Commento all’art. 12 l.r n. 14/2019

di Maurizio De Gennaro e Lucio Lion

ARTICOLO 12
Elenchi e monitoraggio

1. I comuni, a fini conoscitivi, istituiscono e aggiornano l’elenco degli interventi autorizzati ai sensi della presente legge e lo inviano, entro il 31 gennaio di ogni anno, alla Giunta regionale.
2. L’elenco di cui al comma 1 indica, per ciascun tipo di intervento, il volume o la superficie di ampliamento o di incremento autorizzati, la localizzazione, l’impiego di energia da fonti rinnovabili, l’utilizzo di crediti edilizi da rinaturalizzazione e se si tratta di prima casa di abitazione.
3. I volumi e le superfici di ampliamento o di incremento autorizzati ai sensi della presente legge sono inseriti nel quadro conoscitivo di cui all’articolo 10 della legge regionale 23 aprile 2004, n. 11.

Nell’ambito del processo di innovazione della Pubblica Amministrazione, sono state attuate diverse iniziative volte al monitoraggio delle azioni per valutare gli effetti e l’efficacia degli strumenti della pianificazione territoriale e urbanistica.

La Regione Veneto, già con l’art. 8 l.r. n. 14/2019, aveva avviato una specifica azione di monitoraggio dell’attuazione delle disposizioni del “Piano Casa”, al fine di avere elementi conoscitivi ed elenchi aggiornati degli interventi previsti e autorizzati.

Il monitoraggio sul “Piano Casa”, pertanto, ha avuto inizio a partire dal mese di novembre 2009, predisposto a cura della Direzione Urbanistica e Paesaggio della Regione Veneto e si è protratto fino all’anno 2018, e troverà un impulso in un quadro rinnovato con la nuova legge regionale “Veneto 2050”.

Inizialmente l’attività ha riguardato il conteggio delle istanze presentate nei vari Comuni, in base al citato art. 8 della Legge Regionale n. 14/2009 il quale stabiliva che “I comuni, a fini conoscitivi, provvedono ad istituire ed aggiornare l’elenco degli ampliamenti autorizzati ai sensi degli articoli 2, 3 e 4”.

Con la Legge Regionale n. 13/2011, il secondo “Piano Casa”, sono state apportate modifiche al citato articolo 8, introducendo il comma 1-bis il quale aggiungeva: “L’elenco di cui al comma 1 indica per ciascun tipo di intervento di cui agli articoli 2,3, e 4, il volume o la superficie di ampliamento autorizzato” e quindi oltre al numero delle istanze totali, dovevano essere conteggiati anche gli interventi di cui agli articoli 2 e 3 con rispettivo volume e/o superficie di ampliamento o ricostruzione.

Successivamente si è ritenuto di implementare ulteriormente la raccolta dei dati, attraverso la predisposizione di una specifica scheda, con l’aggiunta di informazioni ritenute di fondamentale importanza per le finalità del monitoraggio, quali la distinzione degli interventi assentiti/licenziati suddivisi per Zone Territoriali Omogenee e per categoria di appartenenza (Residenza, Commercio, Industria-Artigianato, Turismo, Annessi) nonché il numero di autorizzazioni rilasciate in riferimento alle “prime case di abitazione”.

Per attuare il processo di acquisizione dei dati da parte dei Comuni, è stata elaborata una apposita scheda informatizzata, resa disponibile ai Comuni attraverso il portale della “Regione – Piano Casa”, con l’impegno dei medesimi a restituirla debitamente compilata nelle sue parti.

Le informazioni desunte hanno avuto, e avranno, lo scopo di quantificare gli impatti positivi e/o negativi sul tessuto urbanistico comunale, in termini di volume e/o superficie ampliabili, suddivisi per Zone Territoriali distinte e per categoria di appartenenza, nonché di testare l’entità degli interventi di riqualificazione e recupero del patrimonio edilizio esistente.

Non ultimi gli effetti e le ricadute sul sistema socio-economico derivanti dall’applicazione delle norme di legge.

L’acquisizione dei dati nell’arco degli ultimi anni ha prodotto dei report significativi dell’attività svolta in ambito regionale; infatti si è potuta constatare la netta prevalenza degli interventi di ampliamento nei termini di volumi e superfici (art. 2 l.r. n. 14/2009) stimati circa al 90% del totale degli interventi, rispetto all’applicazione delle norme relative alle demolizioni e ricostruzioni (art. 3 della l.r. n. 14/2009).

Nella suddivisione a zone urbanistiche prevalgono interventi nelle “Zone E”, cui seguono le “C”, le “B”, le “A” e infine le “D”.

Altro elemento di rilievo è la verifica effettuata sulle autorizzazioni rilasciate come “prima casa” le quali appaiono superiori alla metà rispetto al numero complessivo oggetto di verifica.

Infine, e non ultima, la rappresentazione numerica dei volumi e delle superfici licenziate che possono assumere ruoli importanti nelle stime future circa l’uso del territorio.

L’art.12 di “Veneto 2050” riafferma quindi l’importanza attribuita al monitoraggio e alla necessità di attingere importanti informazioni finalizzate alla verifica circa l’attuazione delle norme di legge in ambito regionale, con la fondamentale collaborazione dei Comuni.

Rispetto alla precedente legge e fermi restando gli elenchi di dati ritenuti comunque indispensabili e già elencati, appaiono – al comma 2 –- due nuove voci quali “l’impiego di energia da fonti rinnovabili”, di cui all’art.2 e “l’utilizzo di crediti edilizi da rinaturalizzazione” di cui all’art.4.

Proprio l’applicazione del monitoraggio a queste due nuove “voci” avrà il compito di ampliare il raggio di azione di ricognizione e valutazione degli effetti delle norme, divenendone elemento di particolare attenzione nel quadro degli strumenti di analisi dei dati e delle informazioni.

Appare significativo considerare altresì che i “crediti edilizi da rinaturalizzazione” assumeranno un ruolo di notevole importanza all’interno della disciplina della nuova legge regionale, un ruolo cardine per l’attuazione del “cleaning” del territorio e, proprio come prevede l’art.15 “Clausola valutativa” della legge, essi sono ritenuti uno degli elementi indispensabili ai fini della verifica dello stato di attuazione della legge.

Pertanto il monitoraggio di “Veneto 2050” dovrà essere organizzato in un innovativo sistema informatico che, a conoscenza del precedente sistema, preveda procedure e metodologie standardizzate, condivise con i Comuni, per acquisire, normalizzare, elaborare e gestire i dati nonché prevedere procedure per la diffusione e la comunicazione delle informazioni della l.r. n. 14/2019: uno strumento di conoscenza, capace di fornire risultati e documentare l’efficacia e l’efficienza della applicazione delle norme ed essere il supporto per le valutazioni e le scelte dello stato d’attuazione della stessa legge.

Commento all’art. 11 l.r. n. 14/2019

ARTICOLO 11
Disposizioni generali e di deroga

1. Fermo restando quanto previsto agli articoli 8 e 9, gli interventi di cui agli articoli 6 e 7 possono derogare ai parametri edilizi di superficie, volume e altezza previsti dai regolamenti e strumenti urbanistici comunali nonché, in attuazione dell’articolo 2 bis del decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, ai parametri edilizi di altezza, densità e distanze di cui agli articoli 7, 8 e 9 del decreto ministeriale n. 1444 del 1968, purché, in tali ultimi casi, nell’ambito di strumenti urbanistici di tipo attuativo con previsioni planivolumetriche che consentano una valutazione unitaria e complessiva degli interventi.
2. Qualora gli interventi di cui agli articoli 6 e 7 comportino la realizzazione di un edificio con volumetria superiore ai 2.000 metri cubi o con un altezza superiore al 50 per cento rispetto all’edificio oggetto di intervento, e non ricorra l’ipotesi di deroga al decreto ministeriale n. 1444 del 1968 di cui al comma 1, gli stessi sono sempre autorizzati previo rilascio del permesso di costruire convenzionato di cui all’articolo 28 bis del decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, con previsioni planivolumetriche.
3. Gli interventi di cui agli articoli 6 e 7 sono consentiti a condizione che la capacità edificatoria, riconosciuta dallo strumento urbanistico comunale o dalle normative per l’edificazione in zona agricola, sia stata previamente utilizzata; tale capacità edificatoria può essere utilizzata anche contestualmente agli interventi di cui agli articoli 6 e 7, che non sono cumulabili tra loro e sono consentiti una solo volta, anche se possono essere realizzati in più fasi, fino al raggiungimento degli ampliamenti o degli incrementi volumetrici e di superficie complessivamente previsti..
4. Gli ampliamenti e gli incrementi di volume o di superficie di cui articoli 6, 7 e 9 sono determinati sulla base dei parametri edificatori stabiliti dallo strumento urbanistico. Nei limiti degli ampliamenti e degli incrementi volumetrici consentiti non vanno calcolati i volumi scomputabili ai sensi della normativa vigente.
5. Gli strumenti urbanistici comunali possono individuare gli ambiti di urbanizzazione consolidata nei quali gli interventi di riqualificazione di cui all’articolo 7 consentono la cessione al comune di aree per dotazioni territoriali in quantità inferiore a quella minima prevista dagli articoli 3, 4 e 5 del decreto ministeriale n. 1444 del 1968, qualora sia dimostrato che i fabbisogni di attrezzature e spazi collettivi nei predetti ambiti, anche a seguito del nuovo intervento, sono soddisfatti a fronte della presenza di idonee dotazioni territoriali in aree contermini oppure in aree agevolmente accessibili con appositi percorsi ciclo pedonali protetti e con il sistema di trasporto pubblico. In tale caso il mantenimento delle dotazioni territoriali, infrastrutture e servizi pubblici stabiliti dal decreto ministeriale n. 1444 del 1968, è assicurato dalla monetizzazione, in tutto o in parte, della quota di dette aree.

Commento all’art. 11 l.r. n. 14/2019: A. Analisi normativaB. Cenni critici su alcuni problemi connessi all’art. 11 

Commento all’art. 10 l.r. n. 14/2019

ARTICOLO 10
Titolo abilitativo e incentivi
1. Gli interventi di cui al presente titolo, realizzabili anche mediante presentazione di unica istanza, sono subordinati alla presentazione della segnalazione certificata di inizio di attività (SCIA) di cui all’articolo 23, del decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, fatta salva la possibilità per l’interessato di richiedere il permesso di costruire e fermo restando quanto previsto dall’articolo 11.
2. Gli interventi di cui al comma 1, qualora comportino una ricomposizione planivolumetrica che determini una modifica sostanziale con la ricostruzione del nuovo edificio su un’area di sedime completamente diversa, sono assentiti mediante permesso di costruire.
2 bis. Fermo restando quanto previsto dai commi 1 e 2 dell’articolo 11, gli interventi sugli edifici esistenti di cui agli articoli 6 e 7, qualora ricadano in uno o più ambiti territoriali assoggettati a piano urbanistico attuativo dallo strumento urbanistico generale, possono comunque essere assentiti con permesso di costruire di cui agli articoli 10 del decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001 o con segnalazione certificata di inizio di attività (SCIA) di cui all’articolo 23 del medesimo decreto, in presenza delle principali opere di urbanizzazione e previa deliberazione del Consiglio comunale che si esprime in ordine alla possibilità di prescindere dal piano attuativo richiesto. (1)
3. Ferma restando l’applicazione dell’articolo 17, del decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, per gli interventi di ampliamento di cui all’articolo 6, il contributo relativo al costo di costruzione è ridotto di un ulteriore 20 per cento nel caso in cui l’edificio, o l’unità immobiliare, sia destinato a prima casa di abitazione del proprietario o dell’avente titolo. I consigli comunali possono stabilire un’ulteriore riduzione del contributo relativo al costo di costruzione.
4. Per usufruire delle agevolazioni di cui al comma 3, il proprietario, o l’avente titolo, ha l’obbligo di stabilire la residenza e mantenerla per un periodo non inferiore a cinque anni successivi all’agibilità dell’edificio. Qualora si contravvenga a tale obbligo il comune, a titolo di penale, richiede il versamento dell’intero contributo altrimenti dovuto, maggiorato del 200 per cento.
5. La realizzazione degli interventi di cui al comma 1 funzionali alla fruibilità di edifici adibiti ad abitazione di soggetti riconosciuti invalidi dalla competente commissione, ai sensi dell’articolo 4 della legge 5 febbraio 1992, n. 104 “Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate”, dà diritto alla riduzione delle somme dovute a titolo di costo di costruzione in relazione all’intervento, in misura del 100 per cento, sulla base dei criteri definiti dalla Giunta regionale ai sensi dell’articolo 10, comma 2, della legge regionale 12 luglio 2007, n. 16.La disposizione in commento istituisce un fondo regionale per il finanziamento di alcune spese correlate agli interventi promossi dalla legge.

(1) Comma introdotto dall’art. 10 della legge regionale n. 19 del 30 giugno 2020, pubblicata sul BUR Veneto n. 88 del 2 luglio 2021.

Commento dell’art. 10 l.r. n. 14/2019: A. Analisi normativaB. Controprova: titolo richiesto per tipologia d’intervento

Commento all’art. 9 l.r. n. 14/2019

Articolo 9
Interventi su edifici in aree dichiarate di pericolosità idraulica o idrogeologica
1. Per gli edifici ricadenti nelle aree dichiarate di pericolosità idraulica o idrogeologica molto elevata (P4) o elevata (P3) dai Piani stralcio di bacino per l’assetto idrogeologico di cui al decreto legge 11 giugno 1998, n. 180 “Misure urgenti per la prevenzione del rischio idrogeologico ed a favore delle zone colpite da disastri franosi nella regione Campania”, convertito con modificazioni dalla legge 3 agosto 1998, n. 267, è consentita l’integrale demolizione e la successiva ricostruzione in zona territoriale omogenea propria non dichiarata di pericolosità idraulica o idrogeologica, individuata a tale scopo dal consiglio comunale, con incrementi fino al 100 per cento del volume o della superficie, anche in deroga ai parametri dello strumento urbanistico comunale.
2. Limitatamente agli edifici a destinazione residenziale, la ricostruzione di cui al comma 1 è consentita anche in zona agricola, purché caratterizzata dalla presenza di un edificato già consolidato e sempre che l’area non sia oggetto di specifiche norme di tutela da parte degli strumenti urbanistici o territoriali che ne impediscano l’edificazione.
3. La demolizione dell’edificio deve avvenire entro tre mesi dall’agibilità degli edifici ricostruiti e deve comportare la rinaturalizzazione del suolo; in caso di mancata rinaturalizzazione trovano applicazione le disposizioni di cui all’articolo 31 del decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001.
4. Per l’esecuzione degli interventi di demolizione e rinaturalizzazione è prestata, a favore del comune, idonea garanzia.
5. Agli edifici ricostruiti ai sensi del presente articolo non si applicano le disposizioni di cui agli articoli 6 e 7.
6. Le disposizioni di cui agli articoli 6 e 7 si applicano agli edifici ricadenti nelle aree dichiarate di moderata e di media pericolosità idraulica o idrogeologica (P1 e P2).

Commento all’art. 9 l.r. n. 14/2019: A. Il quadro di riferimento normativoB. Gli interventi in aree a rischio idraulico e idrogeologico

Commento all’art. 8 l.r. n. 14/2019

di Vincenzo Pellegrini

Articolo 8
Interventi in zona agricola

1. Nelle zone agricole è escluso l’utilizzo del credito edilizio da rinaturalizzazione e gli interventi di cui agli articoli 6 e 7 sono consentiti esclusivamente:
a) per la prima casa di abitazione e relative pertinenze;
b) in aderenza o sopra elevazione;
in deroga ai soli parametri edilizi di superficie e volume.
2. Gli interventi di cui al presente articolo sono ammissibili anche in assenza dei requisiti soggettivi di imprenditore agricolo e del piano aziendale di cui all’articolo 44, della legge regionale 23 aprile 2004, n. 11.

Sommario: 1. Prime considerazioni 2. L’applicabilità della legge “Veneto 2050” nelle zone agricole: esclusioni3. L’applicabilità della legge “Veneto 2050” nelle zone agricole: limiti4. Interventi da legge “Veneto 2050” e ampliamento ex art. 44, co. 5, l.r. n. 11/2004: (molte) analogie e (poche) differenze5. Considerazioni finali

1. Prime considerazioni

L’art. 8 della legge regionale n. 14/2019 detta puntualmente la disciplina per gli interventi previsti dalla legge “Veneto 2050” in zona agricola.

L’interpretazione della presente disposizione non può prescindere da un breve inquadramento preliminare, alla luce dell’evoluzione che la disciplina dell’edificazione “premiale” nelle zone agricole ha subito nella successione delle leggi regionali cd. “Piano Casa”, delle quali la presente costituisce l’esito.

È anzitutto noto che la legge regionale urbanistica n. 11 del 2004 disciplina l’edificazione agricola agli articoli 43 e seguenti. In particolare, l’edificazione sia di case di abitazione sia di annessi rustici funzionali alla produzione è, come noto, subordinata all’art. 44 commi 1 e 2 a rigorosi presupposti soggettivi ed oggettivi, consistenti (in sintesi) nella qualifica soggettiva del richiedente come imprenditore agricolo e nella redazione di un piano aziendale a comprova della sussistenza di alcuni requisiti di vitalità dell’azienda.

In esito ad un intervento di interpretazione autentica approvato dal legislatore regionale con l’art. 5 della l.r. n. 30/2010 – intervento indotto dalla posizione interpretativa opposta assunta dalla giurisprudenza in una nota vicenda giudiziaria in Comune di Cortina d’Ampezzo (TAR Veneto, sez. III, n. 353/2009 e Consiglio di Stato, sez. IV, n. 798/2010) – è stato tuttavia chiarito che la possibilità di ampliamento della prima casa di abitazione fino alla corrispondenza di 800 metri cubi, disciplinato dal comma 5 dell’art. 44 cit., prescinde invece dalla necessaria sussistenza dei presupposti soggettivi ed oggettivi di cui ai primi due commi dell’art. 44 l.r. n. 11/2004.

In tale contesto si sono succedute le leggi regionali sul “Piano Casa” ed il rapporto tra l’applicazione delle premialità volumetriche (o di superficie) concesse “in deroga” dalla legislazione regionale speciale e le limitazioni all’edificazione ordinaria in zona agricola ha certamente rappresentato il profilo di maggiore impegno interpretativo.

Rammentiamo invero che nella formulazione originaria della legge regionale 14/2009 non era contenuta una previsione specifica per le zone agricole e ciò aveva lasciato spazio ad alcuni dubbi interpretativi. Prevaleva tuttavia la convinzione della applicabilità della disciplina premiale del “Piano Casa” anche in difetto dei requisiti soggettivi ed oggettivi prescritti dall’art. 44 l.r. n. 11/2004 per la generalità degli interventi in zona agricola, ivi inclusi gli edifici produttivi (cd. annessi rustici). In tal senso, peraltro, si schierava la prassi regionale, con la circolare del Presidente della Giunta regionale n. 1 dell’8 novembre 2011, che precisava che, in assenza di limitazioni espresse, la disciplina del Piano Casa andava applicata anche in zona agricola senza necessaria presenza di requisiti soggettivi od oggettivi ulteriori.

Come noto, con il terzo “Piano Casa” del Veneto il legislatore regionale introduceva per la prima volta una norma dedicata specificamente alle zone agricole (art. 3 bis), confermando – questa volta in termini espressi – l’applicabilità delle premialità sia alla residenza sia agli annessi rustici (i.e. fabbricati funzionalmente destinati alla conduzione del fondo).

Anche con la nuova legge regionale “Veneto 2050”, come con la precedente, il Legislatore ha optato per dedicare agli interventi in zona agricola una specifica previsione, ossia l’art. 8 in commento.

A differenza di quanto fin qui avvenuto, la norma sulle zone agricole è tuttavia diretta a tracciare la netta distinzione tra queste ed il resto del territorio, sottolineando per le zone agricole, anche nel tenore letterale, un chiaro rapporto tra regola (non applicabilità delle premialità introdotte dalla legge) ed eccezione (applicazione solo ed esclusivamente nei casi e nei modi indicati). Invero, l’individuazione degli interventi ammissibili in zona agricola avviene anzitutto esplicitando ciò che non è ammesso (“è escluso l’utilizzo del credito edilizio da rinaturalizzazione”) e, per quelli ammessi, limitandone comunque in modo puntuale i casi (“gli interventi di cui agli articoli 6 e 7 sono consentiti esclusivamente (..)”).

La norma costituisce la chiara conferma dell’orientamento dell’urbanistica alla massima preservazione delle aree agricole, come argine all’espansione disordinata dell’edificazione e come vero e proprio “polmone verde”, con precipua valenza paesaggistica ed ambientale, in linea (non solo con la “petizione di principio” già contenuta nell’art. 44 comma 1 l.r. n. 11/2004, ma soprattutto) con la legge regionale sul “Consumo del Suolo”.

La compenetrazione tra istanze di sviluppo urbano ed esigenze di tutela dell’ambiente e del paesaggio costituisce, indubbiamente, uno dei profili dinamici di maggiore impegno della futura pianificazione del territorio e l’approccio alla “trasformabilità” (rectius ai limiti di trasformabilità) della zona agricola ne rappresenta il primo ed irrinunciabile presidio.

La norma in commento rafforza consapevolmente tale indirizzo culturale e normativo.

2. L’applicabilità della legge “Veneto 2050” nelle zone agricole: esclusioni

Come innanzi anticipato l’articolo in commento si apre con l’individuazione degli interventi edilizi della legge “Veneto 2050” che non possono essere realizzati in zona agricola (“nelle zone agricole è escluso l’utilizzo del credito edilizio da rinaturalizzazione).

In tal senso, il legislatore regionale chiarisce sin dall’esordio che gli interventi realizzabili in zona agricola non potranno beneficiare dei crediti edilizi da rinaturalizzazione, come definiti dall’art. 2, lett. d), e disciplinati dall’art. 4 della legge regionale n. 14 del 2019.

Si badi che la norma impedisce che i crediti generati vengano utilizzati in zona agricola, ma non esclude (direi, ovviamente) che i crediti possano essere generati per effetto di interventi effettuati in zona agricola, che anzi rappresenta una delle aree maggiormente vocate agli interventi di rinaturalizzazione mediante demolizione degli edifici incongrui.

In altri termini, il divieto espressamente posto dal legislatore regionale è riferito esclusivamente all’utilizzo dei crediti da rinaturalizzazione, ossia al cd. “atterraggio” di siffatti crediti in zona agricola.

In coerenza con siffatta previsione, il Legislatore regionale si premura pertanto di stabilire espressamente, che nelle ipotesi (limitate, v. infra) di interventi di ampliamento e di riqualificazione ammissibili ai sensi della normativa “Veneto 2050” in zona agricola, non si potrà beneficiare dell’incremento di cui all’art. 6, comma 6 né di quello di cui all’art. 7, comma 5, ossia di quelli conseguenti all’utilizzo del credito da rinaturalizzazione.

In linea con tale impostazione e con una rigorosa tendenza al rafforzamento della vocazione “naturalistica” della zona agricola, l’art. 7, comma 7, della legge regionale n. 14/2019 differenzia altresì la disciplina di tale zona omogenea rispetto alle altre zone del territorio con riferimento ai manufatti collocati in zona impropria, consentendone la demolizione e ricostruzione con adeguamento dell’uso solo per quelli collocati in zona diversa da quella agricola; nel mentre, per quelli insistenti in zona agricola, la demolizione potrà dare solo diritto al riconoscimento di un credito da rinaturalizzazione da utilizzare obbligatoriamente in altra zona del territorio comunale che non abbia destinazione agricola.

3. L’applicabilità della legge “Veneto 2050” nelle zone agricole: limiti

Tale rigore conservativo della zona agricola trova conferma anche nella disciplina degli interventi ammessi, ove – a rammentarne l’eccezionalità, mediante l’utilizzo dell’avverbio “esclusivamente” – il Legislatore regionale dispone che gli interventi di cui agli articoli 6 e 7 sono ammessi: a) per la prima casa di abitazione e relative pertinenze; b) in aderenza o sopra elevazione; c) in deroga ai soli parametri edilizi di superficie e volume”.

L’innovazione rispetto alla precedente disciplina del “Piano Casa” è di immediata evidenza, in quanto il legislatore della legge “Veneto 2050” limita le premialità alla “prima casa di abitazione e relative pertinenze”; sicché scompare ogni riferimento ad altri edifici ubicati in zona agricola ed in particolare agli edifici funzionali alla conduzione del fondo (cd. annessi rustici)[1]

Quanto al concetto di prima casa di abitazione anche per le zone agricole il rinvio è chiaramente riferito alla definizione di cui all’art. 2, lett. g) della l.r. n. 14/2019 al cui commento pertanto si rinvia. Aggiungiamo solo che anche per l’edificio prima casa di abitazione e relative pertinenze in zona agricola oggetto degli interventi di ampliamento e riqualificazione, vale la regola per cui deve comunque trattarsi di edifici fisicamente esistenti alla data di entrata in vigore della l.r. n. 14/2019.

La conclusione è imposta anzitutto da ragioni di ordine sistematico, solo si consideri che anche la norma in commento è collocata nel Titolo III avente ad oggetto la “Riqualificazione del patrimonio edilizio esistente”.

Non pare invece necessario che l’edificio esistente debba essere anche già destinato a prima casa di abitazione e ciò lo si desume sia dalla definizione di “prima casa di abitazione” sia dall’impostazione letterale del comma 1, lettera a), dell’articolo 8, laddove accompagna il contenuto dell’intervento (i.e. prima casa di abitazione) con la preposizione “per”, il che suggerisce che per l’applicazione della premialità sia sufficiente la “destinazione finale” dell’edificio esistente (ed oggetto di intervento) a prima casa di abitazione.

Per quanto riguarda il concetto di “relative pertinenze”, esso va correlato rigorosamente alla funzione abitativa e dunque a manufatti a servizio e ornamento dell’abitazione, secondo la definizione isolata dalla copiosa giurisprudenza in materia urbanistica ed edilizia; è invece chiaro che il riferimento alla pertinenza dell’abitazione non possa essere utilizzato per inglobare surrettiziamente ed impropriamente nell’intervento manufatti che, pur aderenti fisicamente all’unità abitativa o insistenti nel medesimo contesto, siano invece pacificamente funzionali all’attività agricola (ad esempio annessi rustici come stalle, fienili, magazzini, etc.), pena la frustrazione della lettera e della chiara ratio della norma, diretta a vincolare le premialità della legge esclusivamente alla prima casa di abitazione.

Il Legislatore regionale ha evidentemente sentito il bisogno di introdurre la precisazione in commento (i.e. “relative pertinenze”) al solo scopo di evitare un’interpretazione eccessivamente restrittiva della nozione “prima casa di abitazione”, consapevole che l’impostazione della norma in commento, strutturata come eccezione alla regola, avrebbe potuto indurre l’interprete ad una aderenza alla lettera eccessivamente rigorosa.

Nessun dubbio, pertanto, che per effetto della puntualizzazione del legislatore regionale in ordine alla tipologia degli edifici che in zona agricola possono essere oggetto degli interventi di cui alla legge regionale n. 14/2019 (i.e. prima casa di abitazione e relative pertinenze), debba concludersi, senza pretese di esaustività della casistica, che gli interventi “premiali” non possano interessare le seconde case, gli annessi rustici, gli agriturismi e gli altri edifici ubicati in zona agricola diversi dalla prima casa di abitazione, che rimarranno dunque normati solamente dalla disciplina “ordinaria”.

Più interessanti sotto il profilo interpretativo sono i due successivi limiti applicativi degli interventi di ampliamento e riqualificazione previsti della legge “Veneto 2050” in zona agricola sub art. 8 c. 1 lett. b) e c).

Si tratta di previsioni che ad una prima lettura paiono del tutto chiare, mentre non mancano alcuni profili di dubbio sul coordinamento delle stesse con gli artt. 6 e 7.

Invero, l’art. 8 precisa al comma 1, lettera b), che gli interventi di cui agli artt. 6 e 7 della l.r. n. 14/2019 in zona agricola aventi ad oggetto la prima casa di abitazione e relative pertinenze devono essere (tassativamente e non in via preferenziale) realizzati solo “in aderenza o sopra elevazione”. Viene invece omesso ogni richiamo alla possibilità – consentita in termini generali dall’art. 6, comma 2, della l.r. n. 14/2019 – di realizzare gli interventi di ampliamento “utilizzando un corpo edilizio già esistente all’interno dello stesso lotto”.

