l’ultima speranza prima della demolizione.

(Bruno Barel)

2. Il riuso temporaneo

La commercializzazione del primo smartphone nel 2007 e la crisi economica dell’anno successivo hanno dato vita ad una successione sempre più veloce di cambiamenti, non lasciandoci spesso il tempo per adattarci. Ma ci sono persone consapevoli di questo “nuovo” mondo in continuo cambiamento che riescono a guardarlo con occhi nuovi. Sono quelle che provano tutti i giorni ad immaginare con creatività un futuro coerente con questo tempo. Per loro il lavoro c’è se viene inventato. Giovani e meno giovani, senza occupazione, provano allora a far nascere imprese da idee innovative e spesso non chiaramente classificabili. Questi nuovi imprenditori/artigiani/agricoltori/creativi, con la consapevolezza dell’importanza del legame con il territorio, hanno avviato un processo per una nuova di economia del Veneto che il sistema bancario ha difficoltà a finanziare.

In questo contesto il riuso di immobili vuoti diventa un’opportunità per avere spazi a costi modesti e senza grandi investimenti, dando la possibilità di imparare a far crescere un’impresa con molto impegno, nonostante le limitate risorse finanziarie di questi tempi.

Il riuso temporaneo permette di ottenere spazi a costi ridotti senza onerosi cambi di destinazione e con poche opere di messa a norma in relazione alla specifica attività, per un periodo sufficiente a capire se l’impresa ideata funziona veramente.

Il riuso temporaneo concede l’utilizzo di vecchi edifici abbandonati o sottoutilizzati di proprietà pubblica o privata che, in attesa di un importante processo di ristrutturazione, possono ospitare iniziative legate al mondo della cultura e dell’associazionismo, allo start-up dell’artigianato e piccola impresa, a servizi alla persona e al commercio di vicinato.

Il riuso temporaneo permette l’uso di capannoni artigianali da parte di micro imprese che lavorano insieme, aiutandosi a vicenda, aggregando un’ampia varietà di attività, senza farsi molte domande su quale tipo di destinazione urbanistica sia formalmente appropriata.

Il riuso temporaneo consente alle start-up di occupare negozi sfitti in vie o gallerie commerciali degradate che nessuno vuole, generando un microcosmo di relazioni capace di cambiare lo spazio urbano innalzando il valore degli immobili dell’intero quartiere.

Tutto questo non si ottiene con una mera applicazione delle norme. La Regione Veneto, prima in Italia, ha voluto consegnare ai Comuni una nuova possibilità per avviare processi di riqualificazione della città lasciando alla comunità spazi di innovazione e creatività. Le amministrazioni devono pensare lo sviluppo urbano come azione per coniugare idea di spazio e qualità della vita della popolazione. La città va immaginata come ecosistema funzionale allo sviluppo di relazioni tra le persone e tra diverse organizzazioni. Papa Francesco ci dice nell’enciclica Laudato Sii “Non basta la ricerca della bellezza nel progetto architettonico, perché ha ancora più valore servire un altro tipo di bellezza: la qualità della vita delle persone, la loro armonia con l’ambiente, l’incontro e l’aiuto reciproco. Anche per questo è tanto importante che il punto di vista degli abitanti del luogo contribuisca sempre all’analisi della pianificazione urbanistica”.

Attraverso il riuso la comunità sperimenta una modalità diversa di pianificazione urbana. Il Piano non è più uno strumento calato dall’alto ma piuttosto il risultato di una condivisione di attività e comportamenti. Parole ormai vuote come smart o sustainable, lasciano spazio ad un nuovo dizionario di vocaboli e di gesti condivisi.

Oggi il problema delle amministrazioni è come dare risposte ai bisogni dei propri cittadini con una crescente scarsità di risorse e con sfide sempre più grandi. Alla Politica è richiesto di fare uno sforzo di immaginazione per definire scenari strategici adatti ai tempi. Le è richiesto di usare “occhi nuovi” per guardare il mondo. La Regione con questa legge ha provato a immaginare un nuovo modello di sviluppo per il Veneto, spetta a noi ora cogliere l’opportunità per adattarci al “nuovo” mondo.

(Danilo Gerotto)

3. La Valorizzazione Immobiliare e la Rigenerazione Urbana tramite gli usi temporanei degli immobili

La “rigenerazione urbana” è diventata, negli anni, un tema sempre più attuale, i cui riflessi concreti si evidenziano nelle numerose iniziative volte alla riqualificazione del patrimonio immobiliare alla scala urbana, puntando a garantire qualità e sicurezza dell’abitare sia dal punto di vista sociale che ambientale, mirando ad attuare interventi volti alla rifunzionalizzazione del patrimonio edilizio preesistente, limitando il consumo di territorio, salvaguardando il paesaggio e l’ambiente, ed escludendo interventi unicamente volti a “demolizione e ricostruzione” a fini speculativi.