Memori della forte dignità interpretativa che deve essere data al “silenzio” nelle disciplina delle eccezioni (“esclusivamente (…) in aderenza o sopra elevazione”), potrebbe dunque sostenersi che in zona agricola le prime case di abitazione debbano essere ampliate (rectius: anche attraverso la demolizione e ricostruzione), ai sensi del combinato disposto degli artt. 6, 7 e 8 l.r. n. 14/2019, senza poter utilizzare, allo scopo, un corpo edilizio già esistente all’interno dello stesso lotto ed avente destinazione diversa dalla destinazione abitativa, sia esso o meno aderente al corpo di fabbrica destinato all’abitazione.

Una simile interpretazione proverebbe tuttavia davvero troppo, posto che il riutilizzo di volumi esistenti per finalità coerenti con ciò che è ammesso dalla legge – piuttosto che l’edificazione di nuovi – costituisce scelta che semmai rafforza la direzione della legge e la riduzione degli impatti dell’edificazione nella zona agricola.

Ipotizzando infatti di avere in zona agricola una prima casa di abitazione con annessa una stalla, dovrebbe concludersi – aderendo alla lettura formalistica innanzi prospettata – nel senso che l’ampliamento premiale potrebbe essere realizzato in sopraelevazione all’abitazione principale oppure in aderenza, ma mediante la realizzazione di un nuovo corpo (l’ampliamento), risultando invece preclusa la possibilità di utilizzare (rectius: recuperare) il corpo di fabbrica già esistente (ad es. la stalla).

Non pare davvero che sia questa l’intenzione del legislatore e che piuttosto debbano farsi delle opportune distinzioni.

Va anzitutto osservato che, sussistendo la possibilità giuridica di ampliamento di un volume-superficie esistente con una determinata destinazione, se tale ampliamento viene eseguito mediante “sacrificio” di un volume esistente con destinazione diversa, il bilancio del carico urbanistico è positivo (i.e. riduzione del volume complessivo esistente) e deve dunque ritenersi che di regola sia sempre ammesso, anche nel silenzio della norma[2]. La circostanza, poi, che l’ampliamento della superficie abitativa mediante “utilizzo” di volume esistente con diversa destinazione avvenga attraverso una demolizione e successiva ricostruzione del volume residenziale piuttosto che attraverso un recupero del volume esistente da destinare al “nuovo utilizzo”, è circostanza che attiene alla tecnica edificatoria (o al tipo di intervento edilizio) ma non ne toglie la coerenza con il principio succitato.

Ciò posto, pare evidente, ad avviso di chi scrive, che i limiti posti dalla norma in commento riguardino esclusivamente la posizione fisica dell’ampliamento dell’abitazione e che esso possa essere eseguito in aderenza o in sopraelevazione, indipendentemente dalla circostanza (ininfluente) che ciò avvenga utilizzando o meno volumi esistenti aventi altra destinazione.

Di conseguenza, in forza di tale dovrebbero ritenersi esclusi, ai sensi della legge in esame, esclusivamente gli ampliamenti dell’abitazione in corpi mantenuti separati dal corpo principale, anche se dovessero essere realizzati mediante recupero di un corpo edilizio esistente avente diversa destinazione.

La limitazione posta dalla norma – anche ricondotta alla lettura che si ritiene preferibile – non è comunque priva di impatto, considerato che poiché la disposizione si riferisce anche alle pertinenze dell’abitazione, si dovrà escludere (a titolo di esempio) che possa essere ricavato un locale pertinenziale dell’abitazione (ovviamente per l’ampliamento concesso dalla legge in commento) ri-utilizzando un annesso rustico insistente (ad esempio, come spetto accade) nella medesima corte o nel medesimo lotto dell’abitazione ma separato da essa.

Tale ultima scelta, applicata nel concreto, potrebbe talvolta rivelarsi perfino contraria al chiaro obbiettivo di limitare il consumo di suolo (salvo, ovviamente, che l’intervento sia compatibile con lo strumento urbanistico comunale; si vedano tuttavia di seguito le riflessioni sugli interventi ex art. 7 in zona agricola).

In altri termini, pare che il legislatore abbia voluto impedire esclusivamente la terza modalità di ampliamento indicata dall’art. 6, co. 2, ove precisa che “L’ampliamento può essere realizzato in aderenza, in sopraelevazione o utilizzando un corpo edilizio già esistente all’interno dello stesso lotto”, ove per “corpo edilizio esistente all’interno dello stesso lotto” deve intendersi, in contrapposizione alle prime due ipotesi (aderenza o sopraelevazione), “un corpo separato”.

Quanto, poi, alla previsione secondo cui l’ampliamento debba avvenire in aderenza pare non vi siano particolari dubbi interpretativi sul fatto che il legislatore abbia utilizzato il termine non nell’accezione tecnica di cui all’art. 877 c.c., bensì in senso atecnico come sinonimo di continuità fisica, risultando dunque ammessi anche gli ampliamenti in appoggio (oltre a quelli in sopraelevazione espressamente previsti).

Venendo alla lett. c) dell’art. 8 in commento, essa non desta particolari dubbi interpretativi.

Desta, tuttavia, qualche perplessità la previsione secondo cui gli interventi in ampliamento e riqualificazione di edifici esistenti in zona agricola possano essere realizzati unicamente “c) in deroga ai soli parametri edilizi di superficie e volume” ma non anche in deroga al parametro dell’altezza, invece consentita dall’art. 11 della legge in termini sostanzialmente generali nelle altre zone omogenee.

Si tratta invero di una prescrizione che mal si concilia con il precedente limite per cui in zona agricola gli interventi di cui agli artt. 6 e 7 devono avvenire (esclusivamente in aderenza o) “…in sopra elevazione”.

Se, da un lato, appare invero comprensibile la finalità di evitare che vengano realizzate prime case di abitazione in zona agricola sviluppate (eccessivamente) in verticale – in contrasto con le forme dell’architettura rurale tipica delle campagne venete – dall’altro lato sarebbe stato sufficiente inserire un “tetto” all’aumento dell’altezza dell’edificio esistente (sufficiente, ad esempio, alla realizzazione di un piano in più), per evitare il rischio di introdurre un potenziale corto circuito tra modalità rigorosamente imposte per eseguire l’ampliamento e inderogabilità del parametro dell’altezza previsto dalla pianificazione (non essendo rare le prescrizioni di PRG che in zona agricola limitano, direttamente o indirettamente, quale effetto della tipologia di interventi ammessi, l’altezza massima degli edifici a quella esistente).

I limiti all’edificazione in zona agricola posti dall’art. 8 meritano quale ulteriore breve riflessione specificamente in relazione agli interventi previsti dall’art. 7.

Tale disposizione, invero, essendo finalizzata alla promozione della riqualificazione del tessuto edilizio, ammette interventi sostanzialmente coincidenti con la “ristrutturazione urbanistica”, essendo ivi promossi interventi di sostituzione, rinnovamento e densificazione del patrimonio edilizio, con conseguenti accorpamenti e riorganizzazioni dei volumi esistenti e “premiali” (v. amplius commento art. 7).

Ci si chiede, pertanto, come vadano coordinate le prescrizioni dell’art. 8, co.1 lettere b) e c) con la facoltà, prevista dalla stessa norma, di realizzare in zona agricola anche gli interventi di “riqualificazione del tessuto edilizio” ex art. 7.

Rilevo anzitutto che, salvo diversa prescrizione impeditiva prevista dal PRG, deve ritenersi pacificamente ammessa la demolizione integrale e la ricostruzione dell’edificio esistente con lo sfruttamento dei benefici ammessi dall’art. 7 cit., considerato che la prescrizione secondo la quale la volumetria premiale va realizzata “in aderenza o sopra elevazione”, non è incompatibile con tale tipologia di intervento.

Il profilo di maggiore problematicità riguarda semmai la realizzabilità di interventi demolizione integrale, accorpamento o comunque redistribuzione degli edifici esistenti all’interno lotto, considerato che tale intervento parrebbe, ad una prima lettura, confliggere con il limite imposto dall’art. 8, co. 1 lett. b) [i.e. sono ammessi interventi “esclusivamente in aderenza o sopraelevazione”], che pare escludere che il volume venga ricomposto altrove rispetto alla posizione ove l’edificio esistente è situato e magari accorpato ad altri volumi ugualmente demoliti.

Pare a chi scrive che la corretta lettura deve tenere a mente che qualora un intervento di riorganizzazione dei volumi insistenti nel lotto sia compatibile con il PRG esso può (deve?) essere eseguito e la presente legge ne incentiva la realizzazione con la premialità volumetrica, in termini generali e di principio.

Pertanto, qualora il suddetto intervento sia astrattamente realizzabile perché compatibile con la disciplina urbanistica della zona agricola, esso potrà essere ovviamente realizzato godendo degli incentivi premiali previsti dall’art. 7.

Si ritiene, tuttavia, che in tal caso non possa applicarsi il limite indicato all’art. 8, co. 1 lett. b), il cui tenore letterale deve far preferire la lettura secondo cui trattasi di limite riguardante esclusivamente gli interventi di ampliamento previsti dall’art. 6 e non quelli di ricomposizione volumetrica, mediante demolizione integrale e ricostruzione, ex art. 7.

Una diversa interpretazione disincentiverebbe (invece che incentivarli) gli interventi di radicale rinnovamento del patrimonio edilizio anche in zona agricola, non consentendo proprio a tali interventi, maggiormente virtuosi nell’ottica della legge, di beneficiare della premialità prevista.

4. Interventi da legge “Veneto 2050” e ampliamento ex art. 44, co. 5, l.r. n. 11/2004

Alla luce delle considerazioni su esposte appare evidente come la nuova normativa “Veneto 2050” con riferimento gli interventi realizzabili su edifici esistenti ubicati in zona agricola, abbia perso gran parte della portata derogatoria che aveva la precedente normativa del “Piano Casa” rispetto alla disciplina a regime dettata dall’art. 44, comma 5, della l.r. n. 11/2004.

La limitazione alla deroga ai soli parametri di superficie e volume nonché la limitazione degli interventi premiali alla sola destinazione residenziale prima casa, riconduce per il resto l’esecutore al necessario rispetto delle norme contenute all’art. 44 della l.r. n. 11/2004 e in particolare al comma 5 di tale norma.

A tale proposito, pare utile rammentare che, per effetto della nuova formulazione dell’art. 44, co. 5 introdotta dall’art. 34, co. 1, della legge regionale n. 3/2013, così come chiarita dalla circolare regionale n. 96 del 12 novembre 2013, l’ampliamento fino a 800 metri cubi delle case di abitazione è stato ammesso anche per gli “edifici da destinarsi a case di abitazione”; esso tuttavia è consentito “purché la destinazione abitative sia consentita dallo strumento urbanistico generale”, poiché spetta l’art. 43 assegna al PAT il compito di fissare le modalità di intervento per il recupero degli edifici esistenti (comma 1, lett. b), e attribuisce al PI di individuare “le destinazioni d’uso delle costruzioni esistenti non più funzionali alle esigenze dell’azienda agricola” (comma 2, lett. d).

Conseguentemente, anche l’esecuzione degli interventi oggetto della presente legge, quando interessino edifici che non siano già destinati ad abitazione (ma che debbano esserlo per effetto dell’intervento eseguito in zona agricola in forza del combinato disposto degli artt. 8 e 6-7 della legge “Veneto 2050”), presuppongono che la modifica della destinazione d’uso di detti edifici sia consentita dallo strumento urbanistico generale, dovendo ritenersi altrimenti precluso il cambio di destinazione.

Va osservato, inoltre, che, in termini finanche più rigorosi dell’art. 44, comma 5, l’ampliamento della legge “Veneto 2050” in zona agricola è consentito solo per le prime case di abitazione, nel mentre l’ampliamento della norma ordinaria lo consente per tutte le case da destinare ad abitazione (quindi anche alle seconde case).

Peraltro, è venuta meno la previsione che consente il calcolo della premialità sulla volumetria massima ammessa dalla disciplina urbanistica vigente; sicché anche per la zona agricola risulta ora applicata la previsione secondo cui la quantificazione della premialità debba avvenire tenendo conto del volume dell’edificio esistente e non della volumetria massima consentita dalla normativa vigente.

Resta comunque fermo che gli incrementi di volume e comunque gli ampliamenti consentiti dalla legge regionale 11/2014 e dalla legge “Veneto 2050”, concorrono e si cumulano, nei termini previsti dall’art. 11, co. 3, della legge in commento, che chiarisce in termini generali che “Gli interventi di cui agli articolo 6 e 7 sono consentiti a condizione che la capacità edificatoria, riconosciuta dallo strumento urbanistico comunale o dalle normative per l’edificazione in zona agricola, sia stata previamente utilizzata; tale capacità edificatoria può essere utilizzata anche contestualmente agli interventi del comma 1, che possono essere realizzati in più fasi, fino agli incrementi volumetrici o di superficie previsti”.

Da ultimo, così come previsto per gli ampliamenti ex art. 44, co. 5, della legge regionale n. 11 del 2004, anche gli interventi di cui agli artt. 6 e 7 della l.r. 14/2019 (riferiti tuttavia alla prima casa di abitazione in zona agricola) potranno essere realizzati anche da chi non sia in possesso dei requisiti soggettivi di imprenditore agricolo e del piano aziendale di cui all’art. 44, l.r. n. 11/2004, come esplicitato dal secondo comma dell’art. 8 in commento.

5. Considerazioni finali

La legge in commento ha inteso tracciare, in termini molto più marcati che nel passato, la differenza tra la zona agricola e le rimanenti zone del territorio, sottolineando come la prima debba essere oggetto di necessaria preservazione dall’edificazione ed invece strumento pianificatorio di delicato bilanciamento ambientale e naturalistico del territorio. La regola è nessuna premialità edificatoria in zona agricola rispetto alla disciplina ordinaria. Il legislatore ha derogato a tale principio esclusivamente per la prima casa di abitazione – che pur gode già di forme di premialità nella disciplina urbanistica ordinaria – e tenuto conto della obsolescenza del tessuto residenziale in zona agricola e della onerosità degli interventi di adeguamento agli attuali standards (sia delle vecchie case rurali sia delle abitazioni costruite nella seconda metà del secolo scorso beneficiando della legislazione regionale succedutesi) la deroga appare ragionevole e potenzialmente virtuosa.

Si auspica, tuttavia, che, nell’obbiettivo di rafforzamento della direzione sopra descritta, la zona agricola divenga principalmente zona produttrice di crediti edilizi da rinaturalizzazione mediante demolizione di manufatti incongrui e ritengo che in tal senso potrebbe svolgere un ruolo di acceleratore sia la disciplina dei crediti che dovrà approvare la Giunta regionale ai sensi dell’art. 4, co. 1 della legge sia (ma forse soprattutto) la variante comunale prescritta dal comma 2 del medesimo articolo.

Pensare ad una maggiore premialità conseguente alla demolizione dei manufatti incongrui collocati in zona agricola (piuttosto che una equazione 1=1) e perfino ad una maggiore ampiezza di aree di atterraggio e destinazioni d’uso possibili per i crediti così prodotti rispetto a quelli prodotti in altre zone – attribuendo dunque ai “crediti da zona agricola” un “fattore leva” ed una migliore liquidabilità – costituirebbe l’opportuno “incentivo nell’incentivo” alla restituzione delle aree alla loro vocazione ambientale e naturalistica.

È necessario che gli enti, prima di decidere, acquisiscano consapevolezza degli strumenti che la legge fornisce in tale direzione e li utilizzino nella loro piena potenzialità.

[1] Rammentiamo che l’articolo 3 bis della legge regionale n. 14 del 2009, introdotto dalla legge regionale n. 32 del 2013, aveva fugato ogni dubbio sull’applicabilità delle premialità del “Piano Casa” agli annessi rustici, precisando al comma 1 che “Nelle zone agricole gli interventi di cui agli articoli 2 e 3 sono consentiti limitatamente agli edifici a destinazione residenziale e a quelli funzionalmente destinati alla conduzione del fondo agricolo”.

[2] Salvo ovviamente il caso in cui il volume “da sacrificare” debba essere mantenuto all’uso originario in forza di una norma di PRG o di un vincolo culturale.

Commento all’art. 7 l.r. n. 14/2019

di Giulio Vidali, Federico Pugina e Massimo Cavazzana

Articolo 7
Interventi di riqualificazione del tessuto edilizio
1. Sono consentiti interventi di riqualificazione, sostituzione, rinnovamento e densificazione del patrimonio edilizio esistente alla data di entrata in vigore della presente legge, mediante integrale demolizione e ricostruzione degli edifici che necessitano di essere adeguati agli attuali standard qualitativi, architettonici, energetici, tecnologici e di sicurezza, nonché a tutela delle disabilità, con incremento fino al 25 per cento del volume o della superficie esistente in presenza delle seguenti condizioni:
a) che per la ricostruzione vengano utilizzate tecniche costruttive che consentano di certificare la prestazione energetica dell’edificio almeno alla corrispondente classe A1;
b) che vengano utilizzate tecnologie che prevedono l’uso di fonti di energia rinnovabile con una potenza incrementata di almeno il 10 per cento rispetto al valore obbligatorio ai sensi dell’Allegato 3 del decreto legislativo n. 28 del 2011.
2. La percentuale di cui al comma 1 è elevata fino a un ulteriore 35 per cento, con le modalità stabilite dall’allegato A, in funzione della presenza di uno o più dei seguenti elementi di riqualificazione dell’edificio e della sua destinazione d’uso residenziale o non residenziale:
a) eliminazione delle barriere architettoniche di cui alle lettere a), b) e c), del comma 1, dell’articolo 7, della legge regionale 12 luglio 2007, n. 16;
b) prestazione energetica dell’intero edificio corrispondente alla classe A4;
c) utilizzo di materiali di recupero;
d) utilizzo di coperture a verde;
e) realizzazione di pareti ventilate;
f) isolamento acustico;
g) adozione di sistemi per il recupero dell’acqua piovana;
h) utilizzo del BIM (Building Information Modeling) e/o del BACS (Building Automation Control System) nella progettazione dell’intervento;
i) rimozione e smaltimento di elementi in cemento amianto.
3. Le percentuali di cui ai commi 1 e 2 non possono comportare complessivamente un aumento superiore al 60 per cento del volume o della superficie dell’edificio esistente.
4. Per promuovere l’efficientamento energetico, fino al 31 dicembre 2021, gli interventi di cui al presente articolo che garantiscono la prestazione energetica dell’intero edificio corrispondente alla classe A4, possono usufruire di un ulteriore incremento del 20 per cento del volume o della superficie dell’edificio esistente; in tale caso è conseguentemente incrementata la percentuale in aumento prevista al comma 3.
5. Le percentuali di cui ai commi 1 e 2 possono essere elevate fino al 100 per cento in caso di utilizzo, parziale od esclusivo, dei crediti edilizi da rinaturalizzazione.
6. Trascorsi quattro mesi dalla scadenza del termine ultimo previsto per l’approvazione della variante urbanistica di cui al comma 2, dell’articolo 4, la percentuale di cui al comma 1 è ridotta al 15 per cento qualora non sia utilizzato credito edilizio da rinaturalizzazione nella misura almeno del 10 per cento, laddove esistente. Sono fatti salvi i procedimenti in corso per i quali, alla medesima data, siano già state presentate la segnalazione certificata di inizio lavori o la richiesta del permesso di costruire.
7. Gli interventi di cui al presente articolo sono consentiti purché gli edifici siano situati in zona territoriale omogenea propria. Qualora l’edificio da demolire si trovi in zona impropria, purché diversa dalla zona agricola, il comune può autorizzare il cambio di destinazione d’uso per l’edificio ricostruito, a condizione che la nuova destinazione sia consentita dalla disciplina edilizia di zona.

(1) L’art. 1 della legge regionale 30 dicembre 2020 n. 43, pubblicata sul BUR Veneto n. 205 del 31 dicembre 2020 ha disposto la proroga al 31 dicembre 2021 del termine originariamente fissato.

Sommario: 1. Inquadramento sistematico e finalità2. Le premialità: presupposti2.1. (segue) incrementi e limiti2.2. (segue) efficientamento energetico. – 3. I crediti edilizi da rinaturalizzazione (CER). Incentivi e premialità.4. Zona territoriale omogenea propria5. Interventi di riconversione funzionale

1. Inquadramento sistematico e finalità

“Veneto 2050”, sulla scia della l.r. n. 14/2017, intende favorire ed incentivare gli interventi edilizi di riqualificazione, sostituzione, rinnovamento e ricostruzione all’interno degli ambiti di urbanizzazione consolidata (salvo quanto previsto dall’art. 8 per le zone agricole). La finalità della norma è evidente: eliminare i fabbricati obsoleti, scarsamente utilizzati e dagli elevati consumi energetici. Per stimolare l’esecuzione di questi interventi sono state previste significative premialità che possono arrivare sino al 100% del volume o della superficie esistente.

La disposizione in commento richiama il contenuto e le finalità del previgente art. 3 l.r. n. 14/2009 (cd. “Piano Casa”). L’analogia è evidente. Vi sono tuttavia significative differenze. In primo luogo, non si tratta più di norma temporanea di carattere economico-finanziario. Il “Piano Casa”, come è noto, era stato introdotto e poi prorogato (da ultimo, sino al 31.03.2019) allo scopo di far fronte e contrastare la gravissima crisi economica abbattutasi sull’Italia e sul Veneto a partire dal 2009, la quale, peraltro, aveva colpito molto duramente il comparto dell’edilizia, settore strategico per il Paese. “Veneto 2050”, invece, è una norma “a regime” che si inserisce nell’ambito delle finalità di contenimento del consumo di suolo e di rigenerazione e riqualificazione del patrimonio immobiliare. Essa, dunque, è una disposizione concernente essenzialmente con il governo del territorio.

In secondo luogo, deve rilevarsi che l’art. 7 ha un ambito di applicazione più ampio rispetto al previgente art. 3: dal “rinnovamento del patrimonio edilizio esistente” si è passati alla “riqualificazione del tessuto edilizio esistente”. Gli interventi di “riqualificazione”, dunque, non sono più limitati ai soli edifici esistenti, potendo ricomprendere anche interventi più ampi fino ad interessare porzioni del “tessuto edilizio esistente”. L’art. 7 sembra dunque costituire una sorta di “ponte” con le finalità perseguite dall’art. 6 l.r. n. 14/2017 concernente gli interventi di riqualificazione negli ambiti urbani degradati[1].

L’art. 7 contempla anche ulteriori finalità rispetto al previgente art. 3: alla necessità di adeguare gli edifici esistenti agli standard qualitativi, architettonici, energetici, tecnologici e di sicurezza è stata opportunamente aggiunta anche la “tutela della disabilità[2].

Interessante poi il riferimento alla “densificazione”. Si tratta, peraltro, di uno degli strumenti incentivati anche dalla già citata l.r. n. 14/2017 nell’ottica di ridurre il consumo di suolo. Gli “interventi di riqualificazione del tessuto edilizio” potranno quindi prevedere la demolizione di più fabbricati e la ricostruzione di un unico edificio che, verosimilmente, potrebbero svilupparsi in altezza. Coerentemente con tali indirizzi, è stata prevista la possibilità di derogare alle altezze (cfr. art. 11, co. 1, v. infra).

L’elemento di maggiore novità riguarda in ogni caso l’introduzione dei crediti edilizi da rinaturalizzazione (CER) e la possibilità di utilizzare tali crediti per elevare le percentuali di incremento riconosciute, in via ordinaria, dalla legge.

Per quanto riguarda la struttura della norma, si è passati da un sistema rigido che prevedeva sostanzialmente due condizioni per poter beneficiare dei bonus (la prestazione energetica in classe A ovvero l’edilizia sostenibile), ad un meccanismo maggiormente flessibile, con attribuzione di diverse e distinte premialità, al ricorrere di una o più delle condizioni previste dai diversi commi della norma in commento. Meccanismo maggiormente flessibile, ma comunque molto esigente, come si vedrà nel prosieguo del commento.

Sotto il profilo strettamente edilizio, l’art. 7 – così come il previgente art. 3 – si riferisce espressamente agli interventi di demolizione e ricostruzione. La norma sembra dunque riferirsi alla “ristrutturazione edilizia” cd. “pesante” di cui all’art. 3, comma 1, lett. d), d.P.R. n. 380/2001[3] A ben vedere, tuttavia, la ricostruzione degli edifici – potendo beneficiare di incrementi sino al 100% della volumetria o della superficie esistente nonché potendo essere localizzata su un’area di sedime completamente diversa da quella del fabbricato preesistente – rientrerà per lo più nell’ambito delle “nuove costruzioni” ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. e), d.P.R. n. 380/2001, con tutte le conseguenze di legge, ivi compresi, in particolare, gli obblighi in materia di distanze legali. Tale circostanza, peraltro, potrebbe rappresentare un ostacolo (ineludibile) all’esecuzione degli “interventi di riqualificazione del tessuto edilizio”, visto che questi interventi riguarderanno (verosimilmente) ambiti già densamente urbanizzati.

Recentemente, peraltro, il decreto-legge “sblocca-cantieri” (d.l. n. 32 del 18.04.2019) ha introdotto il comma 1ter all’art. 2bis d.P.R. n. 380/2001, secondo cui: “in ogni caso di intervento di demolizione e ricostruzione, quest’ultima è comunque consentita nel rispetto delle distanze preesistenti purché sia effettuata assicurando la coincidenza dell’area di sedime e del volume dell’edificio ricostruito con quello demolito”. Ciò significa che in tutte le altre ipotesi sarà necessario rispettare le distanze prescritte dalla legge o dagli strumenti urbanistici comunali.

Si ritengono comunque ammissibili anche gli interventi di “ristrutturazione urbanistica” di cui all’art. 3, comma 1, lett. f), d.P.R. n. 380/2001, ancorché si tratti di una tipologia di intervento diretto poco utilizzato nella pratica, in quanto quasi mai ammesso dagli strumenti urbanistici comunali.

2. Le premialità: presupposti

La norma in commento incentiva la demolizione e ricostruzione degli edifici esistenti che necessitano di essere adeguati agli attuali standard qualitativi, architettonici, energetici, tecnologici di sicurezza e di tutela della disabilità, mediante il riconoscimento di incrementi di superficie o volume.

In primo luogo, appare opportuno soffermarsi sulla nozione di “patrimonio edilizio esistente”, presupposto applicativo comune anche agli interventi previsti dall’art. 6, al cui commento si rinvia.

L’originario testo di legge non prevedeva alcun riferimento temporale alla necessaria “preesistenza” degli edifici. Se ne poteva quindi dedurre una sorta di spinta “liberalizzatrice” finalizzata ad abilitare gli “interventi di riqualificazione del tessuto edilizio” (ed i relativi bonus volumetrici) a tutti gli edifici, anche a quelli realizzati dopo l’entrata in vigore della legge (sempre che, ovviamente, ne sussistessero i presupposti tecnici fissati dal primo comma della disposizione in esame). In questo senso, quindi, l’“esistenza” si sarebbe valutata esclusivamente all’atto di presentazione del titolo edilizio, a prescindere dal fatto che l’edificio fosse o meno esistente alla data di entrata in vigore della legge.

Questa impostazione, tuttavia, non appariva coerente con le finalità perseguite, più in generale, da “Veneto 2050”. In effetti, l’art. 7 è finalizzato ad incentivare la “riqualificazione, sostituzione, rinnovamento e densificazione del patrimonio edilizio esistente” che necessita di essere adeguato agli standard qualitativi, architettonici, energetici, tecnologici e di sicurezza nonché a tutela della disabilità. Tanto più se si considerata che l’art. 7 è inserito nel Titolo III della legge “riqualificazione del patrimonio edilizio esistente”, nel quale sono ricompresi e disciplinati diversi interventi che sembrano presupporre tutti la preesistenza degli edifici oggetto di intervento e la necessità di incentivare e stimolare l’esecuzione di interventi di recupero e di efficientamento energetico.

L’ambiguità della norma si prestava a diverse interpretazioni, alcune delle quali avrebbero di fatto comportato la sostanziale obliterazione delle finalità perseguite da “Veneto 2050”.

Si era quindi avvertita la necessità di un intervento chiarificatore del Legislatore. Intervento che si concretizzato con la l.r. n. 29 del 25 luglio 2019, la quale ha introdotto, analogamente a quanto prevedeva la previgente l.r. n. 14/2009, un riferimento temporale alla “preesistenza” degli edifici: il patrimonio edilizio deve essere esistente “alla data di entrata in vigore della presente legge”, ossia al 6 aprile 2019.

La novella normativa ha quindi fissato un limite temporale chiaro ed univoco.

Qualche dubbio residua invece in ordine alla dizione “patrimonio edilizio esistente”, visto che la legge in commento non fornisce alcuna definizione sul punto. Di regola, per “patrimonio edilizio esistente” si intendono genericamente i beni immobili esistenti. Nella specie, appare maggiormente corretto ritenere che tale dizione si riferisca ad un complesso, più o meno ampio, a seconda delle circostanze, di corpi edilizi che presentino quelle caratteristiche costruttive minime – quali le strutture portanti e la copertura[4] – tali da poter qualificare “edifici” i singoli fabbricati esistenti.

Tale impostazione trova ora conferma all’art. 6 che precede. Invero, la l.r. n. 29 del 25 luglio 2019, ha precisato che per “edifici esistenti” si intendono gli “edifici caratterizzati [..] dalla presenza delle strutture portanti e dalla copertura”. Pertanto, è corretto ritenere che il “patrimonio edilizio esistente” non è altro che l’insieme di edifici esistenti, così come definiti al vigente art. 6 che precede.

Risultano quindi superate anche le incertezze interpretative emerse in sede di prima lettura della norma in commento con riferimento ai cosiddetti “ruderi”[5], ai quali, dunque, non potranno applicarsi gli interventi previsti dall’art. 7.

Analogamente, gli “edifici demoliti” o in fase di demolizione non potranno beneficiare di questa norma, atteso che nell’art. 7 – diversamente da quanto prevedeva il previgente art. 3 l.r. n. 14/2009 – non vi è più alcun riferimento a questa ipotesi speciale e derogatoria rispetto la fattispecie generale.

La legge non richiede espressamente l’agibilità degli “edifici”. Appare quindi confermata l’impostazione del previgente “Piano casa”, secondo cui non era necessaria l’agibilità degli edifici oggetto di intervento. Invero, la Circolare regionale n. 1/2014 aveva precisato testualmente che l’agibilità degli edifici non era necessaria.

In ogni caso, mette conto evidenziare che gli edifici esistenti oggetto di “interventi di riqualificazione del tessuto edilizio” dovranno risultare legittimi sotto il profilo edilizio (si rinvia, per un maggiore approfondimento sul punto, al commento relativo al precedente art. 3, co. 4, lett. d).

Sotto un diverso profilo, deve evidenziarsi che la norma in commento stabilisce testualmente che la demolizione deve essere integrale. Per la verità non si tratta di una novità assoluta, considerato che il testo originario dell’art. 3, comma 2, l.r. n. 14/2009 prescriveva, per l’appunto, la demolizione integrale degli edifici oggetto di intervento. Requisito poi stralciato dalla l.r. n. 13/2011 (cd. “Secondo Piano Casa”), in quanto ritenuto eccessivamente rigido. All’epoca, infatti, il requisito della demolizione integrale era stato ritenuto uno dei principali ostacoli all’applicazione degli interventi previsti dall’art. 3. Tanto è vero che anche la l.r. n. 32/2013 (cd. “Terzo Piano Casa”) aveva mantenuto inalterate le previsioni sul punto introdotte dalla l.r. n. 13/2011.

Ad oggi, dunque, che gli “interventi di riqualificazione del tessuto edilizio” sono ammissibili a condizione che si preveda la demolizione integrale degli edifici esistenti oggetto di intervento. Tale disposizione appare tuttavia eccessivamente rigida. Tanto più se si considera che detti interventi non si limitano ai singoli lotti di pertinenza degli edifici, ma possono estendersi anche a più ampi ambiti territoriali che (verosimilmente) saranno occupati da più edifici: in questa ipotesi non remota non è affatto detto che tutti gli edifici esistenti debbano per forza essere integralmente demoliti.

2.1. (segue) incrementi e limiti

Il primo comma della norma in commento attribuisce un incremento del 25% di volume o superficie esistente nell’ipotesi in cui si adottino particolari tecnologie nella ricostruzione dei fabbricati. In particolare, sono previsti due distinti presupposti (o, come dice la norma, due “condizioni”) per poter beneficiare di tali bonus.

Per prima cosa, viene da chiedersi se tali condizioni debbano sussistere congiuntamente o se, invece, possano essere considerate come alternative.

Si ritiene che debbano sussistere entrambe congiuntamente. Tale conclusione è infatti maggiormente coerente con lo scarno dettato normativo, il quale, utilizzando la forma plurale, sembra proprio voler imporre la presenza congiunta di entrambe le condizioni (“in presenza delle seguenti condizioni”). A maggior ragione se si considera che quando la legge ha inteso ammettere l’alternatività dei presupposti lo ha detto espressamente: il secondo comma, infatti, attribuisce l’ulteriore bonus in presenza “di uno o più dei seguenti elementi”.

L’edificio ricostruito dovrà quindi ottenere (a) la classificazione energetica A1) nonché dovrà essere dotato di (b) sistemi per la produzione di energia rinnovabile in misura superiore a quanto previsto per legge.

Desta qualche perplessità l’applicazione della condizione sub a) ai fabbricati non residenziali. In effetti, appare eccessivamente gravoso imporre la classificazione energetica A1) per tutti i locali che compongono gli edifici non residenziali. Si pensi, ad esempio, ai locali destinati alla produzione di un insediamento industriale. Appare quindi maggiormente ragionevole interpretare questa disposizione alla luce delle indicazioni (maggiormente precise) contenute nel precedente art. 6, comma 1, lett. a), secondo cui le “caratteristiche costruttive siano tali da garantire la prestazione energetica, relativamente ai soli locali soggetti alle prescrizioni in materia di contenimento del consumo energetico ai sensi del decreto legislativo 19 agosto 2005, n. 192 “Attuazione della direttiva 2002/91/CE relativa al rendimento energetico nell’edilizia” [..]”. In questo modo, dunque, si potrebbe limitare l’obbligo di utilizzare tecniche costruttive che consentano di ottenere una classificazione energetica A1), ai soli locali per i quali il d.lgs. n. 192/2005 impone particolari prescrizioni per ottenere la classificazione energetica A1). Si tratta di un’interpretazione ragionevole, finalizzata a superare (verosimilmente) una semplice mancanza di coordinamento del testo di legge.

Sarà in ogni caso opportuno che vengano forniti dei chiarimenti interpretativi sul punto, anche al fine di non rendere eccessivamente onerosi gli interventi sugli edifici non residenziali (con il rischio di paralizzare l’applicazione della norma in commento).

In secondo luogo, deve chiedersi se vi sia la necessità di dare conto delle ragioni che giustificano, sotto il profilo tecnico, l’esecuzione degli “interventi di riqualificazione del tessuto edilizio”. L’art. 7, invero, ammette la demolizione integrale e la ricostruzione degli edifici che “necessitano di essere adeguati agli standard qualitativi, architettonici, energetici, tecnologici e di sicurezza, nonché a tutela delle disabilità”. Si ritiene pertanto che gli “interventi di riqualificazione del tessuto edilizio” siano ammissibili a condizione che vi sia la effettiva necessità di apportare i sopradescritti adeguamenti. Ciò significa che nella relazione tecnica illustrativa allegata alla SCIA o al Permesso di Costruire dovrà darsi conto che l’edificio esistente non può essere adeguato mediante una semplice ristrutturazione edilizia ma deve essere integralmente demolito e ricostruito. Viene dunque demandato ai progettisti l’onere di verificare preliminarmente la condizione in cui versa l’edificio esistente. Verifica che spetterà poi anche agli Uffici tecnici comunali in sede di rilascio del titolo edilizio. A prima vista, tale previsione sembra un poco in contraddizione con lo spirito di “Veneto 2050” volto a stimolare ed incentivare la rigenerazione del tessuto edilizio. A ben vedere, invece, ne coglie in pieno lo spirito di proporzionalità della legge, improntata, in un’ottica di economia circolare, al recupero di ciò che è recuperabile ed alla sostituzione di ciò che invece non è più recuperabile.

Il secondo comma della disposizione in esame prevede poi che la percentuale del 25% prevista dal primo comma “possa essere aumentata fino ad un ulteriore 35%”. In altri termini, la percentuale di incremento prevista dal primo comma può essere aumentata dal 25% sino ad un massimo del 60 % (25% + 35%=60%), qualora ricorrano uno o più degli elementi elencati al secondo comma e disciplinati all’allegato A) cui si rinvia per una più approfondita analisi.

Il terzo comma della disposizione in esame rappresenta una sorta di norma di “chiusura”. Il Legislatore regionale ha infatti ritenuto necessario precisare che le percentuali massime di incremento previste al primo comma (25%) e al secondo comma (35%) non possono, congiuntamente, superare la soglia del 60%, salvo le deroghe di seguito descritte.

2.2. (segue) efficientamento energetico

La percentuale del 60% non rappresenta infatti la soglia “limite”. Invero, il quarto comma della disposizione in esame consente, un ulteriore incremento del 20% del volume o della superficie del fabbricato esistente (e demolito) nell’ipotesi in cui l’intervento di ricostruzione garantisca la presentazione energetica, per l’intero edificio, corrispondente alla classe A4).

La ratio è intuitiva: promuovere l’efficientamento energetico nell’ottica di contenere i consumi e, conseguentemente, dell’inquinamento prodotto dai sistemi di riscaldamento/raffrescamento.

Si ritiene che l’ulteriore incremento del 20% possa applicarsi anche solo agli interventi previsti dal primo comma (25%), per un incremento complessivo pari al 45%. Nulla vieta, ovviamente, che questo bonus 20% possa applicarsi congiuntamente alle ipotesi descritte dal primo e dal secondo comma. In questa ipotesi, dunque, l’incremento massimo ammesso sarà pari all’80% del volume o delle superfici esistenti, potendo quindi derogare il limite del 60% fissato dal comma 3.

Questa ulteriore premialità è solo temporanea. Essa, invero, potrà applicarsi solamente fino al 31.12.2020. Tale previsione risulta coerente con la volontà del legislatore Veneto di stimolare e incentivare l’uso dei CER, che (verosimilmente) saranno effettivamente disponibili dopo tale termine (cfr. v. infra).

Peraltro, considerato l’art. 5bis d.lgs. n. 192/2005, così come modificato dalla l. n. 90/2013 che ha dato attuazione alla Direttiva 2010/31/UE, prevede che entro il 31 dicembre 2020 tutti gli edifici di nuova costruzione (e quindi anche quelli oggetto di ricostruzione) dovranno essere “edifici a energia quasi zero”, sarebbe poco ragionevole mantenere oltre tale data una premialità per un intervento prescritto, in parte, dalla stessa legge.

3. I crediti edilizi da rinaturalizzazione (CER). Incentivi e premialità

“Veneto 2050” intende incentivare l’utilizzo dei CER negli “interventi di riqualificazione del tessuto edilizio”, quale strumento per promuovere e favorire la demolizione dei manufatti incongrui e la successiva rinaturalizzazione dei suoli[6].

Lo scopo della norma è quello di (ri)lanciare l’uso dei crediti edilizi, coniugandoli con operazioni di rinaturalizzazione del territorio, da realizzarsi attraverso la completa demolizione dei manufatti incongrui e la successiva rinaturalizzazione del suolo (con ripristino delle condizioni di permeabilità).

A tale scopo, il sesto comma della disposizione in esame prevede significative premialità proprio in relazione all’uso dei CER: è previsto, infatti, un incremento sino al 100% delle premialità previste dal primo comma (25%) e dal secondo comma (35%).

La norma, inoltre, ammette l’utilizzo “parziale o esclusivo” dei CER. Ciò significa che i CER possono essere utilizzati “parzialmente” o “esclusivamente” con gli altri bonus attribuiti dalla legge sino a raggiungere l’incremento del 100%. È in ogni caso fermo l’obbligo (inderogabile) di utilizzare (quantomeno) l’incremento previsto dal primo comma (adempiendo le relative condizioni). A tal riguardo, infatti, si ritiene che le premialità connesse all’uso dei CER possano applicarsi anche con esclusivo riferimento alla fattispecie prevista dal primo comma (25%) sino ad arrivare al 100% del volume o della superficie dell’edificio esistente (e demolito), con un aumento massimo assentitile grazie ai CER pari al 75 %.

Oltre alle premialità, la disposizione in commento introduce anche una “penalità” nell’ipotesi in cui detti crediti non vegano utilizzati. Segnatamente, il sesto comma impone la riduzione del 10% della percentuale di incremento prevista al primo comma – che, quindi, passa dal 25% al 15% – qualora non vengano utilizzati CER in misura di almeno il 10%.

Preliminarmente, giova evidenziare che questa riduzione non è immediatamente operativa. La riduzione sopradescritta troverà applicazione solamente “trascorsi quattro mesi dalla scadenza del termine ultimo previsto per l’approvazione della variante urbanistica di cui al comma 2, dell’articolo 4”. Il citato quarto comma dell’art. 2 prevede infatti che “entro dodici mesi dall’adozione del provvedimento della Giunta regionale di cui al comma 1, e successivamente con cadenza annuale, i comuni approvano […] una variante al proprio strumento urbanistico”. Provvedimento di Giunta che – a mente del comma primo della stessa disposizione – dovrà essere adottato (e pubblicato sul B.U.R.) entro il termine di quattro mesi dall’entrata in vigore di Veneto 2050.

La “penalità” sarà quindi operativa solo dopo che siano trascorsi 4 mesi dal termine ultimo fissato dalla legge per l’approvazione della predetta variante urbanistica (12 mesi): l’eventuale approvazione della variante urbanistica prima del termine ultimo previsto dalla legge non anticiperà comunque l’applicazione della penalità prevista dal sesto comma, in quanto il legislatore ha inteso fissare un termine “fisso” e unico per tutto il territorio regionale.

La l.r. n. 29 del 25 luglio 2019 ha correttamente eliminato il riferimento all’“adozione” della variante urbanistica, presente nel testo di legge originario, considerato che il succitato art. 4 si riferisce espressamente all’approvazione della variante urbanistica e il riferimento alla “adozione” appariva privo di un effettivo significato.

Ciò posto, mette conto evidenziare che l’operatività della “penalità” presuppone, in ogni caso, l’esistenza concreta di CER e la loro effettiva iscrizione al RECRED. Si noti bene: si fa riferimento espressamente ai crediti edilizi da rinaturalizzazione e non, più in generale, ai crediti edilizi “classici”, ossia a quelli già riconosciuti ex art. 36 l.r. n. 11/2004 (ciò, ovviamente, salva diversa indicazione nel provvedimento di Giunta ex art. 4).

La disposizione in commento, ancorché laconica, è chiarissima sul punto. La ratio è peraltro evidente: la riduzione della premialità non ha carattere sanzionatorio bensì rappresenta uno strumento per incentivare e favorire l’utilizzo dei CER.

Le conseguenze pratiche dell’inciso “laddove esistente” sono facilmente intuibili se si considera che l’attribuzione in concreto di CER da parte dei Comuni e la loro successiva iscrizione nel RECRED non avrà (verosimilmente) tempi brevi.

Invero, oltre all’approvazione della variante urbanistica di cui al comma 2 dell’art. 4 (previo esperimento della procedura di cui al comma 3 dello stesso art. 4), sarà poi necessario procedere al loro riconoscimento formale (previa demolizione delle opere incongrue ovvero l’eliminazione degli elementi di degrado e successiva rinaturalizzazione dei suoli). Solo allora i CER potranno essere iscritti nel RECRED. Operazioni che, evidentemente, necessitano di adeguati tempi tecnici ed amministrativi.

Sotto un diverso profilo, si ritiene che le premialità attribuite per l’utilizzo dei CER (comma 5) siano aggiuntive e non sostitutive di quelle previste, in via generale, al primo comma. L’utilizzo dei CER in misura di almeno il 10 % dovrà quindi sommarsi all’incremento del 25% previsto dal primo comma. In questa ipotesi, dunque, la premialità complessivamente applicabile sarà del 25% (giusta applicazione del combinato disposto di cui ai commi 1 e 6) + il 10% (giusta applicazione del comma 5) = 35%. Diversamente opinando, infatti, le premialità connesse all’uso dei CER verrebbero, di fatto, obliterate.

Con specifico riferimento alla soglia del 10%, la legge nulla dice in ordine alle modalità della sua determinazione. Si ritiene che tale soglia vada comunque quantificata in relazione alla superficie o alla volumetria degli edifici preesistenti da demolire. In effetti, la soglia del 10% è posta in stretta correlazione alla soglia di incremento del 25% prevista dal primo comma, la quale – per espressa previsione normativa – è quantificata in relazione alla superficie o volume esistenti.

Da ultimo, si segnala che la disposizione in commento esclude l’applicabilità della riduzione delle premialità attribuite al prima comma per tutti quei procedimenti edilizi che saranno attivati prima che sia trascorso il termine di quattro mesi dalla scadenza prevista da “Veneto 2050” per l’approvazione della variante urbanistica (art. 4).

La norma in esame, peraltro, fa esclusivo riferimento al deposito di SCIA ovvero alle domande di rilascio di permessi di costruire. Tuttavia, considerato che il successivo art. 11 consente di dare attuazione agli “interventi di riqualificazione del tessuto edilizio” anche mediante un PUA o un permesso di costruire convenzionato exart. 28bis d.P.R. n. 380/2001, è ragionevole ritenere che tale norma possa e debba applicarsi anche nelle ipotesi di PUA o di Permesso di Costruire Convenzionatoexart. 28bis d.P.R. n. 380/2001, qualora le rispettive domande siano state depositate prima della scadenza del termine sopraindicato.

4. Zona territoriale omogenea propria

Il settimo comma della disposizione in esame ribadisce una regola ormai consolidata discendente dalla previgente l.r. n. 14/2009[7]: gli “interventi di riqualificazione del tessuto edilizio” sono consentiti purché gli edifici siano situati in zona territoriale omogenea propria. Ciò significa che gli edifici oggetto di intervento devono risultare urbanisticamente compatibili con le previsioni pianificatorie espresse dai locali strumenti urbanistici[8]. Esemplificando, un opificio è situato in zona territoriale omogenea propria quando lo strumento urbanistico ammette, per tale area, la destinazione d’uso produttiva. Per converso, è situato in zona territoriale omogenea impropria quando, per tale area, lo strumento urbanistico non ammette detta destinazione d’uso. Nell’ipotesi in cui l’edificio oggetto di intervento ricada in zone territoriali omogenee miste, sarà sufficiente verificare se lo strumento urbanistico ammetta, o meno, la destinazione d’uso preesistente: in caso affermativo, si verificherà la condizione imposta della legge per l’esecuzione degli interventi in esame.

La norma in esame[9], peraltro, si riferisce genericamente agli “edifici” oggetto di intervento, senza precisare si debba intendere solo gli edifici esistenti da demolire oppure anche a quelli da ricostruire[10]. Si ritiene che debbano insistere in zona territoriale omogenea propria tanto gli edifici esistenti da demolire quanto gli edifici da ricostruire. In effetti, se si considera che l’art. 6, secondo comma, della legge in commento – peraltro così come il previgente “Piano casa” – stabilisce che “sia l’edificio che l’ampliamento devono insistente in zona territoriale omogenea propria”, appare ragionevole ritenere che anche gli edifici ricostruiti debbano insistere in zona territoriale omogenea propria. Per fugare ogni dubbio, sarà in ogni caso opportuno che gli atti applicativi di “Veneto 2050” prendano posizione anche su tale puntuale questione.

La l.r. n. 29 del 25 luglio 2019 ha fissato una importante precisazione all’art. 6 che precede in relazione al requisito della “zona territoriale omogenea propria”, stabilendo che “nel caso di edificio la cui destinazione d’uso sia definita in modo specifico dalla strumento urbanistico, la parte ampliata deve mantenere la stessa destinazione d’uso dell’edificio che ha generato l’ampliamento”. Appare quindi corretto applicare questo principio anche agli interventi previsti dalla norma in commento: pertanto, se viene demolito un edificio la cui destinazione d’uso è definita in modo specifico dallo strumento urbanistico, l’edificio ricostruito deve avere la stessa medesima destinazione d’uso.

5. Interventi di riconversione funzionale

La disposizione in commento pone una regola generale ma prevede anche una deroga. Segnatamente, la norma riconosce ai Comune la facoltà di autorizzare “interventi di riqualificazione del tessuto edilizio” anche su immobili ubicati in zona territoriale omogenea impropria, purché diversa dalla agricola, a condizione che la nuova destinazione sia consentita dalla disciplina edilizia di zona.

La ratio della legge è chiara: incentivare la riconversione funzionale di fabbricati incompatibili con le previsioni degli strumenti urbanistici. L’applicazione di questa disposizione non è tuttavia automatica, essendo riconosciuto un ampio potere discrezionale in capo ai Comuni, i quali possono declinarne l’applicazione a seconda delle esigenze del territorio.

Più in generale, questa norma richiama il contenuto e le finalità del comma 2bis dell’art. 9 l.r. n. 14/2009[11] secondo cui “per gli edifici dismessi o in via di dismissione, situati in zone territoriali omogenee diverse dalla zona agricola, è consentito il mutamento della destinazione d’uso con il recupero dell’intera volumetria esistente, qualora l’intervento sia finalizzato alla rigenerazione o riqualificazione dell’edificio, fermo restando che la nuova destinazione deve essere consentita dalla disciplina edilizia di zona[12].

La disposizione in commento non rappresenta tuttavia la mera riproposizione della succitata disposizione abrogata. La norma in esame appare infatti fortemente innovativa, visto che viene modificato radicalmente l’approccio sistematico, oltre che i presupposti e le premialità attribuite.

Rispetto alla disciplina previgente, infatti, è ora previsto che anche gli edifici siti in zone territoriali omogenee improprie possono essere oggetto di “interventi di riqualificazione del tessuto edilizio”, potendo così beneficiare degli incrementi di superficie e volume previsti dal primo comma della norma in commento. In precedenza, invece, era ammesso il solo recupero della volumetria esistente. La finalità è facilmente intuibile: rendere maggiormente conveniente l’esecuzione di interventi di riconversione, in molti casi già previsti dagli strumenti urbanistici comunali ma mai attuati a causa degli ingenti oneri finanziari necessari.

Un primo limite fissato dalla legge (e già presente nella previgente disciplina) è che l’edificio ricostruito dovrà avere una destinazione d’uso compatibile con la disciplina edilizia prevista dallo strumento urbanistico. La norma fa ancora riferimento alla “disciplina “edilizia”: sarebbe stato preferibile utilizzare il termine “disciplina urbanistico-edilizia”, in quanto le destinazioni d’uso attengono ad aspetti essenzialmente urbanistici, rappresentando valutazioni che afferiscono al governo del territorio ed alla pianificazione. In ogni caso, è bene evidenziare che sarà lo strumento urbanistico a determinare la “compatibilità” delle nuove funzioni da insediare.

Vi è un ulteriore (e nuovo) limite implicito: detti interventi presuppongono sempre la demolizione integrale dei fabbricati esistenti, essendo ricompresi nell’ambito degli “interventi di riqualificazione del tessuto edilizio”, per i quali, come si è visto, è sempre prevista la “integrale demolizione e ricostruzione”.

Si segnala poi è stato eliminato il riferimento agli edifici “dismessi o in via di dismissione”. Ciò significa che la disposizione in esame è ora applicabile anche agli edifici ancora in uso.

È stata invece mantenuta l’inapplicabilità della norma agli edifici “impropri” siti la zona agricola. Questa disposizione è coerente con le finalità perseguire in via generale da Veneto 2050 ed è altresì coerente con il successivo art. 8 che ha drasticamente ridotto la possibilità di eseguire “interventi di riqualificazione del tessuto edilizio” in zona agricola.

La norma, come anticipato, subordina l’applicabilità di tali interventi ad un consenso da parte del Comune. La disposizione in commento stabilisce infatti che “il Comune può autorizzare il cambio di destinazione d’uso per l’edificio ricostruito, a condizione che la nuova destinazione sia consentita dalla disciplina edilizia di zona”.

In primo luogo, mette conto rilevare che il cambio di destinazione non rappresenta una “deroga” concessa dal Comune, bensì costituisce l’attuazione delle scelte pianificatorie espresse direttamente dallo strumento urbanistico e, pertanto, non necessità di valutazioni ulteriori da parte del Comune.

A ben vedere, dunque, la valutazione di compatibilità riguarda la compatibilità complessiva dell’intervento proposto rispetto alle previsioni edilizie previste dallo strumento urbanistico e, in particolare, agli indici edificatori di zona. In altri termini, al Comune è rimessa la valutazione discrezionale in ordine al riconoscimento ed alla modulazione delle (elevate) premialità previste dall’art. 7 della legge in commento. La ratio è chiara: evitare che i suddetti interventi di riconversione funzionale possano abilitare operazioni “incontrollate” che potrebbero dar luogo a pesanti impatti sul territorio. In altri termini, gli incrementi di superficie o volume vengono sì ammessi, ma sotto stretto controllo da parte dei Comuni, i quali potranno valutare, caso per caso, la compatibilità complessiva dei progetti rispetto alle zone interessate dagli interventi.

La norma nulla dice in ordine all’organo comunale deputato di effettuare tale valutazione di “compatibilità”. Si ritiene pertanto che debbano applicarsi le norme ordinarie in materia di allocazione delle competenze comunali.

Questa disposizione, peraltro, deve essere raccordata con il successivo art. 10 secondo cui gli interventi previsti dall’art. 7 possano essere assoggettati ad un Piano Urbanistico Attuativo ex art. 19 l.r. n. 11/2004 ovvero al rilascio di un Permesso di Costruire Convenzionato exart. 28bis d.P.R. n. 380/2001[13]. Nella prima ipotesi, dunque, sarà la Giunta (competente per legge all’approvazione dei PUA) a valutare la compatibilità dell’intervento di riconversione proposto. Nella seconda ipotesi, invece, sarà il Consiglio Comunale (competente per legge all’approvazione della convenzione allegata al Permesso di Costruire). In tutte le altre ipotesi non contemplate espressamente dall’art. 11 della legge in commento, sarà sempre il Consiglio Comunale a dover valutare la compatibilità dell’intervento e ciò in forza dei poteri attribuiti, in via generale, a quest’organo dall’art. 42 d.lgs. n. 267/2000[14].

Resta in ogni caso salva la possibilità per i Comuni di autorizzare gli interventi di recupero di fabbricati “impropri” (anche in zona agricola) eventualmente previsti dagli strumenti urbanistici comunali. In questa ipotesi, tuttavia, gli interventi non potranno beneficiare delle premialità previste dalla disposizione in esame.

Da ultimo, si ritiene che detto intervento non dia luogo alla corresponsione del contributo straordinario di cui all’art. 16, comma 4, lett. d-ter), d.P.R. n. 380/2001[15], in quanto il cambio di destinazione d’uso assentito rappresenta la semplice attuazione delle previsioni contenute negli strumenti urbanistici comunali. Si tratta cioè di un cambio di destinazione d’uso “ordinario” e, pertanto, non vi è alcuna “deroga” e/o “variante” che possa giustificare l’applicazione del contributo straordinario. Come si è detto, infatti, la valutazione di compatibilità rimessa ai Comuni riguarda essenzialmente l’attribuzione ed, eventualmente, la modulazione delle premialità riconosciute direttamente dalla legge.

 

[1] A mente dell’art. 2, lett. g), l.r. n. 14/2017, per “ambiti urbani degradati” si intende: “le aree ricadenti negli ambiti di urbanizzazione consolidata, assoggettabili agli interventi di riqualificazione urbana di cui all’articolo 6, contraddistinti da una o più delle seguenti caratteristiche: 1) degrado edilizio, riferito alla presenza di un patrimonio architettonico di scarsa qualità, obsoleto, inutilizzato, sottoutilizzato o impropriamente utilizzato, inadeguato sotto il profilo energetico, ambientale o statico-strutturale; 2) degrado urbanistico, riferito alla presenza di un impianto urbano eterogeneo, disorganico o incompiuto, alla scarsità di attrezzature e servizi, al degrado o assenza degli spazi pubblici e alla carenza di aree libere, alla presenza di attrezzature ed infrastrutture non utilizzate o non compatibili, sotto il profilo morfologico, paesaggistico o funzionale, con il contesto urbano in cui ricadono; 3) degrado socio-economico, riferito alla presenza di condizioni di abbandono, di sottoutilizzazione o sovraffollamento degli immobili, di impropria o parziale utilizzazione degli stessi, di fenomeni di impoverimento economico e sociale o di emarginazione”.