Il significato di “rigenerazione urbana” è, inoltre, in continua evoluzione e le metodologie messe in atto a tale scopo cambiano seguendo i ritmi e le trasformazioni del tessuto socio-economico: il lavoro è sempre più flessibile, gli spostamenti più frequenti, le sedi di lavoro sempre meno geograficamente identificabili e permanenti; si stanno diffondendo lo “smart working” e la condivisione delle esperienze e degli spazi, del “fare rete” (co-working e co-living) Anche la conformazione del nucleo famigliare è cambiato, e di conseguenza le relative esigenze in termini di spazi e di fruizione dei luoghi.

Il fattore esperienziale assume sempre più rilevanza a fronte di elementi canonici di identificazione spazio-temporali di una determinata funzione in un determinato luogo: le “attività”, intese in senso lato e classico, stanno uscendo dal perimetro fisico degli spazi storicamente dedicati ad ospitarle e spesso cercano collocazione in ambienti inusuali (si pensi alle mostre d’arte contemporanea o alle sfilate di moda organizzate all’interno di ex stabilimenti industriali dismessi).

Il concetto di “temporaneità” è sempre più presente e determinante le scelte e gli indirizzi del vivere nella società odierna: il tema del riuso degli immobili, contro il consumo di suolo, è ormai da parecchio tempo sentito e sempre più attuale; l’innesto sugli immobili dismessi di “usi temporanei” è una pratica che sta prendendo piede, ma che ancora sconta l’inadeguatezza di un quadro normativo, a livello nazionale, ormai superato o che, quantomeno, non agevola tali iniziative.

Oggi in Italia ci sono più di 6 milioni di beni inutilizzati o sottoutilizzati, pari a due volte la città di Roma[1]; tra questi sono moltissimi quelli di provenienza pubblica, abbandonati da decenni, estesi alcune decine di migliaia di metri quadri (tra cui ex caserme, ex ospedali ecc.), e molto spesso collocati in aree limitrofe il centro delle città. Tali aree vanno a configurare una nuova tipologia di “periferia” urbana, caratterizzata da uno status di degrado e abbandono, ma geograficamente collocata in zone centrali e spesso limitrofe a quartieri i cui valori immobiliari sono elevati.

Attribuendo un significato innovativo alla “valorizzazione immobiliare”, intendendola come un processo temporaneo di rivitalizzazione degli immobili in disuso, in attesa che gli stessi vengano avviati ad un percorso di trasformazione definitiva, è possibile considerare gli immobili come “temporary box”, adatti ad ospitare attività temporanee capaci di riattivare dinamiche che faticano a ripartire seguendo i processi tradizionali “economic driver”. La cultura, in senso lato, è sempre più utilizzata, anche in Italia, come mezzo e linguaggio contemporaneo per attuare politiche e interventi di rigenerazione urbana e di inclusione sociale.

I benefici apportati dall’attivazione di usi temporanei sugli immobili dismessi sono molteplici: innanzitutto si restituisce alla collettività una porzione di città, piccola o grande che sia, anni in anticipo rispetto ad una futura definitiva trasformazione; in questo modo si ricostruisce una relazione tra un immobile abbandonato e il tessuto urbano limitrofo, relazione che transita attraverso le persone, i fruitori e le funzioni insediate.

Gli usi temporanei sono anche un’occasione per sperimentare destinazioni d’uso e funzioni diverse rispetto a quelle urbanisticamente previste, con investimenti iniziali tutto sommato contenuti, per capire come le stesse possano essere accolte e assorbite nel tessuto sociale dell’immediato contesto e se possano sostenersi in un’ottica di medio-lungo periodo; a priori non si esclude che un uso temporaneo particolarmente ben riuscito possa trasformarsi in una locazione a lungo termine, qualora questa sia compatibile con la strategia di sviluppo del singolo immobile.

Alcuni esempi di successo in Italia e all’estero insegnano che la comunicazione e promozione relativa ad eventi e iniziative temporanee organizzate in questi spazi hanno ottenuto un’elevata copertura mediatica, favorendo di conseguenza la rivalutazione dell’immobile, accrescendo l’interesse nei suoi confronti sia da parte di altri operatori interessati a farne altri usi transitori, sia di investitori interessati ad una valorizzazione definitiva.

Un altro beneficio non trascurabile per un immobile dismesso che ospita usi temporanei è il miglioramento dello stato manutentivo che da tale uso consegue, oltre che la mitigazione dei costi a carico del proprietario (quando non si parli di ricavi). Un’azione strategica, estesa ad un portafoglio immobiliare, consente inoltre di dare visibilità anche a immobili meno appetibili secondo i parametri classici del mercato.

Gli effetti positivi degli usi temporanei, inoltre, escono dalle mura dell’immobile e si riflettono almeno sul contesto limitrofo, stimolando la generazione nuovi indotti economici e circuiti relazionali non ricalcanti percorsi tradizionali.

La parola chiave è “innovazione”, di significato e di linguaggio.

(Alessandra Balduzzi)

4. Il valore del “Temporiuso”[2]

I temi fondanti l’art 8 possono considerarsi l’esito di un dibattito serrato che ha alimentato gli ultimi dieci anni di risveglio “post metrocubaro” in Regione Veneto ibridando saperi apparentemente distanti e le due più autorevoli letture che si sono (solo apparentemente) contrapposte.