[2] In precedenza, invece, il “Piano casa” prevedeva una fattispecie autonoma per garantire la fruibilità degli edifici mediante l’eliminazione di barriere architettoniche. Segnatamente, l’art. 11bis l.r. n. 14/2009 stabiliva che: “le percentuali di cui all’ articolo 2, comma 1 e all’articolo 3 sono elevate fino ad un ulteriore 40 per cento per gli interventi da chiunque realizzati e finalizzati alla eliminazione delle barriere architettoniche di cui all’articolo 7, comma 1, lettere a), b) e c), della legge regionale 12 luglio 2007, n. 16”.

[3] Sul punto, è opportuno richiamare il vigente art. 10 l.r. n. 14/2009, secondo cui: “[..] a) gli interventi di ristrutturazione edilizia di cui all’articolo 3, comma 1, lettera d), del DPR n. 380/2001, anche al fine di consentire l’utilizzo di nuove tecniche costruttive, possono essere realizzati con l’integrale demolizione delle strutture murarie preesistenti, purché la nuova costruzione sia realizzata con il medesimo volume o con un volume inferiore; b) gli interventi di ristrutturazione edilizia con ampliamento di cui all’articolo 10, comma 1, lettera c), del d.P.R. n. 380/2001, qualora realizzati mediante integrale demolizione e ricostruzione dell’edificio esistente, per la parte in cui mantengono i volumi esistenti sono considerati, ai fini delle prescrizioni in materia di indici di edificabilità e di ogni ulteriore parametro di carattere quantitativo, ristrutturazione edilizia, ai sensi dell’articolo 3, comma 1, lettera d), del d.P.R. n. 380/2001 e non nuova costruzione, mentre è considerata nuova costruzione la sola parte relativa all’ampliamento che rimane soggetta alle normative previste per tale fattispecie; b-bis) negli interventi di ristrutturazione edilizia la ricostruzione a seguito della demolizione può avvenire anche su area di sedime parzialmente diversa, purché ciò non comporti una modifica sostanziale della localizzazione dell’edificio nell’ambito del lotto di pertinenza. In caso di interventi ubicati nelle zone di protezione delle strade e nelle zone vincolate come inedificabili dagli strumenti urbanistici generali, la ricostruzione è consentita anche in area adiacente, purché al di fuori della fascia di rispetto o dell’area inedificabile”.

[4] A tal riguardo, si rinvia alle definizioni del Regolamento Edilizio Tipo (RET) adottato previa Intesa in Conferenza Unificata del 20.10.2016 tra Stato, Regioni e Ance. Invero, al punto 32) dell’Allegato A) l’edificio è definito come: “costruzione stabile, dotata di copertura e comunque appoggiata o infissa al suolo, isolata da strade o da aree libere, oppure separata da altre costruzioni mediante strutture verticali che si elevano senza soluzione di continuità dalle fondamenta al tetto, funzionalmente indipendente, accessibile alle persone e destinata alla soddisfazione di esigenze perduranti nel tempo”.

[5] In effetti, i più recenti interventi normativi (e la giurisprudenza formatasi sul punto) tendono a favorire la ricostruzione dei cosiddetti “ruderi”, presupponendone la loro effettiva preesistenza. Il “Decreto del Fare” (l. n. 98/2013) ha infatti qualificato come “ristrutturazione edilizia” anche gli interventi “volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza”. Analogamente, anche la l.r. n. 18/2006, alla presenza di determinate condizioni, ne ammette la ricostruzione.

[6] La l.r. n. 14/2019 si pone dunque in continuità con la l.r. n. 14/2017, la quale, invero, prevede diverse disposizioni finalizzate ad incentivare interventi di “pulizia” del territorio veneto mediante la demolizione integrale di opere incongrue o di elementi di degrado.

[7] Invero, gli interventi previsti dal previgente art. 3 l.r. n. 14/2009 presupponevano che gli edifici fossero “[..] situati in zona territoriale omogenea propria [..]”.

[8] Sul punto la Circolare n. 1/2014 aveva precisato che il “termine “propria” va riferito a zone di territorio avente analoga destinazione e analoghe caratteristiche insediative. Ciò significa che gli ampliamenti possono essere realizzati in zone di completamento edilizio con riferimento a fabbricati in zona di espansione e viceversa, aventi analoga destinazione d’uso, mentre non possono avvenire contaminazioni, per esempio, tra zone di completamento o di espansione residenziale e zone agricole o zone produttive; ugualmente, attese le caratteristiche specifiche del centro storico, non vi possono essere eseguiti ampliamenti di fabbricati edificati in zone di completamento o di espansione. In applicazione della medesima regola, all’interno di zone miste o di zone produttive con utilizzazioni diverse, gli ampliamenti possono avvenire anche in zone differenti da quella di insediamento del fabbricato che ne dà titolo, a condizione che la destinazione dell’ampliamento sia compatibile o complementare con quelle consentite nelle zone di realizzazione del nuovo volume”.

[9] La disposizione in commento è sostanzialmente analoga all’art. 3, comma 3, della l.r. n. 14/2009 secondo cui: “la demolizione e ricostruzione, purché gli edifici siano situati in zona territoriale omogenea propria, può avvenire anche parzialmente e può prevedere incrementi del volume o della superficie [..]”.

[10] La distinzione non è di poco conto. Inoltre, si tratta di ipotesi non remote. Ciò a maggior ragione se si considera che tali interventi potranno avere ad oggetto anche ambiti più estesi dei singoli lotti edificatori sui quali insistono i fabbricati da demolire e che l’art. 10, comma 2, di Veneto 2050 prevede espressamente che gli edifici possano essere ricostruiti su “un’area di sedime completamente diversa”.

[11] Questa disposizione è stata prevista dall’art. 10 l.r. n. 32/2013 ed oggi risulta espressamente abrogata dall’art. 19, comma 1, lett. d), l.r. n. 14/2019.

[12] Secondo la giurisprudenza amministrativa, peraltro, questa disposizione avrebbe dato attuazione, in senso maggiormente restrittivo, alle previsioni contenute all’art. 5, commi 9 e ss., d.l. n. 70/2011 (cd. “Decreto Sviluppo”). In questo senso: Consiglio di Stato, sez. IV, 26.07.2017, n. 3680; TAR Veneto, sez. II, 23.02.2016, n. 205. Recentemente, TAR Veneto, sez. II, 1.02.2019, n. 142. Tuttavia, considerato che l’art. 9, co. 2bis, l.r. n. 14/2009 è stato abrogato dalla l.r. n. 14/2019, il “Decreto Sviluppo” potrebbe beneficiare di una sorta di reviviscenza in Veneto, salvo ritenere che Veneto 2050 e, in particolare, l’art. 7, co. 7, parte seconda, abbia inteso recepire e dare attuazione in via ordinaria alle previsioni contenute all’art. 5, commi 5 e ss., dello stesso “Decreto Sviluppo”.

[13] L’art. 11, comma 2, l.r. n. 14/2019 stabilisce infatti che: “qualora gli interventi di cui agli articoli 6 e 7 comportino la realizzazione di un edificio con volumetria superiore ai 2.000 metri cubi o con un altezza superiore al 50 per cento rispetto all’edificio oggetto di intervento, e non ricorra l’ipotesi di deroga al decreto ministeriale n. 1444 del 1968 di cui al comma 1, gli stessi sono sempre autorizzati previo rilascio del permesso di costruire convenzionato di cui all’articolo 28 bis del decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, con previsioni planivolumetriche”.

[14] L’art. 42, co. 2, d.lgs. n. 267/2000, lett. b) stabilisce, infatti, che il Consiglio Comunale ha competenza esclusiva per l’adozione di “piani territoriali ed urbanistici, programmi annuali e pluriennali per la loro attuazione, eventuali deroghe ad essi, pareri da rendere per dette materie”.

[15]Come è noto, l’art. 16, comma 4, lett. d-ter), d.P.R. n. 380/2001 stabilisce che il contributo di costruzione è (anche) commisurato “alla valutazione del maggior valore generato da interventi su aree o immobili in variante urbanistica, in deroga o con cambio di destinazione d’uso. Tale maggior valore, calcolato dall’amministrazione comunale, è suddiviso in misura non inferiore al 50 per cento tra il comune e la parte privata ed è erogato da quest’ultima al comune stesso sotto forma di contributo straordinario, che attesta l’interesse pubblico, in versamento finanziario, vincolato a specifico centro di costo per la realizzazione di opere pubbliche e servizi da realizzare nel contesto in cui ricade l’intervento, cessione di aree o immobili da destinare a servizi di pubblica utilità, edilizia residenziale sociale od opere pubbliche”.

Commento all’art. 6 l.r. n. 14/2019

di Mario Panzarino, Giorgio Migotto e Massimo Cavazzana

Articolo 6

Interventi edilizi di ampliamento

1. Gli interventi di riqualificazione urbana rispondono alla finalità del presente Capo e sono 1. È consentito l’ampliamento degli edifici caratterizzati, alla data di entrata in vigore della presente legge, dalla presenza delle strutture portanti e dalla copertura, nei limiti del 15 per cento del volume o della superficie, in presenza delle seguenti condizioni:
a) che le caratteristiche costruttive siano tali da garantire la prestazione energetica, relativamente ai soli locali soggetti alle prescrizioni in materia di contenimento del consumo energetico ai sensi del decreto legislativo 19 agosto 2005, n. 192 “Attuazione della direttiva 2002/91/CE relativa al rendimento energetico nell’edilizia”, almeno in classe A1 della parte ampliata;
b) che vengano utilizzate tecnologie che prevedono l’uso di fonti energetiche rinnovabili, secondo quanto previsto dall’Allegato 3 del decreto legislativo n. 28 del 2011.
2. L’ampliamento può essere realizzato in aderenza, in sopraelevazione o utilizzando un corpo edilizio già esistente all’interno dello stesso lotto. Sia l’edificio che l’ampliamento devono insistere in zona territoriale omogenea propria; nel caso di edificio la cui destinazione d’uso sia definita in modo specifico dallo strumento urbanistico, la parte ampliata deve mantenere la stessa destinazione d’uso dell’edificio che ha generato l’ampliamento.
3. La percentuale di cui al comma 1 è elevata fino ad un ulteriore 25 per cento con le modalità stabilite dall’allegato A, in funzione della presenza di uno o più dei seguenti elementi di riqualificazione dell’edificio e della sua destinazione d’uso residenziale o non residenziale:
a) eliminazione delle barriere architettoniche di cui alle lettere a), b) e c), del comma 1, dell’articolo 7, della legge regionale 12 luglio 2007, n. 16 “Disposizioni generali in materia di eliminazione delle barriere architettoniche”;
b) prestazione energetica dell’intero edificio corrispondente alla classe A4;
c) messa in sicurezza sismica dell’intero edificio;
d) utilizzo di materiali di recupero;
e) utilizzo di coperture a verde;
f) realizzazione di pareti ventilate;
g) isolamento acustico;
h) adozione di sistemi per il recupero dell’acqua piovana;
i) rimozione e smaltimento di elementi in cemento amianto;
l) utilizzo del BACS (Building Automation Control System) nella progettazione dell’intervento;
m) utilizzo di tecnologie che prevedono l’uso di fonti energetiche rinnovabili con una potenza non inferiore a 3 kW.
4. Le percentuali di cui ai commi 1 e 3 non possono comportare complessivamente un aumento superiore al 40 per cento del volume o della superficie dell’edificio esistente.
5. Per promuovere l’efficientamento energetico, fino al 31 dicembre 2021(1), gli interventi di cui al presente articolo che garantiscono la prestazione energetica dell’intero edificio corrispondente alla classe A4, possono usufruire di un ulteriore incremento del 10 per cento del volume o della superficie dell’edificio esistente; in tale caso è conseguentemente incrementata la percentuale in aumento prevista al comma 4.
6. Le percentuali di cui ai commi 1 e 3 possono essere elevate fino al 60 per cento in caso di utilizzo, parziale od esclusivo, dei crediti edilizi da rinaturalizzazione.
7. Nei limiti dell’ampliamento di cui ai commi 1, 3, 4, 5 e 6 è da computare l’eventuale recupero dei sottotetti esistenti aventi le caratteristiche di cui alle lettere a) e b), del comma 1, dell’articolo 2, della legge regionale 6 aprile 1999, n. 12 “Recupero dei sottotetti esistenti a fini abitativi”, con esclusione dei sottotetti esistenti oggetto di contenzioso in qualsiasi stato e grado del procedimento.
8. In caso di edifici composti da più unità immobiliari l’ampliamento può essere realizzato anche separatamente per ciascuna di esse, compatibilmente con le leggi che disciplinano il condominio negli edifici, fermo restando il limite complessivo stabilito ai commi 1, 3, 4, 5 e 6. In ipotesi di case a schiera l’ampliamento è ammesso qualora venga realizzato in maniera uniforme con le stesse modalità su tutte le case appartenenti alla schiera.
9. Qualora l’ampliamento sia realizzato a favore delle attività produttive di cui al decreto del Presidente della Repubblica 7 settembre 2010, n. 160 “Regolamento per la semplificazione ed il riordino della disciplina sullo sportello unico per le attività produttive, ai sensi dell’articolo 38, comma 3, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133”, e sia superiore al 20 per cento della superficie esistente, o comunque superiore a 1.500 metri quadri, trova applicazione il Capo I della legge regionale 31 dicembre 2012, n. 55 “Procedure urbanistiche semplificate di sportello unico per le attività produttive e disposizioni in materia urbanistica, di edilizia residenziale pubblica, di mobilità, di noleggio con conducente e di commercio itinerante”.

 

(1) L’art. 1 della legge regionale 30 dicembre 2020 n. 43, pubblicata sul BUR Veneto n. 205 del 31 dicembre 2020 ha disposto la proroga al 31 dicembre 2021 del termine originariamente fissato.

SOMMARIO: 1. Gli interventi di ampliamento: le novità2. Interventi minimi: le regole di base dell’ampliamento2.1. Il raggiungimento della classe A1 e l’uso di fonti di energia rinnovabili2.2. L’«esistenza» del fabbricato2.3. La localizzazione dell’ampliamento3. L’aumento delle percentuali di ampliamento: l’incentivazione di nuove buone pratiche4. L’ampliamento meditante utilizzo di crediti da rinaturalizzazione5. Il recupero dei sottotetti6. Ampliamenti di edifici composti da più unità immobiliari 7. Ampliamenti di attività a cui si applicano le norme sullo Sportello Unico

1. Gli interventi di ampliamento: le novità

“Veneto 2050”, colloca l’articolo 6 “Interventi edilizi di ampliamento” nell’ambito del Titolo III della legge, dedicato alla “Riqualificazione del patrimonio esistente”.

Di fatto, l’articolo 6 – assieme al successivo articolo 7 – costituisce il principale “braccio operativo” della l.r. n. 14/2019, sul quale il Legislatore regionale ha chiaramente riposto grandi speranze: prima di tutte quella di eguagliare il “successo”, per certi versi senza precedenti, degli articoli 2 e 3 dell’abrogato “Piano Casa”, che appaiono all’evidenza gli antecedenti “storici” delle nuove norme.

Ciò è vero ancor di più in relazione all’articolo 6 che, per caratteristiche, modalità applicative e benefici, riprende per molti versi il ben noto articolo 2 della legge regionale n. 14/2009, fattispecie che ha rappresentato circa il 90% delle centomila pratiche edilizie presentate in 10 anni in applicazione del “Piano Casa”. Considerato questo background storico, è dunque lecito attendersi, negli anni a venire, una applicazione su vasta scala della norma in commento ed una grande attenzione ai suoi meccanismi di funzionamento.

Ciò premesso in linea generale, è bene fin da subito sottolineare che l’articolo 6 della l.r. n. 14/2019 – mentre mantiene un evidente rapporto di ascendenza formale con l’art. 2 del “Piano Casa” – presenta tuttavia molte ed importanti novità sostanziali rispetto alla norma previgente, connesse in modo evidente allo spirito della nuova legge.

Non è un mistero come all’origine dell’introduzione del “Piano Casa” vi è stata la necessità di far fronte ad una emergenza economica; ciò che il Legislatore ha ritenuto di attuare mediante il recupero del patrimonio edilizio e l’incentivo alla sostenibilità energetica ed ambientale. Per converso, nella nuova iniziativa legislativa, la tutela del patrimonio edilizio, il miglioramento della qualità della vita e la sostenibilità ambientale non sono più mezzi da usare in via temporanea ed eccezionale, ma fini il cui perseguimento viene potenziato, messo a regime e collocato nella prospettiva ormai ineludibile del contenimento del consumo di suolo.

A tal fine, l’articolo 6 propone una serie di incentivi (ampliamenti in percentuale) a fronte di determinati interventi di efficientamento energetico e di riqualificazione del patrimonio edilizio esistente, rappresentati da numerose e specifiche misure elencate nel testo di legge.

Il Legislatore, consapevole della complessità del tema – non esente da valutazioni di tipo tecnico, più che giuridico – ha predisposto un Allegato A, nel quale, attraverso una serie di schede, elenca tutte le misure premiali riconosciute a chi intenda ampliare un edificio (articolo 6) e a chi intenda demolirlo e ricostruirlo (articolo 7). Per ogni ulteriore approfondimento in merito all’Allegato A, si rimanda allo specifico commento.

2. Interventi minimi: le regole di base dell’ampliamento (comma 1 e 2)

Già dalla lettura del primo comma della norma sono evidenti le novità connesse alle nuove finalità della legge: obbligo di miglioramento energetico ed assenza di limiti temporali all’applicabilità della normativa di favore che – diversamente dai “Piani Casa” – rimane vigente a tempo indeterminato, seppur con riferimento solo agli edifici esistenti alla data di entrata in vigore della legge, ovverossia dal 6 aprile 2019.

2.1. Il raggiungimento della classe A1 e l’uso di fonti di energia rinnovabili

Il primo comma dell’articolo 6 consente un ampliamento minimo, fino al 15% del volume o della superficie degli edifici esistenti purché le caratteristiche costruttive della parte ampliata, per i soli locali soggetti alle prescrizioni in materia di contenimento del consumo energetico.  Sono però escluse dall’applicazione delle prescrizioni del d.lgs. 192/05, così come previsto dal Decreto interministeriale 26 giugno 2015 – Adeguamento linee guida nazionali per la certificazione energetica degli edifici, le categorie di edifici che risultano non comprese in quelle classificate sulla base della destinazione d’uso di cui all’articolo 3, D.P.R. 26 agosto 1993, n. 412, il cui utilizzo standard non prevede l’installazione e l’impiego di sistemi tecnici, quali box, cantine, autorimesse, parcheggi multipiano, depositi, strutture stagionali a protezione degli impianti sportivi, (art. 3, c. 3, lett. e) del decreto legislativo) o i manufatti, comunque, non riconducibili alla definizione di edificio dettata dall’art. 2 lett. a) del decreto legislativo (manufatti cioè non qualificabili come “sistemi costituiti dalle strutture edilizie esterne che delimitano uno spazio di volume definito, dalle strutture interne che ripartiscono detto volume e da tutti gli impianti e dispositivi tecnologici che si trovano stabilmente al suo interno”). Si ritiene pertanto che nel caso si ricada in una delle fattispecie sopra richiamate, non ricadendo in locali soggetti alle prescrizioni in materia di risparmio energetico, sia possibile l’ampliamento senza dover ottemperare al requisito previsto nel comma 1, lettera a).

A titolo di esempio si riporta il caso di una richiesta di aumento di volume per la realizzazione di un portico aperto su tre lati adiacente ad un’abitazione esistente, si ritiene che nella fattispecie sia possibile usufruire dell’ampliamento del 15% previsto dalla norma senza ovviamente dover rispettare il limite del raggiungimento della classe A1 per l’ampliamento, in quanto si ricade nel caso di manufatto esterno all’edificio cioè non qualificabile come “sistemi costituiti dalle strutture edilizie esterne che delimitano uno spazio di volume definito, dalle strutture interne che ripartiscono detto volume e da tutti gli impianti e dispositivi tecnologici che si trovano stabilmente al suo interno”.

In relazione alla lettera b), per converso, è utile precisare che la condizione posta dalla norma è il mero utilizzo delle fonti rinnovabili: per giovarsi dunque dell’ampliamento di cui al primo comma non sarà necessario, di per sé, produrre una soglia minima di energia mediante l’uso di rinnovabili (il che si deduce a contrario dalla circostanza che il raggiungimento della soglia dei 3 kW consente, per converso, di giovarsi di un ulteriore premio volumetrico ai sensi del successivo comma 3). Ciò non toglie che il raggiungimento di specifiche soglie di produzione (rectius, di copertura dei consumi mediante utilizzo di fonti rinnovabili) potrebbe essere reso necessario proprio dal rispetto del d.lgs. n. 28/2011 richiamato dalla norma in commento, ove applicabile allo specifico intervento.

L’ampliamento concesso dalla nuova legge, insomma, non viene più riconosciuto senza vincoli “di sostenibilità” energetica ma diviene una condizione necessaria per potersi giovare anche solo in misura minima del bonus di ampliamento.

È davvero un cambio di paradigma, rispetto al passato: questa “condizionalità necessaria”, infatti, finisce per garantire che ogni intervento ammesso dalla legge – che di per sé comporta un aumento del carico antropico sul territorio – debba misurarsi con l’efficientamento energetico e l’utilizzo di fonti rinnovabili, temi che nell’applicazione della nuova legge non saranno quindi più lasciati all’iniziativa del privato, per quanto modesto possa essere l’impatto di quest’ultima.

Di fatto, si tratta della conferma che il raggiungimento di elevati standard in materia di rendimento energetico degli edifici è ormai un elemento imprescindibile, una sorta di certificato di qualità del prodotto che, se da un lato consente il mantenimento del valore dell’immobile nel tempo, dall’altro permette anche apprezzabili economie gestionali ed ambientali.

2.2. L’«esistenza» del fabbricato

Come si è detto, la nuova normativa è pensata come strumento “a regime” e non eccezionale, destinata a regolare senza limiti temporali gli interventi di riqualificazione ed ampliamento dei fabbricati: di qui, l’eliminazione del termine di efficacia temporale della disciplina agli edifici esistenti ad una certa data (che nell’ultima versione del “Piano Casa” era fissato al 31 ottobre 2013).

Ma, se a seguito dell’abrogazione della l.r. n. 14/2009 è venuto meno il riferimento al 31 ottobre 2013, con l’entrata in vigore della legge regionale 25 luglio 2019, n. 29 è stato chiarito che l’edificio è da considerarsi esistente qualora siano presenti le strutture portanti e la copertura alla data del 6 aprile 2019 (data di entrata in vigore della legge), mentre non risulta alcun riferimento circa la presenza o meno dell’agibilità, che dunque non deve ritenersi necessaria.

Il Legislatore regionale, anche a fronte di alcuni dubbi interpretativi emersi dalle prime letture della legge, ha ritenuto opportuno emanare a breve distanza dalla promulgazione della legge una specifica disposizione legislativa, con la quale, sgombrando il campo da ogni incertezza, ha precisato che è possibile applicare i benefici di Veneto 2050 esclusivamente agli edifici esistenti alla data di entrata in vigore della legge e dunque non a quelli successivamente venuti ad esistenza.

Quanto alla definizione di edificio esistente, essa riprende quanto già disposto in tema dalla Circolare regionale n. 1/2014, secondo cui “per poter essere considerato “esistente” l’edificio deve essere perlomeno caratterizzato dalla presenza delle strutture portanti e della copertura, mentre non ne è richiesta l’agibilità.

Si tratta peraltro di una definizione che collima con quella data in tema dalla giurisprudenza ormai consolidata, secondo cui “un manufatto costituito da alcune rimanenze di mura perimetrali, ovvero un immobile in cui sia presente solo parte della muratura predetta, e sia privo di copertura e di strutture orizzontali, non può essere riconosciuto come edificio allo stato esistente” (cfr. di recente, TAR Puglia – Bari, sez. III, 09/04/2018, n. 530 ed in termini Cons. Stato, Sez. IV, 19 marzo 2018 n. 1725, TAR Lombardia – Brescia, Sez. I, 26 settembre 2017 n. 1167) ed un tanto poiché “in mancanza di elementi strutturali non è infatti possibile valutare l’esistenza e la consistenza dell’edificio da consolidare ed i ruderi non possono che considerarsi alla stregua di un’area non edificata” (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 21 ottobre 2014 n. 5174 ed in termini, Cons. Stato, Sez. V, 15 marzo 2016 n. 1025).

2.3. La localizzazione dell’ampliamento

Il testo del secondo comma 2 dell’articolo in commento è chiaro ed i contenuti non dovrebbero dare luogo a letture che si discostino da quello che è il tenore letterale della norma: anche in questo caso, tuttavia, importanti sono le novità meritevoli di qualche accenno.

Secondo le disposizioni del comma secondo, la parte ampliata, generata dall’edificio esistente, dovrà essere obbligatoriamente realizzata in aderenza al medesimo edificio, oppure in sopraelevazione o, infine, utilizzando un edificio già presente all’interno dello stesso lotto.

Rispetto alla normativa previgente, vi è quindi qualcosa di più e qualcosa di meno. Quanto alle aggiunte, viene precisata la possibilità di procedere all’ampliamento mediante sopraelevazione: specificazione opportuna, per quanto il concetto di “aderenza” (l’unico in precedenza utilizzato ai fini di definire le modalità dell’ampliamento in continuità fisica) sia stato nella prassi fin qui inteso in genere anche in senso verticale, e dunque comprensivo anche della sopraelevazione (e così anche in giurisprudenza, si veda TAR Veneto, II, 30 giugno 2010, n. 2745, secondo cui l’ampliamento concesso dall’allora “Piano Casa” poteva “essere realizzato in continuità rispetto al corpo di fabbrica preesistente, ma non importa se in aderenza, in appoggio o in sopraelevazione. Invero, ciò che interessa al legislatore è che l’ampliamento ne sia una prosecuzione fisica e non costituisca una nuova entità distinta dal precedente edificio”).

Ben più innovativo, rispetto alla disciplina previgente, appare invece quanto è stato eliminato, con il risultato in una rilevante riduzione delle modalità di intervento ammesse.

Ed infatti, archiviando definitivamente una modalità di intervento molto discussa, il Legislatore regionale non solo ha stabilito che non sarà più possibile realizzare l’ampliamento in forma di “corpo separato” in un lotto non contiguo ed entro i 200 metri ma, addirittura, ha disposto che non sarà più possibile realizzare in generale alcun ampliamento staccato né sul lotto di pertinenza né su un lotto confinante. Residua quindi oggi la sola possibilità di poter realizzare l’ampliamento derivante dall’applicazione dell’articolo 6 di “Veneto 2050” su un corpo edilizio separato che sia già esistente, ma in tal caso solo ove tale preesistenza sia collocata nello stesso lotto dell’edificio che genera il bonus.

Infine, riprendendo uno dei punti cardine del “Piano Casa”, la norma ci ricorda che sia l’edifico che genera l’ampliamento, sia l’ampliamento da questi generato, devono insistere in zona territoriale omogenea propria.

Sul punto, ricordiamo che la Circolare 1/2014 era intervenuta chiarendo la definizione del concetto di ampliamento “in zona propria” ovvero precisando che “per “zona propria” deve intendersi non la medesima zona territoriale omogenea (…) il termine va riferito, invece, a zone di territorio aventi analoga destinazione e analoghe caratteristiche insediative. Ciò significa che gli ampliamenti possono essere realizzati in zone di completamento edilizio con riferimento a fabbricati in zona di espansione e viceversa, aventi analoga destinazione d’uso, mentre non possono avvenire contaminazioni, per esempio, tra zone di completamento o di espansione residenziale e zone agricole o zone produttive; ugualmente, attese le caratteristiche specifiche del centro storico, non vi possono essere eseguiti ampliamenti di fabbricati edificati in zone di completamento o di espansione”.

Anche rispetto a tale profilo vi è una importante novità, ovvero l’eliminazione dell’unico caso di deroga in precedenza ammesso dalla legge rispetto alla regola dell’insistenza di edificio esistente e ampliamento in zona propria. Ci riferiamo ovviamente alla possibilità introdotta a suo tempo dall’art. 6, co. 2, l.r. n. 4/2015, in base al quale era consentito realizzare l’ampliamento in aderenza anche in zona impropria, ove l’edificio da ampliare fosse collocato in zona propria: intervento che ora non sarà più possibile.

Con la recente legge regionale 25 luglio 2019, n. 29, il Legislatore regionale ha infine ritenuto necessario procedere ad una modifica del comma 2 dell’articolo 6, aggiungendo le parole “nel caso di edificio la cui destinazione d’uso sia definita in modo specifico dallo strumento urbanistico, la parte ampliata deve mantenere la stessa destinazione d’uso dell’edificio che ha generato l’ampliamento”.

Tale precisazione (che, anche in questo caso, si ritiene opportuna per evitare applicazioni non in linea con le finalità della legge) chiarisce che la parte ampliata non può consentire una destinazione d’uso diversa rispetto a quella dell’edificio esistente che dà origine all’ampliamento. La limitazione, tuttavia, non ha portata generale ma vale solo nel caso in cui l’edificio in questione abbia una destinazione “definita in modo specifico”, ovvero in genere – nella prassi pianificatoria – in relazione a edifici che siano disciplinati da apposita scheda con specifiche disposizioni relative alla destinazione d’uso dell’edificio.

Il principale esempio che viene immediatamente in mente è quello relativo alle attività alberghiere, che per l’appunto sono spesso oggetto di schedatura con vincolo di destinazione: in tal senso, se l’edificio che genera l’ampliamento ha una destinazione ricettiva, anche la parte ampliata dovrà mantenere tale destinazione d’uso. E tale obbligo – per un principio di specialità fatto proprio dalla novella – dovrà necessariamente essere rispettato, ancorché lo strumento urbanistico comunale possa in generale consentire utilizzi diversi per l’area in oggetto (c.d. zone miste).

3. L’aumento delle percentuali di ampliamento: l’incentivazione di nuove buone pratiche (comma 3, 4 e 5)

Il testo va inevitabilmente analizzato tenendo “a portata di mano” l’Allegato A, parte integrante di “Veneto 2050”. Rinviando, per ogni ulteriore ragguaglio allo specifico commento predisposto per tale documento, ci limitiamo in questa sede ad alcune osservazioni di carattere più generale.

Nel “Piano Casa” che abbiamo conosciuto per diversi anni, oltre alla premialità iniziale del 20% (o 150 mc per gli edifici unifamiliari) garantita per tutti gli edifici, venivano poi concesse ulteriori premialità a seconda che venissero installati 3 kW da fonti rinnovabili (+10%), oppure si portasse l’edificio generatore di ampliamento alla classe energetica ‘B’ (in questo caso solo per i fabbricati con destinazione residenziale, +15%); erano poi previsti ulteriori incentivi per la messa in sicurezza sismica dell’intero edificio, purché la stessa non fosse già obbligatoria per legge (5% per gli edifici residenziali e 10% per gli edifici ad uso diverso) e un ulteriore bonus (+40%) per gli interventi finalizzati al superamento delle barriere architettoniche

Nella nuova formulazione degli incentivi, prevedendo un massimo di aumento del bonus del 25% (che, sommato al 15% del comma 1, porta ad un totale del 40%), il Legislatore ha voluto da un lato ridurre l’impatto quantitativo del cumulo di incentivi (che non possono comunque superare il 40% dell’esistente) mentre dall’altro lato ha inteso comunque allargare l’offerta delle tipologie di premialità.

Appare assai evidente, per come è formulato il testo – che parla di “innalzamento” della percentuale prevista dal comma 1 – che il 15% concesso dal primo comma rappresenta una sorta di “passaggio obbligato” senza il quale non sembra possibile fruire delle ulteriori premialità previste al comma 3. L’ulteriore 25% previsto dal III comma, come si è detto, è ottenibile, sulla base dei criteri stabiliti dall’Allegato A, mediante la presenza di una o più delle misure di riqualificazione elencate, previste per la destinazione residenziale e non residenziale: e qui, al di là della variazione percentuale di ampliamento, sta la vera novità.

Accanto alle misure che già in passato, anche se in termini diversi, erano state incentivate (ovvero: eliminazione delle barriere architettoniche di cui alle lettere a), b) e c), del comma 1, dell’articolo 7, della legge regionale 12 luglio 2007, n. 16 “Disposizioni generali in materia di eliminazione delle barriere architettoniche”; prestazione energetica dell’intero edificio corrispondente alla classe A4; messa in sicurezza sismica dell’intero edificio; tecnologie, che prevedono l’uso delle fonti energetiche rinnovabili con una potenza non inferiore a 3 kW – ovvero lett. a), b), c) ed m) di cui all’art. 6, co. 3 della legge in commento) nell’elenco previsto oggi dall’art. 6 vengono incentivate tutta una serie di nuove best practices che in precedenza non erano state prese in esame dal Legislatore regionale.

Si tratta di misure che spaziano dal campo della sostenibilità – utilizzo di materiali di recupero, adozione di sistemi per il recupero dell’acqua piovana, lett. d) e h) – a quello della tutela ambientale e dall’inquinamento – coperture a verde, isolamento acustico, rimozione e smaltimento cemento amianto, lett. e), g), i) – ed infine innalzano il livello della qualità edilizia e dell’efficienza energetica – pareti ventilate; sistemi smart building di controllo automatizzato – lett. f) ed l).

Non presenta poi particolari problemi interpretativi la disposizione di cui al quarto comma che, forse in modo un po’ ridondante, semplicemente ci ricorda che viene fissato un limite massimo per l’applicazione combinata delle premialità di cui ai commi 1 e 3. Pertanto, applicando i benefici previsti dal primo comma e sommandoli con una o più premialità previste dal ricco menù offerto dal terzo comma, in ogni caso, non si potrà superare il 40% del volume o della superficie dell’edificio esistente. Tale limite, come scopriremo leggendo i successivi commi 5 e 6, non è comunque invalicabile, in termini assoluti.

Il quinto comma propone infatti una spinta supplementare, per un lasso di tempo limitato (ovverossia sino al 31 dicembre 2020), al fine di rendere maggiormente “appetibile” il raggiungimento di un elevato standard qualitativo ed energetico, rappresentato dalla classe energetica A4 per l’intero edificio.

La norma, infatti, consente una sorta di deroga aggiuntiva, valida solo fino al 31 dicembre 2020, che comporta un ulteriore 10% di ampliamento (oltre la fatidica soglia del 40% di cui al precedente comma) riferito esclusivamente agli interventi che porteranno sia l’edificio esistente che l’ampliamento in classe energetica A4. Tale misura, alla scadenza del termine posto dal quinto comma, sarà regolata a regime quale mero elemento per il calcolo degli incentivi disposti dal precedente comma 3.

Questa ambivalenza – ancorché temporanea – della misura lascia supporre che, finché si applicherà il comma 5, il raggiungimento della classe A4 per l’intero edificio varrà comunque a calcolare, nel mix proposto dall’allegato A e dal comma 3, l’aumento fino al 25% di una misura che, normalmente (sulla base del precedente comma e dell’Allegato A), comporterebbe un aumento del solo 15%.

Quanto al termine di validità della disposizione, qualcuno potrebbe chiedersi per quale ragione tale facoltà vada a scadere al 31 dicembre 2020. Proviamo a fare due calcoli.

La nuova legge è entrata in vigore il 6 aprile 2019, la Giunta regionale, ai sensi dell’articolo 4, comma 1, di “Veneto 2050” ha quattro mesi di tempo per dettare una specifica disciplina per i crediti edilizi da rinaturalizzazione (CER) e siamo quindi arrivati al 6 di agosto. A questo punto, secondo le disposizioni legislative impartite sempre dall’articolo 4, ma ora dal comma 2, i Comuni avranno 12 mesi di tempo per approvare una specifica variante con la quale andranno ad individuare i manufatti incongrui, la cui demolizione sia di interesse pubblico e darà origine ai CER. Si arriva così al 6 agosto 2020. Infine, ai sensi dell’articolo 7, comma 6, con qualche arrotondamento, si arriva al 31 dicembre 2020. Nello specifico, l’articolo 7, comma 6 della l.r. n. 14/2019, prevede che trascorsi 4 mesi dalla scadenza del termine ultimo previsto per l’adozione della variante urbanistica, è prevista una sorta di ‘tagliola’, ovverossia una riduzione del 15 per cento (in questo caso per i soli interventi di cui all’articolo 7, comma 1), qualora non venga utilizzato credito edilizio da rinaturalizzazione nella misura almeno del 10 per cento.

In buona sostanza, il Legislatore ha previsto una misura di natura straordinaria fintantoché, nella prospettiva della pulizia del territorio e del contenimento del consumo di suolo, non si saranno conclusi i procedimenti necessari a rendere disponibili i CER. Si tratta insomma di un bonus extra del 10% che rappresenta una misura compensativa, che – mentre si consente, prima alla Regione e poi ai Comuni, di ottemperare agli obblighi previsti dalla legge, di mettere in moto tutte le procedure finalizzate all’attivazione dei crediti edilizi da rinaturalizzazione – impedisce che venga penalizzato chi intenda eseguire radicali interventi di ampliamento ed efficientamento energetico degli edifici.

4. L’ampliamento meditante utilizzo di crediti da rinaturalizzazione (comma 6)

Che i CER (crediti edilizi da rinaturalizzazione) siano la vera novità, il motore di “Veneto 2050”, appare chiaro leggendo il testo della norma in commento, che consente il raggiungimento di un ampliamento massimo, sommando le premialità dei commi 1 e 3, fino al 60% dell’esistente mediante utilizzo parziale oppure esclusivo dei CER.

Nel merito osserviamo che, se da un lato appare chiaro come possa avvenire l’utilizzo parziale dei CER sino al raggiungimento della soglia invalicabile del 60%, vale a dire aggiungendo la differenza in CER del 20% alla percentuale massima del 40% ottenibile con l’applicazione dei commi 1 e 3, dall’altro qualche dubbio interpretativo potrebbe sollevare l’espressione “utilizzo esclusivo” dei CER per ottenere il 60% di ampliamento.

Sul punto, val la pena di sottolineare come la norma letteralmente indichi che le percentuali di cui ai commi 1 e 3 “possono essere elevate” sino al 60% con l’uso dei CER: tale locuzione impone di riferire l’uso dei crediti quale mezzo di potenziamento dimensionale tanto dell’intervento di ampliamento “base” (comma 1) quanto di quello incentivato (comma 3) ma esclude, per converso, che l’ampliamento mediante CER possa ritenersi una sorta di intervento “a sé stante”.

Alla stregua di tale inequivoco dato letterale, non sembra quindi ammissibile la realizzazione di un ampliamento del 60% dell’edificio con l’uso esclusivo di crediti, ovvero senza (almeno) il rispetto delle condizioni poste dal comma primo (ampliamento in A1 e uso di fonti rinnovabili). Con la conseguenza che l’intervento massimo possibile (quanto ad uso di CER) sarà per converso quello che consente il raggiungimento del 60% di ampliamento nel solo rispetto delle condizioni di cui al comma 1 (che danno di per sé sole accesso al 15%) mediante uso di CER per il residuo 45% (inteso come differenza tra la soglia minima del 15% e quella massima del 60%, ovvero eventualmente “bypassando”, per così dire, l’applicazione del comma 3).

Se questo è vero, quindi, quando la norma ha indicato l’uso “parziale” dei CER intendeva riferirsi alla misura residuale dell’ampliamento una volta applicati i commi 1 e 3 della norma in commento (ovvero: la percentuale base del 15% viene innalzata parzialmente, fino al 25%, mediante le misure di cui al comma 3 e parzialmente, per il residuo, mediante l’uso dei CER) mentre laddove – in alternativa a tale ipotesi – si è indicato l’uso dei CER nell’ampliamento come “esclusivo”, un tanto si è inteso fare per riferirsi all’innalzamento della percentuale di cui al comma 1 fino al 60% mediante il solo utilizzo di CER.

Inutile sottolineare come tali percentuali – salvo quella base di cui al primo comma, che matura (o non matura) “in blocco” alla presenza delle due condizioni previste –siano ovviamente variabili, a seconda delle caratteristiche che il privato vorrà dare al proprio intervento, secondo un criterio di modularità i cui unici vincoli “esterni” alla progettazione sono rappresentati da: (a) rispetto delle condizioni di cui al comma 1 (b) disponibilità di CER e (c) rispetto del limite massimo invalicabile del 60% dell’esistente.

Per l’effetto, ben possiamo immaginare un intervento “a regime” ex lege 14/2019 che, sulla base dell’applicazione dell’art. 6, porti all’ampliamento – a titolo esemplificativo – del 35% di un edificio esistente, derivante per il 15% dalla soddisfazione delle condizioni del primo comma, per il 10% dall’applicazione variabile, secondo i criteri di cui all’allegato A, di misure di cui al comma terzo e, infine, per il restante 10% mediante utilizzo di CER. Rimane fermo che tale 35% potrebbe comunque, ove necessario, essere innalzato sino al 60% e che, rispetto a tale limite (o comunque al limite di ampliamento prefissato nel progetto), le due percentuali di ampliamento variabili (ovvero quella di cui al terzo comma e quella dei CER) potrebbero comunque ciascuna modificarsi – e conseguentemente modificare l’altra alla stregua di “vasi comunicanti” – a seconda della maggior o minor disponibilità di crediti o del più ampio o ridotto ricorso alle misure previste dal comma 3.

5. Il recupero dei sottotetti (comma 7)

Il comma 7 altro non fa se non riprendere pedissequamente quanto già disposto, in tutte e tre le versioni dell’ormai abrogato “Piano Casa”, in relazione all’utilizzo delle premialità di ampliamento mediante recupero di sottotetti.

Sul punto, appare quindi ancora opportuno far riferimento a quanto già ribadito nella più recente Circolare sul “Piano Casa”, ovvero che i sottotetti – purché soddisfino le condizioni minime fissate dalla l.r. n. 12/1999 – possono essere ricompresi negli interventi proposti anche dalla nuova legge, così tuttavia consumando in tutto o in parte l’ampliamento consentito. Restano ancor oggi esclusi da tale possibilità – al fine di evitare l’uso della norma a fini di sanatoria – i sottotetti che siano tuttora oggetto di contenzioso.

La novità introdotta dalla nuova legge riguarda, coerentemente con il venir meno di un limite temporale associato alla definizione di edificio esistente, l’eliminazione del limite temporale di esistenza anche per i sottotetti, per i quali dunque non vi è alcuna data – eccetto quella di entrata in vigore della legge in commento – alla quale fare riferimento al fine di poterli fare oggetto degli interventi di ampliamento previsti dall’articolo 6.

6. Ampliamenti di edifici composti da più unità immobiliari (comma 8)

Il testo in esame, esattamente com’è accaduto per il precedente comma 7, riporta sostanzialmente il testo del previgente comma quarto della l.r. n. 14/2009, con una novità, salve ovviamente le nuove e diverse percentuali di ampliamento concesse sulla base di “Veneto 2050”.

La conferma del testo è totale con riferimento al rispetto della disciplina dei rapporti condominiali, che di per sé vincola in modo piuttosto stringente ogni iniziativa edilizia che abbia ad oggetto (anche) le parti comuni degli edifici: per l’effetto, infatti, diviene necessario premunirsi di autorizzazione condominiale, da ottenere in base a diverse maggioranze, a seconda della natura dei lavori.

Sfugge a tale regola generale la sola sopraelevazione che, ai sensi dell’art. 1127 c.c., il proprietario dell’ultimo piano o del lastrico dell’edificio può realizzare autonomamente, ovvero senza alcun assenso dell’assemblea condominiale, in assenza di pregiudizio per le condizioni statiche del fabbricato, per il suo aspetto architettonico e senza diminuire notevolmente l’aria o la luce che accede ai piani sottostanti.

Proprio per tali ragioni, in un’ottica retrospettiva, ben possiamo affermare che i benefici concessi in quasi 10 anni dalla l.r. n. 14/2009 hanno trovato scarsa applicazione nei condomini, e quasi mai in relazione ad interventi che abbiano interessato l’intero edificio, ma – nella maggior parte dei casi – con riguardo per l’appunto ad alloggi ubicati all’ultimo piano che, nei limiti in cui ciò è consentito dal codice civile, sono stati ampliati in via autonoma e senza ricorrere necessariamente all’assemblea condominiale.

Data la conferma della formulazione della norma e il suo richiamo alla disciplina condominiale – formulazione che del resto non potrebbe essere differente, posto che i rapporti condominiali afferiscono al diritto civile e dunque la loro disciplina è sottratta alla potestà legislativa regionale – difficilmente si potrà assistere ad un ampio utilizzo dei benefici concessi anche da “Veneto 2050”, permanendo nella fattispecie quelle oggettive difficoltà (di varia natura ma essenzialmente connesse alla regolamentazione del condominio) che non hanno consentito in passato la realizzazione su vasta scala degli ampliamenti in deroga negli immobili condominiali.

La novità più importante riguarda invece le case a schiera. In questo caso assistiamo ad una sorta di “ritorno al passato”. Il Legislatore, infatti, ha ritenuto di fare “marcia indietro” sull’applicazione degli ampliamenti concessi per le case a schiera.

Rispetto all’articolo 2, comma 4, della l.r. n. 14/2009 infatti, è stato eliminato l’ultimo capoverso, che riportava l’eccezione all’uniformità dell’intervento su tutte le case a schiera in relazione alle “unità di testa che possono avere forma diversa”.

A tale riguardo, è utile fare un po’ di storia. Il “Piano Casa” ha sempre avuto una certa attenzione alle problematiche inerenti alle case a schiera, tipologia edilizia che ha vissuto un vero e proprio boom negli anni ‘80 e ‘90, occupando intere lottizzazioni in combinazioni architettoniche più o meno variegate, a seconda del contesto o delle caratteristiche progettuali che le caratterizzavano. Nella prima e seconda versione del “Piano Casa”, l’intervento nelle case a schiera era possibile, a condizione che vi fosse un progetto unitario che comprendesse l’intero edificio, ciò evidentemente per evitare che un ricorso disomogeneo di ogni singolo proprietario potesse in qualche modo stravolgere l’unitario disegno architettonico originario. La norma, con tale formulazione, manifestò nel tempo alcune criticità applicative, dovute essenzialmente alla difficoltà di ottenere il consenso unanime di tutti i proprietari ad un progetto unitario. Con il “Piano Casa ter”, per tentare di ovviare a tali difficoltà, venne quindi introdotta la possibilità, per le unità di testa, di eseguire in maniera autonoma il proprio progetto di ampliamento in applicazione del “Piano Casa”.

La nuova formulazione della norma ha permesso l’esecuzione di diversi interventi anche sulle case a schiera, agevolando così i proprietari delle unità di testa che – in genere – dispongono di un’area di pertinenza maggiore sulla quale effettuare l’ampliamento.

Nella versione odierna, tuttavia, si ritorna alla situazione precedente, con i limiti e le difficoltà interpretative che possono sorgere in alcuni casi (cosa si intende per modalità uniforme? l’intervento deve essere realizzato da tutti i proprietari della schiera o è sufficiente l’impegno a uniformarsi alla modalità di intervento concordata, ove si voglia procedervi, consentendo dunque che solo alcuni poi vi provvedano realmente?).

7. Ampliamenti di attività a cui si applicano le norme sullo Sportello Unico (comma 9)

Il comma 9 introduce un importante distinguo nella possibilità di giovarsi dei benefici accordati dal presente articolo agli edifici esistenti. Qualora l’ampliamento interessi un’attività produttiva di cui al d.P.R. 160/2010 (normativa regolante il noto procedimento di “Sportello Unico”) e sia superiore al 20% della superficie esistente, o comunque superiore a 1.500 metri quadri, infatti, il disposto in commento impone l’applicazione della l.r. n. 55/2012 (ovvero impedisce quella della l.r. n. 14/2019).

Per meglio comprendere la ratio della norma in commento, appare opportuno un breve passo indietro per esaminare la decennale prassi applicativa del Piano Casa alle attività produttive. Alla stregua della normativa abrogata, infatti, i proprietari di attività produttive, avevano due alternative procedimentali al fine di ampliare il proprio stabilimento di produzione di beni e servizi.

La prima strada – per così dire “ordinaria” – era infatti rappresentata proprio dall’applicazione della l.r. n. 55/2012 ed in particolare dagli artt. 3 (relativo agli interventi meno rilevanti e “realizzabili in deroga allo strumento urbanistico generale”) o 4 (relativo agli interventi “in variante allo strumento urbanistico generale”). L’altra strada – qualora l’attività produttiva fosse ubicata in zona propria – era costituita, per l’appunto, dall’applicazione del Piano Casa.

La scelta era nella piena disponibilità del privato, con il risultato, facilmente immaginabile, che nella stragrande maggioranza dei casi si è privilegiato il ricorso dell’applicazione del “Piano Casa”, marginalizzando in molti casi le pur “rodate” procedure di cui alla legge 55/2012.

Del resto, erano indubbi i vantaggi rappresentati dall’opzione “Piano Casa”: pur permettendo di raggiungere il medesimo obiettivo, quest’ultimo consentiva tempistiche più rapide, non imponeva il coinvolgimento del Consiglio Comunale e non poneva dubbi sul riconoscimento di un contributo straordinario (si veda sul punto la lettura della norma da ultimo privilegiata dal TAR Veneto con la sentenza n. 382/2018resa in relazione all’applicabilità dell’art. 16, co. 4, lett. d-ter), d.P.R. 380/2001 rispetto alle procedure SUAP).

Con la nuova legge, oggi, si pone fine a questa possibilità di scelta, quantomeno per gli interventi di maggior rilevanza: in alternativa agli strumenti dati in via ordinaria dalla l.r. n. 55/2012, le premialità previste dall’art. 6, l.r. n. 14/2019 potranno essere utilizzare solo per gli interventi di ampliamento di un’attività produttiva sino al 20% della superficie esistente ed in ogni caso fino ad un massimo di 1.500 mq; al di sopra di tale soglia, rimarrà per converso la sola possibilità di avvalersi delle disposizioni legislative di cui al d.P.R. n. 160/2010 ed alla l.r. n. 55/2012, seguendo i relativi procedimenti ed assumendo, ove previsti, i relativi oneri.

Con un’ulteriore attenzione: la norma fa espresso ma generico riferimento alle attività produttive di cui alla normativa sullo Sportello unico, ossia non si riferisce a quelle che “storicamente”, per così dire, sono state oggetto di procedure SUAP ma a tutte quelle attività a cui tali procedure sono astrattamente, applicabili. Considerando l’amplissima definizione di “attività produttive” recata dal d.P.R. n. 160/2010, è dunque bene sottolineare che non ci stiamo riferendo solo alle “fabbriche” ma, più in generale, alle “attività di produzione di beni e servizi, incluse le attività agricole, commerciali e artigianali, le attività turistiche e alberghiere, i servizi resi dalle banche e dagli intermediari finanziari e i servizi di telecomunicazioni” (cfr. art. 1, co. 1, lett. i), d.P.R. 160/2010).

Il che, in via indiretta, significa che quasi tutte le attività economiche sono sottoposte ai limiti di cui al presente comma e che – per l’effetto – l’art. 6, nell’interezza dei suoi benefici ed incentivi, si applica di fatto alla sola residenza o comunque a destinazioni non aventi rilievo imprenditoriale.

A margine, rimane da chiedersi cosa potrebbe accadere in quegli edifici la cui destinazione – come spesso accade nei centri cittadini – sia mista e comporti nel medesimo fabbricato la coesistenza di un mix di funzioni, laddove ad alcune di esse (residenziali) si applichi l’intero art. 6 e ad alcune altre (commerciali o direzionali) si applichi invece il limite di cui al comma 9. Come si calcolerà il beneficio concesso dalla legge? Per singole unità? E come calcolare il bonus rispetto ad eventuali parti comuni? Ci sembra in tal caso utile suggerire l’utilizzo del criterio della “prevalenza” della destinazione, così come precisato dall’art. 23ter, co. 2, d.P.R. 380/2001, secondo cui “la destinazione d’uso di un fabbricato o di una unità immobiliare è quella prevalente in termini di superficie utile”, con la conseguenza che la disciplina dell’intervento sull’intero edificio dovrà essere quella applicabile alla destinazione prevalente, in termini di superficie utile, all’interno di quell’edificio.

Commento all’art. 5 l.r. n. 14/2019

di Emilio Caucci

Articolo 5

Disposizioni per gli immobili pubblici
1. Gli immobili appartenenti ai comuni o ad altri enti pubblici possono generare crediti edilizi da rinaturalizzazione, anche in deroga ai criteri generali di cui alle lettere a), b) e c), del comma 1, dell’articolo 4; tali crediti sono destinati prioritariamente alla realizzazione degli interventi di ampliamento di cui all’articolo 6.
2. I comuni possono concludere accordi o intese con gli enti pubblici proprietari di edifici degradati per addivenire alla loro demolizione e alla rinaturalizzazione dell’area, riconoscendo agli enti proprietari adeguati crediti edilizi da rinaturalizzazione.
3. Le somme introitate, in apposito fondo comunale, a seguito della cessione nel mercato dei crediti edilizi generati da immobili di cui al comma 1, sono destinate prioritariamente ad interventi di demolizione di altri manufatti incongrui.

Sommario: 1. Il patrimonio immobiliare pubblico fra dismissioni e valorizzazione2. La valorizzazione in termini di credito edilizio3. Ambito di applicazione, struttura e ratio dell’articolo 54. Il primo comma: la deroga ai primi tre criteri generali dettati dalla Giunta regionale e la destinazione dei crediti di fonte pubblica4.1. La regola generale dell’incanto e le sue possibili declinazioni nel provvedimento della Giunta regionale a norma dell’articolo 4, comma 1, lettera d)4.2. La variante applicativa comunale di cui all’articolo 4, comma4.3. L’utilizzo “prioritario” dei crediti di fonte pubblica negli interventi di cui all’articolo 65. Il secondo comma: accordi e intese fra i Comuni e gli altri Enti pubblici proprietari – 5.1. Spazi discrezionali riconosciuti all’accordo6. Il terzo comma: la destinazione degli introiti 6.1. L’apposito fondo comunale7. Considerazioni ulteriori. Mancanza, allo stato, di incentivi fiscali (di fonte necessariamente statale)7.1. Cenni sulle diverse metodologie di determinazione dei crediti edilizi e sulla loro applicazione ai crediti di fonte pubblica

1. Il patrimonio immobiliare pubblico fra dismissioni e valorizzazione

Il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha recentemente censito il numero e il valore patrimoniale dei fabbricati di proprietà pubblica in Italia (cfr. Comunicato stampa n. 76 del 9 maggio 2018). Si tratta di circa un milione di unità catastali, per una superficie pari a 325 milioni di mq. ed un valore stimato in 283 miliardi, di cui poco meno del 10% (27,56 miliardi) in Veneto.

Il 74% del valore di questo immenso portafoglio immobiliare è riconducibile a fabbricati di proprietà delle Amministrazioni locali.

Il restante 26% è ripartito tra Amministrazioni centrali (17%), Amministrazioni locali non incluse nel perimetro di consolidamento dei conti pubblici, tra cui gli enti territoriali per l’edilizia residenziale (6%), ed enti pubblici di previdenza e assistenza (3%).

Sempre da questo censimento, risulta che il 77% del valore immobiliare complessivo è espresso da fabbricati utilizzati direttamente dalla P.A. e quindi non disponibili nel breve o medio termine per progetti di valorizzazione e dismissione. Il restante 23% si divide tra edifici dati in uso, a titolo gratuito o oneroso, a privati (51 miliardi), edifici in ristrutturazione (3 miliardi) ed edifici effettivamente non utilizzati (12 miliardi)[1]. Una buona metà del patrimonio “non utilizzato” consiste in caserme e altri edifici con caratteristiche tipologiche fuori mercato.

Questi dati, pur scontando una inevitabile approssimazione di massa, esprimono un buon livello conoscitivo di una realtà complessa e chiariscono, per quanto qui interessa, che gli edifici pubblici passibili di totale dismissione, o addirittura di demolizione creativa di valore, sono una piccola parte del totale, comunque economicamente significativa. In questo ristretto novero vanno ricercati quelli non più “congrui” secondo le definizioni della l.r. n. 14/2017, ripresa dall’articolo 2 della nuova legge. Alcuni di questi giacciono abbandonati in attesa di decisioni, altri in rovina, gli uni e gli altri senza esonerare nel frattempo l’Ente proprietario dai costi di gestione, manutenzione o messa in sicurezza; altri edifici sono semplicemente troppo costosi da recuperare, alla luce degli standard energetici e prestazionali attuali.