La prima ha preso subito a denunciare la pressione speculativa che si annidava nel “patto per lo sviluppo” tra soggetto pubblico e soggetto privato, trovando nei padri culturali del Novecento non solo regionale (Luigi Meneghello, Andrea Zanzotto, Mario Rigoni Stern, Salvatore Settis ed altri ancora) il sostegno e l’autorevolezza necessari ad insediare un corteo permanente di comitati indignati a tutte le scale sociali. Il faro è diventato l’art.9 della Costituzione e il rischio quello di “buttare via il bambino con l’acqua sporca”, di bloccare prima che capire, di irrigidire ulteriormente i regimi di vincolo e condurre i percorsi decisionali ad una definitiva a-fasia progettuale per la sola paura di ritrovarsi discussi sui giornali o citati in qualche ricorso giudiziario.

La seconda ha intrapreso la strada più lunga e complessa di indagare le ragioni per una ripartenza, ma senza “fare prigionieri”, e piuttosto assumendo la convinzione che la città diffusa è il prodotto conseguente di un’epoca che ha accentuato i fenomeni di un urbanesimo senza precedenti. Questa parola, città, fa paura; ma non accettarla così come trovata, come un fatto “as found” e reale, significa non affrontare i problemi alla scala a cui si pongono; significa ridurre la risposta a una infinita teoria di analisi, di piani di settore e a una serie di emendamenti difensivi; significa non avere altro che una città inadeguata rispetto alle sue possibilità e alle sue ambizioni. Ed invece una città che accetti di essere tale deve partire da un disegno politico profondamente condiviso e aperto, per diventare una polis nel senso antico come in quello moderno.

Entrambe le letture in realtà trovano il giusto riconoscimento al proprio operato nelle nuove definizioni di paesaggio e cultura che, pur a fatica, stanno transitando definitivamente nel nostro linguaggio. “Paesaggio” infatti non è più solo il bel paesaggio giustamente tutelato dalle discipline in forma corale, ma anche tutte quelle porzioni di territorio trasformate consapevolmente da una comunità abitante. E “Cultura” non è più solo il veicolo raffinato e piacevole che alimenta il tempo libero, ma anche e soprattutto lo straordinario manipolatore di senso e di valore delle cose, qualunque esse siano, ivi comprese quelle costruite.

Ebbene, è evidente che solo accogliendo anche in sede politica tali nuove definizioni è stato possibile per il legislatore introdurre per la prima volta un principio di temporalità d’uso nella gestione del costruito, laddove fino a ieri esso seguiva obbligatoriamente la dimensione predeterminata dell’Urbanistica.

Tale risultato, è bene ricordarlo, ha fatto palestra soprattutto con la stagione corsara di piattaforme culturali nate proprio nei territori periferici e molecolari della Regione Veneto e cresciute fino a raggiungere ampie fette di opinione pubblica nazionale. Mi riferisco ai festival ibridi (ad esempio il Festival Comodamente a Vittorio Veneto, che dal 2007 al 2013 ha riaperto più di cinquanta luoghi dismessi della città; oppure Festival Città Impresa, attivo dal 2008), alla lunga stagione che ha alimentato la candidatura di Venezia e Nordest a capitale europea della cultura 2019, alle piattaforme di indagine più puntuale (es. Provincia Italiana, promossa da Biennale di Venezia nel 2010; Re-cycle Italy, progetto di ricerca di interesse nazionale coordinato da IUAV Venezia nel triennio 2013/2016) ed anche a quelle più attuative nate qua e là per dare soluzione ad un fatto locale, ma sempre appartenenti ad un cloud esperienziale che non ha avuto bisogno di alcuna norma per essere tutelato e per attecchire fino al punto di divenire la sola possibile soluzione d’uso per interi ambiti di costruito andati dismessi troppo velocemente.

Il portato finale, cioè che a curare il declino permanente dei luoghi costruiti sia l’uso temporaneo dei luoghi stessi (o perfino la loro “demolizione creativa”, come la definisce Bruno Barel), potrà in prima istanza apparire un ossimoro, ma in realtà va accettato come pratica oggettiva del nostro mondo contemporaneo.

(Claudio Bertorelli)

 

[1] Fonte: www.temporiuso.org.

[2] Temporiuso è il termine dato al progetto di ricerca-azione avviato nel 2008 a cura dell’associazione temporiuso.net, con il patrocinio dell’Assessorato alla Cultura della Provincia di Milano, nel 2009 dell’Assessorato allo Sviluppo del Territorio del Comune di Milano e il sostegno e contributo dei ricercatori e tirocinanti del laboratorio Multiplicity.lab, DiAP Politecnico di Milano. Il progetto si propone di utilizzare il patrimonio edilizio esistente e gli spazi aperti vuoti, in abbandono o sottoutilizzati di proprietà pubblica o privata, per riattivarli con progetti legati al mondo della cultura e associazionismo, dell’artigianato e piccola impresa, dell’accoglienza temporanea per studenti e turismo giovanile, con contratti ad uso temporaneo a canone calmierato.

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