L’obiettivo dell’articolo 5 è ritrarne ancora un valore, riqualificando il territorio.

2. La valorizzazione in termini di credito edilizio

Per anni, il dibattito generale sugli immobili pubblici passibili di dismissione è rimasto confinato al rapporto fra vendita (o svendita) e riduzione del debito pubblico.

Negli ultimi tempi, complice l’esito spesso deludente delle dismissioni e della stagione delle cd. “cartolarizzazioni”, il baricentro si è progressivamente spostato verso una valorizzazione patrimoniale attiva, in due direzioni: l’investimento sull’edificio stesso in termini di riqualificazione, cioè un rilancio ambizioso anche se non sempre nelle corde e nelle possibilità della mano pubblica, e la assegnazione di un valore “estrinseco” alla volumetria in sé quale risorsa limitata su base territoriale, potenzialmente trasferibile e circolante come credito edificatorio.

La prassi, come sempre, ha preceduto la legislazione: l’inserimento di crediti edilizi pubblici nell’apposito registro è già in atto da anni presso alcuni Comuni (per esempio a Verona), i quali non sempre hanno avvertito l’esigenza o la necessità di stabilire regole distinte da quelle valevoli per gli altri crediti.

Infine, la legge n. 14/2017 ha creato i presupposti per una ulteriore riflessione, e per una regolazione più specifica dell’estensione del credito edilizio da rinaturalizzazione (ossia da demolizione integrale) anche agli edifici di proprietà dei comuni o di altri enti non più strumentali alla funzione e privi di qualsiasi intrinseco valore per la collettività.

L’articolo 5 si occupa di questo tema e lo fa, come spesso accade per le previsioni innovative, con disposizioni scarne e di principio, peraltro abbastanza chiare.

3. Ambito di applicazione, struttura e ratio dell’articolo 5

L’articolo 5 anzitutto non fa distinzioni fra tipologie di beni immobili appartenenti ai comuni o ad altri enti pubblici, né reca limiti dimensionali o tipologici, sicché pare estensibile agli immobili “incongrui” già appartenenti al cd. demanio necessario purché sdemanializzati[2] e a quelli già iscritti nel patrimonio indisponibile purché ne sia cessata la destinazione all’uso pubblico: dunque anche a caserme o scuole dismesse, magazzini in disuso, attrezzature sportive abbandonate o incompiute.

L’articolo 5 non fa distinzioni neppure riguardo al concetto di “ente pubblico”, che va quindi inteso in senso ampio, potenzialmente inclusivo di qualsiasi ente, locale o centrale, economico (come l’Agenzia del Demanio[3]) o non economico. Sembrano escluse le società partecipate, i cui crediti restano perciò disciplinati dalle regole generali.

La struttura dell’articolo può riassumersi come segue.

Il primo comma attribuisce ai crediti edilizi di fonte pubblica uno statuto marcatamente speciale e derogatorio e ne indica la destinazione prioritaria – l’ampliamento ai sensi dell’art. 6. Il secondo comma lascia alla negoziazione fra comuni ed enti pubblici proprietari di singoli edifici degradati un ampio spazio discrezionale per stabilire, caso per caso, le condizioni della demolizione e della rinaturalizzazione dell’area contro “adeguati” crediti edilizi. Il terzo comma completa la disciplina del primo, stabilendo come debbano essere usati “prioritariamente” gli introiti dalla commercializzazione dei crediti edilizi comunali e degli altri enti pubblici: per finanziare altri interventi di demolizione di manufatti incongrui.

L’articolo 5 istituzionalizza quindi il concorso dei crediti da naturalizzazione di fonte pubblica con quelli di fonte privata.

Tale convivenza potrebbe rivelarsi non semplice. Essa tuttavia dipende in qualche modo dall’articolata ratio di fondo della norma: al di là della riqualificazione del territorio in sé, che non fa distinzione fra manufatti incongrui pubblici e privati, e al di là anche delle consuete e comprensibili istanze di finanza pubblica, c’è anche l’esigenza di calmierare il mercato dei crediti edilizi sia in termini di quantità assolute di crediti disponibili, sia in termini di corrispettivo. La stessa “priorità” assegnata dal primo comma agli interventi di ampliamento di cui all’art. 6) sembra un riflesso di tale ultima esigenza, un’espressione cioè della volontà di favorire i piccoli interventi e di evitare, fin quando possibile, accaparramenti e rendite di posizione di soggetti privati economicamente forti e strutturati.

L’art. 5 è peraltro strettamente collegato alla lettera d) del 1° comma dell’art. 4, cioè ai criteri operativi che la Giunta regionale dovrà inserire nella delibera di cui all’art. 4, comma 2, l.r. n. 14/2017 per la regolazione della cessione sul mercato dei crediti edilizi da rinaturalizzazione generati da immobili pubblici “comunali”. Per tale ragione, anche tale ultima previsione verrà trattata in questa sede di commento all’articolo 5.

4. Il primo comma: la deroga ai primi tre criteri generali dettati dalla Giunta regionale e la destinazione dei crediti di fonte pubblica

Il primo comma riconosce espressamente agli immobili pubblici la capacità di generare crediti edilizi da rinaturalizzazione, cioè compensativi di una demolizione completa ai sensi dell’art. 2, comma 1, lett. d), “anche in deroga ai criteri generali di cui alle lettere a), b) e c), del comma 1, dell’articolo 4”. Ne consegue che, per la “generazione” dei crediti derivanti dagli immobili pubblici, i criteri generali stabiliti dalla Regione per l’attribuzione, la determinazione, l’iscrizione dei crediti e per la fissazione delle modalità di accertamento dell’avvenuta rinaturalizzazione non sono vincolanti.

Questa differenziazione non deve sorprendere: i crediti derivanti dalla demolizione di edifici pubblici sono diversi dagli altri già a partire dalla destinazione urbanistica d’origine, che normalmente è una componente dell’ammontare dei crediti; molti immobili pubblici, poi, hanno caratteristiche fuori mercato (si pensi alle caserme) e quindi non si prestano a valutazioni comparative; né per gli edifici di proprietà pubblica si pone – non almeno allo stesso modo – l’esigenza di accertare l’avvenuto “completamento dell’intervento demolitorio e la rinaturalizzazione” (secondo le modalità rimesse alla delibera di Giunta regionale: art. 4, comma 1, lett. c)).

D’altra parte, solo coll’introduzione di un regime autonomo da quello degli altri crediti il legislatore regionale avrebbe potuto perseguire e presidiare la finalità sottesa al concorso dei crediti di fonte pubblica con quelli di fonte privata, cioè fungere da elemento equilibratore del mercato e garantire una disponibilità di crediti agli interventi di solo ampliamento.

Il fatto che i Comuni non siano vincolati al rispetto dei criteri stabiliti dalla Giunta regionale per i crediti privati da rinaturalizzazione, e siano invece tenuti ad applicare quelli specificamente dettati “per la cessione sul mercato di crediti edilizi da rinaturalizzazione generati da immobili pubblici comunali” (art. 4, comma 1, lettera d) cit.), non deve portare a concludere che non esistano regole o principi di cui tenere conto: l’espressione “anche in deroga ai criteri generali di cui alle lettere a), b) e c), del comma 1 dell’articolo 4”, infatti, sembra suggerire che tali criteri laddove compatibili restino un parametro di riferimento, motivatamente derogabile.

4.1. La regola generale dell’incanto e le sue possibili declinazioni nel provvedimento della Giunta regionale a norma dell’articolo 4, comma 1, lettera d)

L’oggetto principale dei criteri operativi regionali di cui al comma 1, lett. d) dell’art. 4 sarà la regolazione della prima commercializzazione dei crediti da rinaturalizzazione generati da immobili pubblici.

A guidare il legislatore regionale è stata probabilmente la consapevolezza che i crediti edilizi contemplati dall’art. 5 sono pur sempre beni pubblici che, come tali, devono confrontarsi con la regola generale dell’incanto[4].

In via generale, si suole dire che la regola dell’incanto tutela almeno tre interessi: quello economico dell’Amministrazione, riconducibile al principio di buon andamento sancito dall’art. 97 Cost.; quello alla parità di trattamento tra potenziali contraenti, riconducibile principalmente all’art. 3 Cost.; e infine quello alla concorrenza tra le imprese, riconducibile principalmente ai principi dell’ordinamento comunitario. Si è osservato al riguardo che “l’asta è uno strumento di emulazione del mercato, che in molti casi serve a rimediare alla limitata conoscenza di un certo mercato da parte della pubblica amministrazione: poiché l’amministrazione non sa quale è l’impresa in grado di offrire le migliori condizioni, la seleziona con una gara. Non è questo il caso nelle vendite immobiliari, in cui si tratta di individuare non un’impresa che venda qualcosa, ma un acquirente che compri un certo bene; non la migliore prestazione disponibile, ma il soggetto disposto a offrire la cifra maggiore per quel bene. In altri termini, si tratta di paragonare non imprese e offerte, ma qualcosa di ancora meno prevedibile e misurabile, cioè l’interesse dei diversi potenziali acquirenti, che è (non semplicemente difficile, ma) impossibile da accertare in altro modo. In questo caso, quindi, l’asta non è un second best neanche in astratto, ma l’unica soluzione per giungere al risultato ottimale dell’offerta più alta[5].

La trattativa privata nella vendita dei beni pubblici è un’eccezione, che ricorre solo quando, per speciali ed appunto eccezionali circostanze non possano essere utilmente esperiti i pubblici incanti ovvero quando gli incanti e le licitazioni siano andate deserte o si abbiano fondate prove per ritenere che ove si sperimentassero andrebbero deserte (cfr. art. 41 R.D. n. 827/1924[6]).

Certamente non si possono applicare ai crediti edilizi le norme derogatorie che lo Stato ha dettato per facilitare l’alienazione dei propri immobili (cfr. art. 3, comma 99, l. n. 662/1996; art. 1, decreto-legge n. 332/1994; art. 7, decreto-legge n. 282/2002; art. 1, commi 433, 436, 437 e 438 l. n. 311/2004; art. 11-quinquies, decreto-legge n. 203/2005; art. 2, comma 223, l. n. 191/2009[7]).

Da queste premesse generali si trae la conclusione che non è nemmeno concepibile per i crediti edilizi pubblici una deroga totale e generalizzata alla regola dell’incanto.

Se però per la cessione dei crediti edilizi pubblici tutto converge, a livello di principio, verso la necessità di una procedura di evidenza pubblica, precisamente di un “incanto” ossia un’asta con possibilità di rilanci, la questione si complica assai a livello pratico, a cominciare dal fatto che l’oggetto della procedura non dipende dall’offerta pubblica, che di per sé include contemporaneamente tutti i crediti registrati dall’Ente, ma dalla domanda, e proseguendo col fatto che tutti i crediti, pubblici e privati, confluiscono pur sempre nello stesso registro generale: ciò impone di chiedersi quali siano il ruolo e la possibile utilità di un doppio regime di commercializzazione. Semplificando il ragionamento, può dirsi che il grado di utilità pratica dell’incanto (che suppone un confronto fra aspiranti acquirenti) è inversamente proporzionale alla quantità di crediti edilizi privati ancora disponibili, mentre è direttamente proporzionale al grado di vincolatività dell’utilizzo, in certe aree riceventi, di crediti di fonte pubblica anziché di quelli di fonte privata.

La stessa procedura di evidenza pubblica è difficile da declinare sul piano concreto: la pubblicità è garantita a monte dal Registro, mentre è tutta da costruire la regolazione della scelta del contraente (acquirente), a cominciare dall’elemento “prezzo”, che non sembra essere per i crediti pubblici l’unico elemento valutabile dell’offerta.

In altre parole, è lecito attendersi che il criterio di scelta dell’acquirente non si esaurirà nell’elemento economico ma si estenderà alla valutazione degli altri elementi comunicati dal richiedente: la qual cosa non sarebbe peraltro una novità, visto che già gli attuali regolamenti comunali per la gestione dei crediti edilizi e del registro dei crediti edilizi[8] prevedono che l’interessato, nel presentare la propria richiesta all’Ufficio preposto, specifichi non solo le quantità di “credito” che intende utilizzare o la proprietà del credito cui intende accedere, ma anche l’area specifica già edificabile (foglio e mappale) dove intende utilizzare il credito, o il tipo di utilizzo della potenzialità edificatoria richiesta con descrizione del contesto urbanistico di riferimento, prima e dopo l’intervento.

Al contempo, si deve considerare che soltanto una domanda qualificata dall’utilizzo finale (ampliamento piuttosto che sostituzione edilizia) potrebbe permettere al Comune di verificare l’uso “prioritario” dei crediti di origine pubblica negli interventi di cui all’art. 6 (v. infra).

Potrebbero inoltre trovare cittadinanza in certi casi limitati anche dei criteri aggiuntivi, di tipo tecnico-qualitativo, capaci di selezionare come migliore offerente il soggetto disposto a diventare partner del Comune nell’ambito di un’operazione complessa di riordino urbano, con relativi obblighi, diritti e facoltà.

Il problema di fondo, di non facile soluzione, è però come conciliare tutti questi ulteriori elementi di valutazione “di merito” col principio di libera circolazione dei crediti edilizi fissato in via generale, e non per i soli crediti di origine privata, dall’art. 4, comma 5, della legge: se infatti per aggiudicarsi i crediti iscritti dal Comune sarà necessario impegnarsi a usarli in un ampliamento, l’acquirente non potrà che usarli direttamente o vincolarsi a rivenderli solo a chi a sua volta intenda usarli allo stesso modo, il che (al netto della difficoltà di immaginare verifiche e o sanzioni applicabili ai successivi aventi causa) sposterà solo la questione a valle visto che anche tale ultimo acquirente dovrebbe a sua volta obbligarsi.

In attesa che la Giunta regionale definisca la questione, è presumibile che alla fine si scelga di prevedere come regola di base la pubblicazione in ogni caso dell’offerta pervenuta e l’assegnazione di un termine di rilancio a chi volesse concorrere in tutto o in parte per gli stessi crediti.

Un possibile criterio preferenziale potrebbe essere accordato, oltre che a chi offre di più per la stessa quantità di crediti[9], a chi sia disposto ad acquistare più crediti, e soprattutto (se si risolve il problema del rapporto col principio della libera circolazione) a chi intendesse acquistarli in funzione di un determinato utilizzo ritenuto a monte maggiormente rispondente al pubblico interesse.

Si potrebbe pensare, ancora, a una distinzione fra crediti pubblici in tutto omogenei a quelli privati e crediti pubblici “speciali” in quanto esercitabili solo in certe aree riceventi (sul tema, torneremo fra poco), e consentire ai secondi di essere messi sul mercato a trattativa privata coi soli proprietari interessati.

Come si vede, le soluzioni e soprattutto le ipotesi sono molteplici, come spesso avviene nelle materie esplorate tanto nella teoria quanto poco nella pratica.

Già solo questo fa capire come il successo applicativo dell’art. 5 dipenderà in larga misura dal modo in cui la Giunta regionale intenderà assolvere il compito assegnatole dall’art. 4, comma 1, lett. d), indicando appunto i casi e le modalità di svolgimento delle procedure volte a mettere sul mercato i crediti comunali: compito non facile, tenuto conto che la risorsa è limitata ma non esclusiva (il Registro contiene infatti anche i crediti di fonte privata), che una vera concorrenza fra richiedenti potrebbe profilarsi solamente quando davvero non siano disponibili o convenienti crediti di origine privata, utilizzabili senza le formalità e senza oneri di procedura, o quando a causa della pianificazione due o più aree debbano contendersi inevitabilmente crediti di origine pubblica.

4.2. La variante applicativa comunale di cui all’articolo 4, comma 2

La variante comunale applicativa di cui al secondo comma dell’art. 4 è la sede naturale per stabilire una disciplina locale di dettaglio o anche di deroga per i crediti edilizi comunali da rinaturalizzazione di cui all’articolo 5.

Sarà infatti tale variante, da approvare ai sensi del secondo comma dell’art. 4 entro dodici mesi dall’adozione del provvedimento della Giunta regionale di cui al primo comma del medesimo articolo, e successivamente con cadenza annuale, a individuare (tutti) i manufatti incongrui la cui demolizione sia di interesse pubblico, ad attribuire crediti edilizi da rinaturalizzazione sulla base dei parametri ivi indicati, a definire le condizioni della demolizione “del singolo manufatto” e della rinaturalizzazione del suolo, a individuare eventuali aree riservate all’utilizzo di (tutti) i crediti edilizi da rinaturalizzazione o delle aree “nelle quali sono previsti indici di edificabilità differenziata in funzione del loro utilizzo”.

Si tratta di un compito non facile per il Comune, proprio per la particolarità degli edifici pubblici[10].

I Comuni hanno tutto l’interesse a rendere appetibili i propri “crediti” da demolizione e sanno bene che tale appetibilità può dipendere talora dalla possibilità di riservare a tali crediti l’indice incrementale di alcune aree piuttosto che di altre.

In questa prospettiva, ci si deve chiedere se il Comune interessato possa stabilire una “priorità” anche nel senso di limitare ai soli crediti di fonte pubblica l’incremento premiale di una determinata area, se possa farlo con la variante semplificata di attuazione dei criteri operativi regionali di cui al secondo comma dell’art. 4, e come ciò interagisca con l’incanto prescritto in via generale in caso di commercializzazione di beni pubblici.

Come detto anche in sede di commento all’art. 4, cui si rinvia, la variante comunale applicativa deve stabilire in generale non solo il “valore derivante alla comunità e al paesaggio dall’eliminazione dell’elemento detrattore” in base a certi parametri (localizzazione, consistenza, costi di demolizione, bonifica e rinaturalizzazione; differenziazione in funzione delle tipologie di aree o zone di successivo utilizzo), ma anche individuare “eventuali aree riservate all’utilizzazione di crediti edilizi da rinaturalizzazione, ovvero delle aree nelle quali sono previsti indici di edificabilità differenziata in funzione del loro utilizzo” (così il comma 2, alle lettere a), b) e c)).

Può tale ultima previsione legittimare una “riserva” all’utilizzo di soli crediti di fonte pubblica?

La questione non si pone quando i crediti siano utilizzabili nello stesso perimetro urbano da cui originano ossia in un ambito comprensivo di edifici pubblici e privati, da attuare unitariamente.

Si pone per altri ambiti non vincolati ab origine all’attuazione unitaria, e implica un attento confronto con i principi generali, come la parità di trattamento, con i limiti naturali dell’azione amministrativa nel libero mercato, e appunto con l’obbligo generale dell’incanto.

La legge, nell’attribuire alla variante comunale la possibilità di porre condizioni cui subordinare la demolizione “del singolo manufatto” (così la lett. b), con probabile riferimento però alle condizioni materiali) e soprattutto quella di individuare aree “riservate all’utilizzazione di crediti edilizi da rinaturalizzazione” differenziando gli indici, non sembra escludere del tutto una ragionata soluzione positiva al quesito.

In attesa di verificare se la Giunta regionale vorrà definire anche tale questione, è da ritenere che sia possibile riconoscere ai Comuni il potere di differenziare anche in questo senso, con la variante applicativa, l’uso dei crediti di fonte pubblica, purché ciò avvenga in un ambito di ragionevolezza e senza creare una sorta di gerarchia assoluta fra crediti a danno di quelli privati.

Bisogna partire dalla constatazione che ogni credito edilizio sorge e dipende in definitiva dalle scelte amministrative del Comune, a ciò legittimato dalla legislazione statale (cfr. gli incrementi premiali di cui all’art. 1, comma 259, l. n. 244/2007) e naturalmente da quella regionale (art. 36, comma 4, l.r. n. 11/2004, secondo cui “Il PI individua e disciplina gli ambiti in cui è consentito l’utilizzo dei crediti edilizi, prevedendo l’attribuzione di indici di edificabilità differenziati in funzione degli obiettivi di cui al comma 1 ovvero delle compensazioni di cui all’articolo 37”).

Il credito edilizio è dunque espressione del potere conformativo spettante ai Comuni nella propria attività di pianificazione del territorio, alla quale è connaturata la facoltà intrinsecamente disuguagliante di porre condizioni e limiti al godimento del diritto di proprietà, anche di cubatura, volti al perseguimento di obiettivi di interesse generale realizzabili ad iniziativa privata o mista pubblico-privata. Lo stesso Registro dei crediti è del resto uno strumento funzionale al governo del territorio e per questo è parte integrante del Piano degli Interventi, le cui norme – da adeguare ora necessariamente alla nuova legge – devono regolarne la trasferibilità, l’utilizzo nell’ambito dei titoli abilitativi o dei piani attuativi, la compatibilità col PAT e con la disciplina urbanistica sovraordinata.

Pertanto, così come il Comune in sede di pianificazione può stabilire indici diversi “in funzione degli obiettivi di cui al comma 1” dell’art. 36 cit. (applicabile per tutto quanto non diversamente disposto dalla legge in commento, in forza dell’art. 4, comma 6), o può riservare aree all’utilizzo di crediti da rinaturalizzazione, altrettanto può ritenersi che possa assegnare e localizzare premialità condizionate all’acquisizione di crediti di fonte pubblica, in funzione dell’interesse pubblico al raggiungimento di determinati obiettivi e priorità di riqualificazione e col solo ma rigoroso limite generale della buona motivazione, che dovrà dare conto dell’esistenza del collegamento di dipendenza dell’intervento dalla contemporanea demolizione di alcuni volumi pubblici e non di altri privati. Tale dipendenza perciò non può mai essere motivata da mere ragioni economiche, ma da ragioni di politica urbanistica, ad esempio da necessità di riordino urbanistico comunque contestuale di determinati spazi urbani, o dalla previsione di un possibile accordo pubblico-privato che leghi la sorte di due aree (anche in ragione di quanto prevede l’art. 3, comma 3, lett. m) della l.r. n. 14/2017), o ancora e similmente dalla necessità che l’intervento premiato paghi crediti alla collettività per consentire o favorire altrove determinate azioni pubbliche di demolizione ad esso funzionalmente collegate, anche solo in parte, dallo strumento urbanistico (ad es. in un comparto discontinuo o “ad arcipelago” o in altre forme ancora).

Al di fuori di questi limiti, di ordine prettamente urbanistico, non sembra possibile che il Comune stabilisca per certe aree riceventi vincoli di esclusività o anche solo di priorità nell’utilizzo dei crediti edilizi pubblici a scapito di quelli privati, tenuto conto non solo del principio generale di libera commerciabilità dei crediti da rinaturalizzazione stabilito dal quinto comma dell’art. 4, che riguarda più che altro il negozio giuridico di trasferimento, ma anche dei principi costituzionali di uguaglianza, di libera iniziativa economica, di tutela della proprietà (artt. 3, 41 e 42 Cost.), e non ultimo anche dell’obbligo di pubblico incanto, che implica la ricerca della massima partecipazione privata[11].

4.3. L’utilizzo “prioritario” dei crediti di fonte pubblica negli interventi di cui all’articolo 6

Il primo comma dell’articolo 5 precisa che i crediti pubblici sono utilizzati nelle aree riceventi “prioritariamente” per gli ampliamenti di cui all’articolo 6, il cui comma 6 stabilisce appunto che “Le percentuali di cui ai commi 1 e 3 possono essere elevate fino al 60 per cento in caso di utilizzo, parziale od esclusivo, dei crediti edilizi da rinaturalizzazione”.

L’utilizzo dei crediti in parola nella sostituzione edilizia (art. 7), perciò, non è escluso ma relegato in posizione subordinata.

Con questa previsione, introdotta nel corso dell’iter consiliare, il legislatore regionale sembra esprimere una volontà di sostenere coi crediti pubblici anzitutto gli interventi di tipo “familiare”, sul presupposto statistico che quelli sostitutivi siano invece alla portata di imprese e in genere di soggetti economicamente più strutturati. Meno probabile è che il rapporto di priorità sia stato introdotto per motivazioni economiche ossia nella consapevolezza, indotta dall’esperienza di questi dieci anni di applicazione del “Piano Casa”, che gli ampliamenti sono più numerosi delle sostituzioni edilizie e quindi in grado di richiedere e assorbire più crediti: alla lettera, infatti, la “priorità” non è imposta ai privati che eseguono gli interventi ma, in direzione inversa, ai Comuni che generano i crediti.

Se questa è la lettura corretta della ratio della previsione preferenziale, si apre qui un altro spazio importante e problematico per il provvedimento della Giunta regionale di cui all’art. 4, comma 1, lett. d): la disposizione di legge non chiarisce infatti come e fino a quando i crediti di origine pubblica debbano essere impiegati per gli ampliamenti pur in presenza di una domanda proveniente da sostituzioni edilizie. Né si coordina facilmente – come abbiamo già detto con riferimento a qualsiasi criterio diverso da quello economico – col principio della libera circolazione, il quale suppone che il credito possa passare di mano più volte prima di “atterrare” in un’area ricevente.

Un possibile criterio attuativo potrebbe essere quello di stabilire la priorità solo in caso di compresenza effettiva e allo stesso tempo di più domande che possano esaurire il credito di origine pubblica: come a dire, se il credito non basta per tutti, è da preferire la sua destinazione agli ampliamenti, se e in quanto dichiarata dall’offerente, col risultato ed il rischio di orientare però la domanda generale verso i crediti privati che non soffrono di limitazioni particolari. Di sicuro, è difficile immaginare che un credito edilizio di cui al comma 1 – magari consistente – possa essere negato o sospeso a chi chiede di impiegarlo in un intervento sostitutivo, solo perché non sono ancora pervenute domande per impiegarlo (in tutto o più probabilmente solo in parte) in qualche ampliamento.

Ancora, a presidio dell’effettivo impiego dei crediti nella realizzazione degli ampliamenti di cui all’art. 6, non potendosi impedire a monte la libera circolazione dei crediti si potrebbe intervenire a valle, a livello negoziale e dunque volontario, col prevedere l’introduzione nell’atto notarile traslativo e trascrivibile di clausole penali per il caso in cui l’acquirente si renda inadempiente, cioè non rispetti l’impegno dichiarato, ad esempio perché rivende i crediti a soggetti interessati a realizzare altri tipi di interventi.

5. Il secondo comma: accordi e intese fra i Comuni e gli altri Enti pubblici proprietari

Il Comma 2 riafferma e accentua il ruolo centrale regolatorio dei Comuni, con lo stabilire che “I comuni possono concludere accordi o intese con gli enti pubblici proprietari di edifici degradati per addivenire alla loro demolizione e alla rinaturalizzazione dell’area, riconoscendo agli enti proprietari adeguati crediti edilizi da rinaturalizzazione”.

Si tratta di una fattispecie diversa da quella del comma 1, autonomamente disciplinata.

In questo caso, sembra che la misura “adeguata” dei crediti dipenda proprio e solo dall’accordo o dall’intesa di volta in volta conclusi dal Comune con altro ente pubblico proprietario di edifici degradati, non da criteri della Giunta regionale e neppure dalla variante o in generale dalla pianificazione comunale.

L’espressione “accordi o intese” pare un’endiadi: tuttavia, nel linguaggio del diritto pubblico l’intesa fra Enti ha natura di indirizzo politico-amministrativo e consiste solitamente in un atto di governance per convergere su obiettivi da regolare poi con uno strumento convenzionale compiuto, in questo caso l’accordo. L’intesa perciò non ha normalmente un valore vincolante dal punto di vista giuridico e si atteggia ad atto preliminare all’approvazione di un accordo o di una convenzione impegnativa che disciplini nel dettaglio le forme di impegno istituzionale, gli aspetti economici, i tempi e le modalità, la durata.

Nel caso di specie, l’accordo contemplato dalla disposizione in commento sembra essere una tipologia di accordo di programma fra enti pubblici, al quale nulla esclude che venga conferito effetto di “variante”, in presenza dei relativi requisiti.

5.1. Spazi discrezionali riconosciuti all’accordo

Il senso primo della disposizione sembra essere quello di attribuire a questo accordo un ruolo pressoché esclusivo nella disciplina della fattispecie.

Una conferma sistematica di ciò è data dal fatto che, come detto, la Giunta regionale è chiamata a dettare ai Comuni i criteri operativi da osservare per la cessione dei crediti edilizi generati da immobili pubblici comunali, mentre nulla dispone sugli immobili degli altri enti pubblici (art. 4, comma 1, lett. d).

Se dovesse essere inteso e soprattutto applicato in questa prospettiva, perciò, l’accordo di cui al comma 2 potrà tradursi in uno strumento di eccezionale portata e rilevanza, lasciato sostanzialmente alla discrezionalità e alla capacità di programmazione e gestione degli enti, libero da vincoli o criteri particolari e sottoposto solo ai principi generali di buon andamento e ragionevolezza dell’azione amministrativa. Tali principi sono comunque sufficienti a imporre, sempre e comunque, una piena trasparenza e una compiuta giustificazione delle scelte, e a vietare ogni arbitrio nella determinazione dei crediti e della misura della loro “adeguatezza”.

L’accordo dovrebbe contenere in pratica l’intera disciplina operativa di riferimento e quindi definire i tempi, i costi e le incombenze della demolizione e dell’eventuale bonifica, e in questo senso potrebbe attribuire al Comune almeno una parte dei crediti se e in quanto sia il Comune ad accollarsi alcuni costi, o prevedere per fini di pubblico interesse che le aree rinaturalizzate a seguito di demolizione siano messe a disposizione della collettività locale, o ancora delegare il Comune a procedere alla vendita a terzi dei crediti edilizi per conto degli enti pubblici proprietari; in generale, sembra demandata all’accordo la declinazione nel singolo intervento di tutti i contenuti che normalmente negli altri casi sono dettati dalla variante comunale di cui all’art. 4, comma 2.

6. Il terzo comma: la destinazione degli introiti

Il terzo e ultimo comma prevede l’istituzione di un apposito fondo comunale per le somme ricavate dalla vendita dei crediti sia del Comune che degli altri enti pubblici, che “sono destinate prioritariamente ad interventi di demolizione di altri manufatti incongrui”.

Tale espressione si riferisce a manufatti diversi da quello che genera il credito edilizio (“altri manufatti incongrui”) e pone un vincolo preferenziale di destinazione che, se non esclude altri utilizzi, li rende eccezionali e li subordina ad adeguata motivazione. Può essere però interpretata anche in un senso più stingente e vincolistico per i Comuni ossia come obbligo di impiegare i ricavi in interventi di demolizione fino a esaurimento di questi.

Molto diversa era la corrispondente disposizione del progetto di legge licenziato dalla Giunta (ivi art. 6, comma 3), secondo la quale “Per gli immobili pubblici comunali di cui siano programmati la demolizione e il successivo intervento di rinaturalizzazione o comunque la realizzazione degli interventi di cui al comma 2, i comuni, dopo l’approvazione da parte della Giunta regionale dei criteri di cui all’articolo 5, comma 1, lettera e) (corrispondente all’attuale art. 4, comma 1, lett. d) – n.d.r.), possono procedere alla cessione nel mercato dei crediti edilizi generati da tali immobili, fermo restando che le somme al riguardo introitate sono vincolate ad interventi di demolizione di manufatti che generano il credito edilizio”. Questa prima versione della norma stabiliva un vincolo di destinazione dei ricavi assoluto e non una semplice “priorità”, e supponeva la successiva e non preventiva demolizione del manufatto pubblico incongruo e l’utilizzo quindi di un credito edilizio già generato con la sola previsione della demolizione per finanziare anzitutto quella stessa demolizione e poi col residuo la demolizione anche di altri manufatti; corrispondentemente, i “criteri operativi” della Giunta riguardavano la cessione nel mercato dei crediti generati da immobili pubblici comunali “di cui è programmata la demolizione con successivo intervento di rinaturalizzazione”.

Nella versione approvata dal Consiglio regionale, invece, la “destinazione” dei ricavi è “prioritaria”, e non è necessariamente limitata alla demolizione di edifici pubblici o alla generazione di crediti edilizi: la disposizione si riferisce generalmente agli “altri manufatti incongrui”.

Si può quindi immaginare sia un “circolo virtuoso” in cui i crediti siano usati per demolire manufatti pubblici e generare così altri crediti edilizi pubblici, sia un utilizzo dei ricavi per finanziare la demolizione di manufatti privati, quando riconosciuta di interesse pubblico dal Comune con la variante di cui all’art. 4, comma 2. In tale secondo caso, peraltro, l’impiego dei crediti presuppone un convenzionamento.

6.1. L’apposito fondo comunale

La disposizione prevede che somme vengano introitate “in apposito fondo comunale”.

Tale fondo comunale di finanziamento delle demolizioni concorre pertanto, nell’obiettivo, con quello regionale istituito ai sensi dell’art. 10 della l.r. n. 14/2017 per l’esecuzione degli interventi di demolizione integrale di cui all’art. 5, comma 1, lett. a) della medesima legge: tale istituto regionale ha già trovato prima attuazione col Bando pubblicato con DGR n. 1133 del 31 luglio 2018, al quale hanno potuto partecipare i Comuni, gli enti pubblici, gli organismi di diritto pubblico ed associazioni, singolarmente o in forma associata, ma anche soggetti privati.

È ragionevole ritenere che la disciplina del funzionamento dell’“apposito fondo comunale” sia stata lasciata consapevolmente all’autonomia del Comuni, vista la scala locale e la natura puntuale degli interventi da sostenere: la Giunta regionale non si occuperà del tema col provvedimento di cui all’art. 4, comma 1, lett. d), visto che non riguarda i “criteri operativi” per la cessione sul mercato dei crediti edilizi da rinaturalizzazione generati da immobili pubblici “comunali”.

Sarà interessante verificare quindi se e in quale misura nell’istituire il proprio fondo dedicato i Comuni vorranno replicare su scala locale, mutatis mutandis, il modello regionale, delineato dal provvedimento della Giunta regionale previsto dall’art. 4, comma 2, lett. g) della l.r. n. 14/2017, o se vorranno seguire impostazioni completamente diverse.

Il “fondo comunale”, alla lettera, riguarda indistintamente le somme introitate a seguito della cessione nel mercato dei crediti edilizi generati da immobili di cui al comma 1 e quindi, si direbbe, anche da immobili appartenenti ad altri enti pubblici. Il che sembra tuttavia possibile solo nel caso in cui i crediti siano nel frattempo transitati, sulla base dell’accordo, nella titolarità del Comune, ad esempio in forza di una preventiva alienazione al Comune dell’immobile o per via della partecipazione del Comune alle spese di rinaturalizzazione, o in dipendenza di altre pattuizioni specifiche.

Nella generalità dei casi tuttavia il credito è attribuito all’Ente proprietario, il che induce a concludere che l’espressione contenuta nel terzo comma in realtà faccia riferimento agli introiti dalla vendita di crediti edilizi generati dalla demolizione di edifici di proprietà comunale.

7. Considerazioni ulteriori. Mancanza, allo stato, di incentivi fiscali (di fonte necessariamente statale)

È noto che le dismissioni dei beni immobili dello Stato sono incentivate da una serie di agevolazioni di natura fiscale, quali l’esenzione dall’imposta di registro, dall’imposta di bollo, dalle imposte ipotecaria e catastale e da ogni altra imposta indiretta, nonché da ogni altro tributo o diritto, e finanche l’esonero dalla garanzia per vizi e per evizione per l’acquirente in caso di rivendita.

L’acquisto dei crediti edilizi di fonte pubblica, invece, non trova per il momento alcuna particolare agevolazione fiscale, che dovrebbe nel caso sempre e comunque promanare dalla legge statale[12].

7.1. Cenni sulle diverse metodologie di determinazione dei crediti edilizi e sulla loro applicazione ai crediti di fonte pubblica

Quanto ai metodi di valutazione immobiliare del patrimonio edilizio pubblico in demolizione, si è detto che la Giunta regionale dovrebbe dettare criteri almeno ai Comuni ai sensi dell’art. 4, comma 1, lett. d).

Per ora, può dirsi che la prassi del settore delle dismissioni del patrimonio edilizio pubblico, utile parametro di confronto anche per la valorizzazione dei manufatti da demolire, segue a seconda dei casi il metodo sintetico–comparativo, il metodo del valore di trasformazione e il metodo del valore di sostituzione.

Senza pretesa di esaustività e al solo scopo di fornire qualche utile indicazione di riferimento circa la possibile applicazione di questi criteri al patrimonio edilizio pubblico da valorizzare in termini di rinaturalizzazione, può dirsi in estrema sintesi quanto segue.

Il primo metodo estimativo consente di stimare il valore di un bene attraverso i prezzi di vendita di immobili comparabili per caratteristiche immobiliari e localizzazione, ponderando i valori in funzione delle caratteristiche specifiche del cespite (stato manutentivo, stato occupazionale, vetustà, ecc.). Il metodo, che fa uso delle quotazioni OMI, è perciò adatto ai soli edifici pubblici per i quali esistano prezzi di mercato di beni comparabili (abitazioni, uffici, palazzi storici, fabbricati per attività produttive, magazzini e locali deposito, strutture residenziali collettive, parcheggi collettivi, cantine e box/garage, laboratori scientifici, locali commerciali e negozi, alberghi e pensioni), mentre per le tipologie immobiliari con destinazione speciale (caserme, scuole, ospedali, carceri e impianti sportivi) non sono disponibili appropriati prezzi OMI e quindi vanno necessariamente utilizzati gli altri due metodi.

Il metodo del valore di trasformazione stima il valore di un immobile come differenza tra il valore del “prodotto finito” e i costi necessari per la sua realizzazione, e per tale motivo è chiamato anche “del Valore residuo” o “Residual value”. Viene generalmente utilizzato per la determinazione del valore di aree edificabili e di immobili da valorizzare attraverso interventi di riqualificazione, trasformazione e sviluppo. Il valore finale è dato dalla differenza tra il valore del prodotto finito, i costi necessari alla trasformazione e il profitto atteso, tenendo conto della complessità dell’intervento e dei tempi necessari all’ottenimento di permessi e autorizzazioni e al completamento delle opere, cui corrispondono, necessariamente, impatti sugli oneri finanziari.

Il metodo del valore di sostituzione, infine, stima il valore di un immobile in termini del costo necessario per la sua riproduzione o sostituzione con uno avente le stesse caratteristiche (cd. costo di ricostruzione deprezzato) e implica la valutazione dell’area, la stima dei costi di costruzione, la stima dei fattori di apprezzamento/deprezzamento. Il valore finale è determinato in base al costo necessario per la costruzione del bene “come nuovo”, deprezzato in funzione della sua vetustà e obsolescenza tecnologica, in coerenza con la vita utile residua dell’immobile. La perdita di valore può essere dovuta al deterioramento fisico o all’obsolescenza funzionale e tecnologica, secondo formule determinate.

La scelta fra questi due ultimi metodi viene normalmente effettuata in base all’utilizzo attuale del bene immobile pubblico oggetto di valutazione: se il bene immobile pubblico è ancora in uso, si applica di solito il metodo di sostituzione; se il bene non è più in uso – e potrebbe essere questo il caso più frequente ai fini dell’art. 5 – si applica solitamente il metodo di trasformazione.

Nel caso di un compendio immobiliare formato da più unità, alcune utilizzate ed altre no, si ricorre a combinazioni fra metodi diversi.

Naturalmente, all’interno delle tre metodologie si possono distinguere ulteriori declinazioni particolari, delle quali tuttavia non vi è qui modo di dare conto. L’importante è comprendere che la determinazione dei crediti da demolizione di un edificio pubblico è operazione assai complessa, potenzialmente arbitraria, e che proprio per prevenire arbitrii (che finirebbero per alterare il mercato dei crediti) deve essere condotta in base a metodologie controllabili e verificabili, adeguatamente motivate.

 

[1] Cfr. Ministero dell’Economia e delle Finanze – Ufficio Stampa – Comunicato n. 76 del 9 maggio 2018 – “Censimento MEF: il valore patrimoniale degli immobili pubblici (fabbricati) stimato in 283 miliardi”, in http://www.dt.tesoro.it/export/sites/sitodt/modules/documenti_it/programmi_cartolarizzazione/patrimonio_pa/Modello_Stima_Valore_Immobili_Pubblici.pdf.

La valutazione è stata elaborata con metodi statistici, matematici ed estimativi standard, sulla base dei dati dichiarati da circa 7.500 Amministrazioni coinvolte nella rilevazione dei beni immobili riferita all’anno 2015, condotta dal Dipartimento del Tesoro nell’ambito del progetto Patrimonio della PA. in collaborazione con SOGEI, coinvolgendo, per un confronto tecnico-scientifico, le altre istituzioni pubbliche competenti nel settore (Dipartimento territorio dell’Agenzia delle entrate, ISTAT, Agenzia del demanio e SIDIEF (Banca d’Italia).

Il modello non ha permesso di stimare il valore di mercato di singoli immobili, né il ricavo conseguibile dalla loro dismissione, ma – leggiamo nel comunicato stampa – “arricchisce il sistema conoscitivo del MEF e fornisce un nuovo strumento all’autorità politico-amministrativa, anche locale, per individuare interventi di valorizzazione con riferimento sia alla vasta categoria di beni non direttamente utilizzati sia a quella degli immobili attualmente utilizzati dalla P.A. in un’ottica, in questo secondo caso, volta ad un più razionale utilizzo degli spazi”.

[2] L’art. 823 c.c. dispone che i beni demaniali sono «inalienabili e non possono formare oggetto di diritti a favore di terzi, se non nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi che li riguardano». L’incommerciabilità così sancita comporta che sono nulli di diritto gli eventuali atti dispositivi di beni demaniali posti in essere dalla Pubblica amministrazione; i beni in parola, infatti, hanno un vincolo reale che rende impossibile l’oggetto ai fini dell’art. 1418 c.c. (cfr. ad es. Cass., 20 aprile 2001 n. 5894).

La giurisprudenza si è espressa nel senso che la destinazione a fini pubblici “costituisce il requisito essenziale che contraddistingue un bene demaniale, a prescindere dal suo inserimento tra le categorie normativamente previste” (cfr. Cass., 21 aprile 1999, n. 3950).

[3] L’Agenzia del Demanio è un interlocutore qualificato e privilegiato, in quanto persegue istituzionalmente l’obiettivo di massimizzare il valore economico del patrimonio pubblico e di contribuire allo sviluppo economico-produttivo, sociale e culturale dei territori nei quali i beni sono inseriti.

[4] Art. 3, R.D. n. 2440/1923: «I contratti dai quali derivi un’entrata per lo Stato debbono essere preceduti da pubblici incanti, salvo che per particolari ragioni, delle quali dovrà farsi menzione nel decreto di approvazione del contratto, e limitatamente ai casi da determinare con il regolamento, l’amministrazione non intenda far ricorso alla licitazione ovvero nei casi di necessità alla trattativa privata»

[5] Così B. G. Mattarella, “L’asta come strumento di dismissione di beni pubblici”, in Quaderni della Fondazione Italiana del Notariato (www.elibrary.fondazionenotariato.it ).

[6] Che l’asta pubblica costituisca il metodo normale di scelta dell’acquirente privato venne previsto già dalla l. n. 783/1908 (art. 3), recante l’unificazione dei sistemi di alienazione e di amministrazione dei beni immobili patrimoniali dello Stato. Tale legge, unitamente al relativo regolamento di esecuzione adottato con R.D. 17 giugno 1909, n. 454, costituisce ancora oggi la normativa di base per l’alienazione del patrimonio immobiliare statale, integrata poi dalla legge di contabilità di Stato (R.D. n. 2440/1923) e dal suo regolamento (R.D. n. 827/1924).

[7] Negli ultimi due decenni la dismissione degli immobili pubblici ha seguito principalmente due strade: l’alienazione diretta, ma soggetta a discipline speciali, e la costituzione di società cui è stata affidata la gestione e l’alienazione degli immobili delle amministrazioni (di qui l’esperienza negativa della cartolarizzazione degli immobili pubblici, interrotta dall’art. 43-bis del decreto-legge n. 207/2008 che ha disposto la retrocessione dei beni conferiti alle relative società e ha affidato agli enti originariamente proprietari il compito di completare i processi di dismissione).

Entrambi i percorsi sono stati oggetto di discipline derogatorie, per lo più adottate con procedure d’urgenza, per consentire il ricorso alla trattativa privata.

Ad esempio, l’Agenzia del Demanio può vendere a trattativa privata le quote indivise di beni immobili, i fondi interclusi e i diritti reali su immobili di cui è titolare lo Stato. Più precisamente, a norma dell’art. 1, comma 433, decreto-legge n. 311/2004, «nell’ambito delle attività volte al riordino, alla razionalizzazione e alla valorizzazione del patrimonio immobiliare dello Stato, l’Agenzia del demanio è autorizzata, con decreto dirigenziale del Ministero dell’economia e delle finanze, a vendere a trattativa privata, anche in blocco, le quote indivise di beni immobili, i fondi interclusi nonché i diritti reali su immobili, dei quali lo Stato è proprietario ovvero comunque è titolare. Il prezzo di vendita è stabilito secondo criteri e valori di mercato, tenuto conto della particolare condizione giuridica dei beni e dei diritti. Il perfezionamento della vendita determina il venire meno dell’uso governativo, delle concessioni in essere nonché di ogni altro eventuale diritto spettante a terzi in caso di cessione».

È da ritenere che questa disciplina, data l’ampiezza del perimetro indicato (“quote indivise di beni immobili” e tutti i “diritti reali su immobili, dei quali lo Stato è proprietario ovvero comunque è titolare”) sia estensibile ai crediti edilizi da rinaturalizzazione derivanti dalla demolizione di fabbricati gestiti dall’Agenzia.

[8] Cfr. ad esempio quello del Comune di Padova, approvato con delibera consiliare n. 2/2017.

[9] Il criterio dell’offerta più alta produce risultati insoddisfacenti quando l’offerta più alta risulta sensibilmente inferiore al “valore di mercato” che l’Ente attribuisca al bene. Per prevenire questi esiti, si ricorre spesso alla fissazione di un prezzo minimo che può anche non essere reso pubblico, in modo da stimolare offerte più alte.

[10] Bisogna chiedersi se con la medesima variante il Comune possa occuparsi anche dei manufatti incongrui appartenenti ad altri enti pubblici. C’è infatti un rischio di sovrapposizione e di potenziale contrasto con gli specifici accordi da stipulare a norma del comma 2 “con gli enti pubblici proprietari di edifici degradati per addivenire alla loro demolizione e alla rinaturalizzazione dell’area”.

È ragionevole ritenere che la variante comunale possa individuare i manufatti incongrui appartenente ad altri enti pubblici, al limite dettare qualche direttiva o indirizzo, facendo comunque salvi gli eventuali accordi conclusi con altri enti per singoli edifici degradati.

[11] Se il proprietario può utilizzare il credito in un’unica area, la determinazione del valore del credito e del suo ammontare pone semplicemente un problema di stima del potenziale volumetrico da esprimere nell’unica area indicata dall’Amministrazione. Se invece il credito è impiegabile in più aree con caratteristiche diverse, il credito edilizio non ha un valore di riferimento ed è contendibile a seconda della domanda.

Il tema dell’obbligatorietà o della facoltà di acquisire i crediti edilizi da parte dei proprietari delle aree indicate dall’amministrazione era già stato affrontato in termini generali nel “parere” assegnato alla II Commissione regionale intorno all’art. 46, comma 1, lett. c) della l.r. n. 11/2004, pubblicato senza i crismi dell’ufficialità nel 2016 sul sito ufficiale della Regione Veneto, nella sezione Ambiente e Territorio.

[12] Altro e diverso tema è quello dell’agevolazione fiscale introdotta dall’art. 7 del decreto-legge 30 aprile 2019, n. 34 (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 100 dello scorso 30 aprile ed entrato in vigore lo scorso 1° maggio), valida fino al 31 dicembre 2021, per i trasferimenti di interi fabbricati a favore di imprese di costruzione o di ristrutturazione che, entro i successivi dieci anni, provvedano sia alla demolizione e ricostruzione degli stessi, nel rispetto della normativa antisismica e col conseguimento della classe energetica A o B, anche con variazione di volume rispetto al fabbricato preesistente laddove ammessa dalle norme urbanistiche, sia all’alienazione finale (si applicano l’imposta di registro e le imposte ipotecaria nella misura fissa di € 200). L’agevolazione incentiva il recupero dell’intero fabbricato e quindi un’effettiva sua ricostruzione, e prescinde dal fatto che la destinazione d’uso risulti, a ristrutturazione eseguita, differente da quella originaria.

Commento all’art. 4 l.r. n. 14/2019

ARTICOLO 4
Crediti edilizi da rinaturalizzazione
1. Entro quattro mesi dall’entrata in vigore della presente legge, la Giunta regionale, con il provvedimento di cui alla lettera d), del comma 2, dell’articolo 4, della legge regionale 6 giugno 2017, n. 14, detta una specifica disciplina per i crediti edilizi da rinaturalizzazione, prevedendo in particolare:
a) i criteri attuativi e le modalità operative da osservarsi per attribuire agli interventi demolitori, in relazione alla specificità del manufatto interessato, crediti edilizi da rinaturalizzazione, espressi in termini di volumetria o superficie, eventualmente differenziabili in relazione alle possibili destinazioni d’uso;
b) le modalità applicative e i termini da osservarsi per l’iscrizione dei crediti edilizi da rinaturalizzazione in apposita sezione del Registro Comunale Elettronico dei Crediti Edilizi (RECRED) di cui alla lettera e), del comma 5, dell’articolo 17, della legge regionale 23 aprile 2004, n. 11, nonché le modalità e i termini per la cancellazione;
c) le modalità per accertare il completamento dell’intervento demolitorio e la rinaturalizzazione;
d) i criteri operativi da osservare da parte dei comuni per la cessione sul mercato di crediti edilizi da rinaturalizzazione generati da immobili pubblici comunali, secondo quanto previsto dall’articolo 5.
2. Entro dodici mesi dall’adozione del provvedimento della Giunta regionale di cui al comma 1, e successivamente con cadenza annuale, i comuni approvano, con la procedura di cui ai commi da 2 a 6 dell’articolo 18, della legge regionale 23 aprile 2004, n. 11 oppure, per i comuni non dotati di piani di assetto del territorio (PAT), con la procedura di cui ai commi 6, 7 e 8, dell’articolo 50, della legge regionale 27 giugno 1985, n. 61 “Norme per l’assetto e l’uso del territorio”, una variante al proprio strumento urbanistico finalizzata:
a) all’individuazione dei manufatti incongrui la cui demolizione sia di interesse pubblico, tenendo in considerazione il valore derivante alla comunità e al paesaggio dall’eliminazione dell’elemento detrattore, e attribuendo crediti edilizi da rinaturalizzazione sulla base dei seguenti parametri:
1. localizzazione, consistenza volumetrica o di superficie e destinazione d’uso del manufatto esistente;
2. costi di demolizione e di eventuale bonifica, nonché di rinaturalizzazione;
3. differenziazione del credito in funzione delle specifiche destinazioni d’uso e delle tipologie di aree o zone di successivo utilizzo;
b) alla definizione delle condizioni cui eventualmente subordinare gli interventi demolitori del singolo manufatto e gli interventi necessari per la rimozione dell’impermeabilizzazione del suolo e per la sua rinaturalizzazione;
c) all’individuazione delle eventuali aree riservate all’utilizzazione di crediti edilizi da rinaturalizzazione, ovvero delle aree nelle quali sono previsti indici di edificabilità differenziata in funzione del loro utilizzo.
3. Ai fini dell’individuazione dei manufatti incongrui di cui alla lettera a), del comma 2, i comuni pubblicano un avviso con il quale invitano gli aventi titolo a presentare, entro i successivi sessanta giorni, la richiesta di classificazione di manufatti incongrui. Alla richiesta va allegata una relazione che identifichi i beni per ubicazione, descrizione catastale e condizione attuale, con la quantificazione del volume o della superficie esistente, lo stato di proprietà secondo i registri immobiliari, nonché eventuali studi di fattibilità di interventi edificatori finalizzati all’utilizzo di crediti edilizi da rinaturalizzazione.
4. Salvi eventuali limiti più restrittivi fissati dai comuni, sui manufatti incongrui, individuati dalla variante allo strumento urbanistico di cui al comma 2, sono consentiti esclusivamente gli interventi previsti dalle lettere a) e b) del comma 1, dell’articolo 3, del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380 “Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia”.
5. I crediti edilizi da rinaturalizzazione sono liberamente commerciabili ai sensi dell’articolo 2643, comma 2 bis, del codice civile.
6. Per quanto non diversamente disposto, si applica l’articolo 36 della legge regionale 23 aprile 2004, n. 11.
7. I comuni non dotati di PAT istituiscono il RECRED, entro tre mesi dall’entrata in vigore della presente legge, garantendo adeguate forme di pubblicità. Fino all’istituzione del RECRED non possono essere adottate varianti al piano regolatore generale, ad eccezione di quelle che si rendono necessarie per l’adeguamento obbligatorio a disposizioni di legge.
8. I comuni dotati di PAT che ancora non hanno provveduto all’istituzione del RECRED, e fino alla sua istituzione, non possono adottare varianti al piano degli interventi (PI) di cui all’articolo 17, della legge regionale 23 aprile 2004, n. 11, ad eccezione di quelle che si rendono necessarie per l’adeguamento obbligatorio a disposizioni di legge.

Commento all’art. 4 l.r. n. 14/2019: A. I crediti edilizi: disciplina generale  – B. La disciplina dei crediti edilizi da rinaturalizzazione C. La valorizzazione dei crediti edilizi da rinaturalizzazione 

Commento all’art. 3 l.r. n. 14/2019

di Silvano Ciscato e Alessandro Veronese

Articolo 3

Ambito di applicazione

1. Gli interventi di cui agli articoli 6 e 7 si applicano agli edifici con qualsiasi destinazione d’uso negli ambiti di urbanizzazione consolidata, nonché nelle zone agricole nei limiti e con le modalità previsti dall’articolo 8.

2. Gli interventi di cui al comma 1 sono subordinati all’esistenza delle opere di urbanizzazione primaria ovvero al loro adeguamento in ragione del maggiore carico urbanistico connesso al previsto aumento di volume o di superficie.

3. Nel caso di edifici che sorgono su aree demaniali o vincolate ad uso pubblico, gli interventi di cui alla presente legge sono subordinati allo specifico assenso dell’ente tutore del vincolo.

4. Gli interventi di cui al comma 1 non trovano applicazione per gli edifici:

a) vincolati ai sensi della parte seconda del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 “Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137”. Nel caso di immobili oggetto di vincolo indiretto, ai sensi dell’articolo 45 del citato decreto legislativo, gli interventi sono consentiti unicamente laddove compatibili con le prescrizioni di tutela indiretta disposte dall’autorità competente in sede di definizione o revisione del vincolo medesimo;

b) oggetto di specifiche norme di tutela da parte degli strumenti urbanistici e territoriali che non consentono gli interventi edilizi previsti;

c) aventi destinazione commerciale, qualora siano volti ad eludere o derogare le disposizioni regionali in materia di commercio, in particolare con riferimento alla legge regionale 28 dicembre 2012, n. 50 “Politiche per lo sviluppo del sistema commerciale nella regione del Veneto”;

d) anche parzialmente abusivi;

e) ricadenti all’interno dei centri storici ai sensi dell’articolo 2 del decreto ministeriale 2 aprile 1968, n. 1444 “Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi da osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, ai sensi dell’articolo 17 della legge 6 agosto 1967, n. 765”, salvo che per gli edifici che risultino privi di grado di protezione, ovvero con grado di protezione di demolizione e ricostruzione, di ristrutturazione o sostituzione edilizia, di ricomposizione volumetrica o urbanistica, anche se soggetti a piano urbanistico attuativo; in tali casi devono comunque essere rispettati i limiti massimi previsti dal n. 1), del primo comma, dell’articolo 8, del decreto ministeriale n. 1444 del 1968;

f) ricadenti nelle aree con vincoli di inedificabilità di cui all’articolo 33 della legge 28 febbraio 1985, n. 47 “Norme in materia di controllo dell’attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere abusive”, o dichiarate inedificabili per sentenza o provvedimento amministrativo;

g) ricadenti in aree dichiarate di pericolosità idraulica o idrogeologica molto elevata (P4) o elevata (P3) dai Piani stralcio di bacino per l’assetto idrogeologico di cui al decreto legge 11 giugno 1998, n. 180 “Misure urgenti per la prevenzione del rischio idrogeologico ed a favore delle zone colpite da disastri franosi nella regione Campania”, convertito con modificazioni dalla legge 3 agosto 1998, n. 267, nelle quali non è consentita l’edificazione ai sensi del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, fatte salve le disposizioni di cui all’articolo 9;

h) che abbiano già usufruito delle premialità di cui alla legge regionale 8 luglio 2009, n. 14 “Intervento regionale a sostegno del settore edilizio e per favorire l’utilizzo dell’edilizia sostenibile e modifiche alla legge regionale 12 luglio 2007, n. 16 in materia di barriere architettoniche” e successive modifiche ed integrazioni, salvo che per la parte consentita e non realizzata ai sensi della predetta legge regionale 8 luglio 2009, n. 14 e comunque nel rispetto di quanto previsto dalla presente legge.

Sommario: 1. Il primo comma1.1. Aree ed ambiti di urbanizzazione consolidata1.2. La variabilità nel tempo degli ambiti di urbanizzazione consolidata1.3. L’efficacia nel tempo dei provvedimenti ricognitivi degli AUC – 2. Il secondo comma2.1. Le opere di urbanizzazione primaria2.2. La localizzazione delle opere di urbanizzazione primaria2.3. Il concetto di esistenza delle opere di urbanizzazione primaria2.4. L’implementazione delle dotazioni urbanizzative. La via ordinaria2.5. L’implementazione delle dotazioni urbanizzative. La via derogatoria2.6. Il permesso di costruire convenzionato3. Il terzo comma4. Il quarto comma4.1. Il raccordo tra la l.r. n. 14/19 e la l.r. n. 14/09: la lett. h)4.2. La lett. a): gli edifici monumentali ed i vincoli indiretti4.3. La lett. b): le disposizioni di tutela di fonte urbanistica e territoriale4.4. La lett. c): l’inderogabilità della normativa settoriale sul commercio4.5. La lett. d): gli edifici anche parzialmente abusivi4.6. La lett. e): i centri storici4.7. La lett. f): le aree inedificabili4.8. Le fasce di rispetto stradali4.9. La lett. g): le aree di elevata o molto elevata pericolosità idraulica

1. Il primo comma

L’art. 3 “Ambito di applicazione” detta i criteri discretivi degli edifici beneficiari delle facoltà ampliative previste dalla legge.

Il primo criterio, enunciato al comma 1[1], è localizzativo. Il beneficio interessa (al netto, ovviamente, delle esclusioni, che si vedranno oltre) gli edifici[2] ubicati negli ambiti di urbanizzazione consolidata[3] e nelle zone agricole.

1.1. Ambiti ed Aree di urbanizzazione consolidata

La legge, all’art. 2, identifica i primi con le zone di cui alla lettera e), del comma 1, dell’articolo 2, della l.r. n. 14/2017. Ossia, con l’insieme delle parti del territorio già edificato, comprensivo delle aree libere intercluse o di completamento destinate dallo strumento urbanistico alla trasformazione insediativa, delle dotazioni di aree pubbliche per servizi e attrezzature collettive, delle infrastrutture e delle viabilità già attuate, o in fase di attuazione, nonché le parti del territorio oggetto di un piano urbanistico attuativo approvato e i nuclei insediativi in zona agricola.

E precisa che tali ambiti “non coincidono necessariamente con quelli individuati dal piano di assetto del territorio (PAT) ai sensi dell’articolo 13, comma 1, lettera o), della legge regionale 23 aprile 2004, n. 11”. I quali ultimi, in effetti, sono definiti[4] aree di urbanizzazione consolidata, e non già ambiti.

Le due accezioni non sono necessariamente sovrapponibili, ma vanno comunque coordinate, giacché, non risultando abrogata la prima, deve dedursi che la seconda le si accosti. La distinzione tra le due, pervero, non è solo lessicale, ma si dispiega anche nel procedimento formativo, la prima inscrivendosi nel percorso ordinario di formazione del Piano di Assetto del Territorio, la seconda in un iter a sé stante, semplificato e domestico, coniato dall’art. 14 della l.r. n. 14/2017.

La nozione di area di urbanizzazione consolidata, di cui al predetto art. 13, comma 1, lett. o) della l.r. n.11/2004, in cui sono sempre possibili interventi di nuova costruzione o di ampliamento di edifici esistenti attuabili nel rispetto delle norme tecniche di cui al comma 3, lettera c), da leggersi giustapposta alle lettere l) e p) del medesimo comma 1 dell’art. 13, risponde all’esigenza di tracciare un perimetro stabile della città costruita[5], ossia del nucleo invariabile di quel “tessuto insediativo esistente” le cui potenzialità debbono essere pienamente sfruttate (art. 13, comma 1, lett. k) prima di programmare espansioni, costituendo la prima risorsa cui obbligatoriamente attingere per soddisfare il fabbisogno di sviluppo edilizio[6].

L’Allegato B1 all’atto di indirizzo ai sensi dell’art. 50, comma 1, lett. f), della l.r. n.11/2004, approvato con d.g.r. n. 3811/2009, le definisce “aree caratterizzate da insediamenti e urbanizzazioni consolidate o in via di realizzazione in cui sono ancora possibili interventi di nuova costruzione o di ampliamento di edifici esistenti attuabili con la diretta applicazione delle Norme di Attuazione e del Regolamento Edilizio”, specificando in nota che “Si tratta sicuramente delle zone di completamento e delle aree a servizi (zone F) già realizzate, con l’aggiunta delle zone in corso di trasformazione. Si intendono in corso di trasformazione anche gli Ambiti di Piano Attuativo con la relativa convenzione già stipulata”.

Pare, pertanto, che le aree di urbanizzazione consolidata debbano includere il territorio già edificato o in via di edificazione, comprensivo dei c.d. vuoti urbani, ossia delle superfici inedificate[7], purché servite dal reticolo infrastrutturale esistente, oltre ai nuclei insediativi ubicati in zona agricola[8].

In proposito, pare opportuno esporre un caveat: l’eventuale trasformazione di tali superfici inedificate e non impermeabilizzate, incluse in area di urbanizzazione consolidata[9], non è liberalizzata; ossia, non è sottratta al bilancio del consumo di suolo. L’art. 12, comma 1, lett. a), della l. r. n. 14/2017[10] detta una franchigia limitata agli interventi previsti – all’interno dell’AUC – dagli strumenti urbanistici vigenti al 24 giugno 2017. Eventuali previsioni trasformative posteriori, pertanto, consumeranno suolo, e dovranno essere assunte – salve le eccezioni che si vedranno oltre – a valle dei percorsi definiti dal comma 4bis dell’art. 17 della l. reg. 11/2004, introdotto dall’art. 22 della l. reg. 14/2017.

In breve, pare che l’elemento-chiave per identificare le superfici appartenenti a dette aree abbia natura sostanziale, e consista nel loro inserimento nella geografia urbana tracciata dalla città, pubblica e privata, esistente o in via di realizzazione[11]. Sono, insomma, le superfici, edificate o meno, incluse in quadranti infrastrutturati e nel loro complesso compromessi dalle trasformazioni, avvenute o in corso, dell’originaria superficie naturale.

Di qui l’irreversibilità della loro caratterizzazione quali aree di urbanizzazione consolidata. Fondandosi essenzialmente sulla presenza di dotazioni infrastrutturali, detta caratterizzazione non viene intaccata da eventuali interventi di rinaturalizzazione (ad esempio, condotti via dismissione e bonifica di siti industriali, e loro destinazione a verde) o di rinuncia all’edificazione via “variante verde” ai sensi dell’art. 7 della l. reg. 4/2015[12].

Si ritiene, infatti, che l’intera disciplina sul consumo di suolo debba sottostare al basilare principio (lo si potrebbe definire dogma) di concentrazione dell’edificato entro un perimetro dai contorni regolari. Di conseguenza, il fabbisogno edilizio dovrà essere concentrato all’interno del perimetro urbano, riempiendone anzitutto gli eventuali vuoti.

Di riverbero, le aree in esame si estenderanno con la progressiva ultimazione degli ambiti di trasformazione via via pianificati. In proposito, si ritiene che il PAT dovrà essere correlativamente aggiornato, sino a giungere, con lo scoccare della data/traguardo (il conclamato 2050) o comunque con l’esaurimento del capitale di superficie trasformabile, a tracciare la perimetrazione finale delle aree urbanizzate, realizzando così la coincidenza tra aree ed ambiti di urbanizzazione consolidata[13].

* * *

Come appena veduto, invece, gli ambiti di urbanizzazione consolidata comprendono, oltre alle aree di urbanizzazione consolidata, anche le parti del territorio oggetto di un piano urbanistico attuativo approvato[14]. Ossia, sotto il profilo fattuale, non ancora trasformate.

La definizione, dunque, che mostra di non temere l’ossimoro includendo nell’urbanizzazione consolidata ciò che per definizione urbanizzato non è, si estende anche alle parti del territorio esterne alla città costruita, alla città in costruzione ed ai loro reticoli infrastrutturali, che risultino giuridicamente pronte per la trasformazione in via di intervento edilizio diretto.

Pare opportuno, qui, sottolineare che nell’Ambito di Urbanizzazione Consolidata non rientra sic et simpliciter qualunque superficie inedificata circondata dalla texture urbana.

Al riguardo, è opportuna una rapida esegesi delle due definizioni, rese all’art. 2, comma 1, lett. e) della l. reg. 14/2017, che prima facie appaiono bisognose di specificazione, poiché potenzialmente equivocabili:

  • aree libere intercluse o di completamento destinate dallo strumento urbanistico alla trasformazione insediativa;
  • dotazioni di aree pubbliche per servizi e attrezzature collettive.

L’elemento che deve guidare l’interpretazione è costituito dal sintagma destinate dallo strumento urbanistico alla trasformazione insediativa. Esso deve intendersi, ovviamente (si tratta di definizioni che appartengono alla medesima lettera dello stesso comma) ispirato, ed allineato, alla medesima concezione che include in AUC le parti del territorio oggetto di un piano urbanistico attuativo approvato. Ed in tal senso va interpretato.

Ora: la quidditas comune a dette fattispecie non può che rinvenirsi nella trasformabilità immediata, ossia non subordinata all’intermediazione di strumenti attuativi.

Conseguentemente, tra le aree libere intercluse o di completamento destinate dallo strumento urbanistico alla trasformazione insediativa vanno incluse solamente le aree inedificate che risultino giuridicamente suscettibili di trasformazione rebus sic stantibus[15]. Ossia che risultino incluse in Z.T.O. edificabile e siano munite delle principali opere di urbanizzazione primaria e secondaria. Parchi urbani ed in genere scoperti inedificabili (ad esempio, perché di interesse storico-ambientale) sono viceversa privi di tale potenziale trasformativo. E, pertanto, non presentano la caratteristica essenziale per poter essere inclusi in AUC.

Per aree destinate alle dotazioni di aree pubbliche per servizi e attrezzature collettive si devono intendere quelle sulle quali insista un progetto di opera pubblica approvato: al riguardo, non può ritenersi sufficiente a legittimare l’inclusione in AUC della mera previsione dell’opera, effettuata a livello pianificatorio generale. Serve un progetto approvato, con il quale solo s’invera la condizione di immediata trasformabilità che, come veduto costituisce l’elemento-chiave per l’inclusione in AUC degli scoperti liberi[16].

In sintesi: l’elemento chiave, che costituisce il quid pluris che distingue gli ambiti dalle aree di urbanizzazione consolidata ha dunque natura giuridico-formale. Le seconde comprendono anche i suoli trasformabili, purché tali siano immediatamente, ossia senza intermediazione. Vale a dire senza necessità di previa approvazione di uno strumento attuativo o di un progetto di opera pubblica che sia[17].

L’ambito di urbanizzazione consolidata di cui all’art. 2 della l. reg. 14/2017, pertanto, è formato da una diade: la città costruita ed in costruzione, e la città programmata e pronta per la trasformazione.

1.2. La variabilità nel tempo degli ambiti di urbanizzazione consolidata

Quest’ultima non è diacronicamente stabile.

Nel corso del tempo, infatti, e nei limiti del suolo consumabile ai sensi della l.r. n.14/2017 e della d.g.r. n. 668/2018, nuovi PUA possono essere approvati. I terreni interessati, di conseguenza, maturano il presupposto giuridico-formale per essere inseriti in AUC.

Ed in effetti devono esservi collocati. Ciò, non solo per ragioni di parità di trattamento con i terreni omologhi, ossia facenti parte di PUA precedentemente approvati e perciò già inclusi in AUC. Ma anche perché i principi cardine della legislazione sul contenimento del consumo di suolo impongono che le zone compromesse (ossia trasformate o in corso di trasformazione) siano saturate, prima che sia ammissibile ricorrere a nuove espansioni. E la saturazione non può essere conseguita se non attraverso la densificazione promossa dalla l.r. n.14/2019. Va da sé, dunque, che ogni area sulla quale sia approvato un PUA debba essere aggregata alla piastra – l’AUC, appunto – deputata a soddisfare per prima il fabbisogno di sviluppo edilizio.

Ergo, l’AUC va costantemente aggiornato, integrandovi i PUA via via approvati.

Di converso, un PUA approvato può scadere inattuato[18]. Per altro verso, prima della scadenza di legge, i lottizzanti potrebbero rinunciare all’iniziativa, ed avanzare un’istanza ai sensi dell’art. 7 della l. reg. 4/2015[19].

In tale caso, viene meno quell’immediata trasformabilità sulla quale, come appena veduto, riposa l’inclusione, negli ambiti di urbanizzazione consolidata, delle parti del territorio oggetto di un piano urbanistico attuativo approvato.

Nell’ottica del contenimento del consumo di suolo di cui all’art. 1 della l.r. n.14/2017, pertanto, tale condizione sostanziale dev’essere recepita:

  1. a livello urbanistico, tutelando la risorsa territoriale non più utilizzabile attribuendole lo status protetto di superficie naturale o seminaturale o, in presenza delle condizioni di cui all’art. 2 co. 1, lett. b) della l.r. n. 14/2017, di superficie agricola;
  2. a livello edilizio escludendo anche la possibilità di trasformazione puntiforme, condotta per la via della l.r. n. 14/2019[20].

È del tutto evidente, infatti, che il mancato utilizzo di una risorsa territoriale, per definizione limitata e non rinnovabile, sulla quale sia stato approvato un PUA, manifesti plasticamente l’assenza dei presupposti concreti per la sua, pur precedentemente programmata, trasformazione. Ossia, in ultima analisi, della domanda di quelle nuove costruzioni in quel luogo. E, per converso, attesti la ricorrenza delle condizioni che ne giustificano il congelamento di tale risorsa, a protezione del predetto status, sino all’eventuale momento in cui maturino – nel quadro della legislazione vigente – esigenze che giustifichino la riproposizione del suo sfruttamento.

Di conseguenza, ogni qualvolta un PUA approvato scada inattuato, l’area interessata cessa di far parte dell’ambito consolidato ai sensi dell’art. 2, comma 1, lett. e), della l.r. n. 14/2017; sul fronte pianificatorio, tale ambito dovrà essere conseguentemente ridimensionato. Ecco dunque la predetta reversibilità della caratterizzazione di tali parti del territorio quali ambiti di urbanizzazione consolidata.

L’area, tuttavia, non perderà automaticamente l’edificabilità, che le è garantita dallo strumento conformativo, vale a dire dal P.I. Residuerà in capo ai lottizzanti, pertanto, la possibilità di riproporre il Piano attuativo. Questo, fintantoché il Comune non eserciti la facoltà di stralciare l’edificabilità a suo tempo assegnata all’ambito[21]. In tale ultimo caso, l’eventuale riproduzione dell’edificabilità in loco sarà assoggettata – sul livello pianificatorio operativo – ai commi 4 e 4bis dell’art. 17 della l. reg. 11/2004, e – sul livello pianificatorio strategico – al disposto della lett. k) dell’art. 13 della l. reg. 11/2004, come sostituita dall’art. 20 della l. reg. 14/2017.

Se, viceversa, il PUA approvato fosse regolarmente attuato[22], maturerà la condizione che ne giustifica la caratterizzazione stabile quale area di urbanizzazione consolidata, ai sensi dell’articolo 13, comma 1, lettera o), della l. reg. 11/2004. Caratterizzazione che, viceversa, non sarà più reversibile, essendo l’ambito di PUA oramai pienamente parte della città costruita.

Ne deriva, in estrema sintesi, che la caratterizzazione di tali parti del territorio quali ambiti di urbanizzazione consolidata ai sensi dell’art. 2 della l. reg. 14/2017 è modificabile e reversibile.

***

Fondamentale corollario: se Gli interventi di cui agli articoli 6 e 7 si applicano agli edifici con qualsiasi destinazione d’uso negli ambiti di urbanizzazione consolidata e l’AUC varia nel tempo, simmetricamente deve variare lo statuto degli edifici esistenti nelle aree incluse nell’AUC[23].

1.3. L’efficacia nel tempo dei provvedimenti ricognitivi degli AUC

Quanto esposto sembra poter orientare l’interprete nell’individuazione dell’effettivo ambito di urbanizzazione consolidata cui applicare, nel corso del tempo, le norme di cui alla l.r. n. 14/2019.

Al riguardo, pare utile formulare alcune considerazioni a corollario.

Anzitutto, una che s’incentra sulla valenza dei due successivi due momenti definitori dei ridetti AUC definiti dalla l.r. n. 14/2017.

Il primo, previsto dal comma 9 dell’art. 13, è provvisorio, ed il suo conio è affidato ad un atto deliberativo comunale, indifferentemente giuntale o consiliare, che doveva essere emanato entro il 24 agosto 2017.

Il secondo, a regime, è affidato alla variante domestica al PAT prevista dal successivo comma 10, vede il suo procedimento formativo disciplinato dall’art. 14 ed il suo termine di emanazione scadere il 31 dicembre 2019, in forza del disposto dell’art. 48-ter della reg. 11/2004, come modificato dall’art. 17, comma 7, della l.r. n.14/2019.

Tale successione fa scaturire una questione: se l’applicazione della l.r. n. 14/2019 debba attendere la formazione della predetta variante domestica al PAT, oppure se possa avvenire sulla base della delibera ricognitiva ai sensi del comma 9 dell’art. 13 della l.r. n. 14/2017.

In proposito osservato che, pur nella sua declinata provvisorietà, la delibera di cui al comma 9 dell’art. 13 dispiegava da subito effetti sul territorio, giacché determinava direttamente ed immediatamente l’inclusione o l’esclusione di un determinato lotto nell’ o dall’AUC, con ogni effetto conseguente.

Pertanto, in astratto, si ritiene che le disposizioni della l.r. n. 14/2019 possano essere applicate anche sulla base di detta delibera, in attesa della variante domestica al PAT.

Si profila tuttavia un non esiguo problema di coordinamento diacronico.

Come esposto in precedenza, la ricognizione basata sul dato formale, in base alla quale sono inseriti in AUC (anche) i PUA approvati, è reversibile. Piani attuativi che al 24 agosto 2017 risultavano approvati, infatti, potrebbero nel frattempo essere scaduti inattuati[24]. Idem per quelli inclusi in AUC dalle imminenti varianti al PAT redatte ai sensi degli artt. 13 comma 10 e 14 della l.r. medesima.

E si è veduto come, di riverbero, i PUA via via approvati dovrebbero anch’essi essere aggregati all’AUC.

Si profilano, dunque, due soluzioni: l’una, formale, in base alla quale gli effetti della legge qui commentata:

  • si applicherebbero comunque alle superfici che fossero state ab origine incluse negli AUC, a prescindere dal fatto che, dopo l’approvazione della delibera ai sensi dell’art. 13 comma 9, o, poi, della variante domestica al PAT, i PUA di appartenenza siano scaduti inattuati;
  • non si applicherebbero ai PUA che fossero sopravvenuti alla formazione degli atti definitori degli AUC ai sensi dell’art. 2 della l.r. n. 14/2017.

L’altra, sostanziale, secondo la quale il venir meno della situazione che legittimava l’inserimento in AUC (costituita dall’inclusione in un PUA approvato e vigente) comporterebbe, per il Comune, l’obbligo di adeguare i suoi provvedimenti, escludendo dall’AUC gli ambiti territoriali dei PUA scaduti senza attuazione. E, di converso, l’approvazione di uno strumento attuativo ne imporrebbe l’aggregazione all’AUC.

Alla luce dei veduti principi generali coniati dalla legge, una forma di cristallizzazione degli AUC, che mantenesse al loro interno ambiti di PUA inattuati, ed escludesse ambiti attuativi di nuova approvazione parrebbe inappropriata, poiché da un lato sottrarrebbe sine die risorse territoriali “vergini” alle norme sul consumo di suolo, dall’altro, impedirebbe la densificazione di ambiti già compromessi.

Non solo: il mantenimento in AUC di ambiti attuativi inattuati perpetuerebbe l’ampliabilità degli edifici esistenti[25] ante 6 aprile 2019 in essi inclusi. In palese violazione della ratio del primo comma dell’articolo in commento. Infatti, limitando il beneficio ampliativo alle costruzioni incluse in AUC, la disposizione congela tutto quanto sia edificato al di fuori di esso. Nell’evidente obiettivo di arrestare il consumo randomico di suolo.

In breve, il mancato, tempestivo adeguamento dell’AUC all’effettiva situazione degli ambiti attuativi tracciati sul territorio comunale, cozzerebbe frontalmente contro i principi informatori della legislazione che promuove il contenimento del consumo del suolo.

Parrebbe preferibile, e corroborato dal percorso formativo semplificato che la rende rapidamente adeguabile, ritenere che gli atti ricognitivi che perimetrano gli AUC debbano essere rimodulati, ogniqualvolta la composizione degli AUC sia incisa dalla nuova approvazione, o dalla scadenza senza attuazione, di un PUA.

Adeguando via via adeguare la perimetrazione degli AUC l’Amministrazione potrà disporre disponga di una sempre aggiornata cognizione del tessuto insediativo esistente, il cui integrale sfruttamento, come accennato, costituisce obbligatorio preludio (contemplando l’utilizzo di nuove risorse territoriali esclusivamente quando non esistano alternative alla riorganizzazione e riqualificazione del tessuto insediativo esistente…) all’avvio di nuove trasformazioni, a prescindere dalla quantità di territorio trasformabile assegnata a ciascun Comune dalla Regione con la delibera giuntale 668 del 15 maggio 2018.

Infine, in sede di riedizione periodica del PAT, il Comune dovrà tenere conto della situazione aggiornata degli AUC di cui alla l.r. n.14/2017, riportandola nel dimensionamento[26], e inserendo i PUA attuati nella perimetrazione delle aree di urbanizzazione consolidata di cui alla lett. o) del comma 1 dell’art. 13 della l.r. n. 11/2004, ossia nel nucleo stabile ed invariabile della città costruita.

***

Va qui formulato un caveat: le aree situati al di fuori dell’AUC non debbono essere sbrigativamente ritenute inedificabili. Esistono, inoltre, ambiti esterni all’AUC la trasformazione dei quali non comporta consumo di suolo.

Questi ultimi sono gli ambiti di cui alle lett. c), d), e), f) g) ed h) del comma 1 dell’art. 12[27], e[28] degli ambiti di cui ai commi 4, 5 e 6 dell’art. 13 della l. r. n. 14/2017[29].

La loro trasformazione non comporta consumo di suolo, per espressa deroga contenuta nella disposizione citata. Tuttavia, gli edifici ivi esistenti non godranno del beneficio di cui alla legger regionale in commento, sino all’approvazione degli strumenti attuativi eventualmente previsti in zona, o comunque al maturare delle condizioni dianzi esaminate che ne legittimino l’inclusione in AUC.

V’è, poi, il caso delle zone mediatamente trasformabili. Ossia, delle zone che lo strumento conformativo designa per l’espansione edilizia ma prive dello strumento attuativo[30], ovvero designate per ospitare un’opera pubblica, non ancora giunta allo stadio della progettazione esecutiva.

Tali zone, anch’esse esterne all’AUC, posseggono uno status edificatorio transeunte, soggetto a consunzione per decorrenza del termine quinquennale per l’approvazione dello strumento attuativo o del progetto esecutivo dell’opera pubblica.

In caso di finalizzazione delle progettazioni (rispettivamente urbanistico-attuativa ed esecutiva) entro detto termine, nulla quaestio: le aree andranno sussunte in AUC.

In mancanza, si verificherà la decadenza di cui al comma 7 dell’art. 18 della l. r. n. 11/2004, e l’Amministrazione dovrà provvedere a pianificare la “zona bianca” così formatasi[31].

Va da sé che tale nuova pianificazione dovrà, ordinariamente, ottemperare in toto alla l. r. n. 14/2017, e pertanto – sul livello pianificatorio operativo – applicare i commi 4 e 4bis dell’art. 17 della l. reg. 11/2004, e – sul livello pianificatorio strategico – il disposto della lett. k) dell’art. 13 della l. reg. 11/2004, come sostituita dall’art. 20 della l. reg. 14/2017.

V’è, però, un’eccezione. L’art. 23, comma 3, della l.r. n. 14/2017 ha introdotto il comma 7bis[32] dell’art. 18 della l.r. n. 11/2004, che ha coniato una corsia preferenziale finalizzata alla conferma delle aree di espansione soggette a strumenti attuativi non approvati[33]. È evidente che detta conferma – come noto subordinata al vaglio discrezionale del Comune – si situa su di un piano diverso rispetto alle previsioni di espansione che si localizzino, ad esempio, su aree agricole. Ed invero l’interpretazione al riguardo corrente in dottrina[34] esclude che tale conferma debba seguire l’iter consensuale-competitivo delineato ai commi 4 e 4bis della l.r. n.11/2004.

In caso di conferma, sarà evitata la formazione della “zona bianca”, ed il prosieguo seguirà la traccia già esposta: se entro il termine di durata della conferma sarà approvato il piano attuativo, l’ambito entrerà in AUC, con conseguente applicabilità della l.r. n. 14/2019 alle preesistenze la cui costruzione strutturale e copertura sia precedente al 6 aprile 2019.

2. Il secondo comma

Il comma ricalca il comma 4 dell’art. 9 della l.r. n.  14/2009, fatta eccezione per l’abbandono della deroga che, nella prima legge sul “Piano Casa” e successive modifiche ed integrazioni, favoriva le prime case di abitazione. Le quali, ora, sono soggette al regime ordinario.

Sul punto, le circolari regionali esplicative[35] di quest’ultima si sono limitate a proporre stringate parafrasi.

Va effettuata, pertanto, un’esegesi attenta.

2.1. Le opere di urbanizzazione primaria

Anzitutto, va definito l’oggetto: le opere di urbanizzazione primaria sono elencate al comma 7 dell’art. 16 del T.U. approvato con D.P.R. 06.06.2001, n. 380 e constano di strade residenziali, spazi di sosta o di parcheggio, fognature, rete idrica, rete di distribuzione dell’energia elettrica e del gas, pubblica illuminazione, spazi di verde attrezzato. A questi si aggiungono, in forza dell’art. 86, comma 3, del d.lgs. 259 del 2003, le infrastrutture di comunicazione elettronica per impianti radioelettrici e le opere relative, nonché, in base al comma 7-bis del D.P.R. 380/2001, i cavedi multiservizi e i cavidotti per il passaggio di reti di telecomunicazioni, salvo nelle aree individuate dai comuni sulla base dei criteri definiti dalle regioni.

Poi, va analizzata la relazione tra l’oggetto e gli interventi edilizi ammessi dalla legge in esame: qui il tema non si presenta banale.

2.2. La localizzazione delle opere di urbanizzazione primaria

In primo luogo, va definito il perimetro entro il quale debbono essere ubicate le opere urbanizzative la cui esistenza legittima l’intervento. In proposito, si ritiene che detto perimetro coincida con la sub-zona omogenea di appartenenza. Com’è noto, infatti, gli strumenti urbanistici locali scompongono le Zone urbanistiche fondamentali di cui all’art. 2 del d.m. n. 1444/1968 in una pluralità, talvolta in una pletora, di sottozone, sovente coincidenti con ambiti lottizzatori attuati, distinte tra loro da lievi variazioni della disciplina-base. È da ritenere che tali sottozonizzazioni omogenee costituiscano la piastra sulla quale misurare l’esistenza delle opere urbanizzative in funzione dell’intervento ampliativo ai sensi della legge in commento.

2.3. Il concetto di esistenza delle opere di urbanizzazione primaria

Ciò posto, va veduto che cosa si intenda per esistenza di opere di urbanizzazione primaria. Il concetto di esistenza, di per sé, farebbe intendere che gli interventi siano ammissibili in presenza di opere urbanizzative primarie, a prescindere dal loro dimensionamento. La seconda parte del comma, tuttavia, “veste” il concetto di esistenza con il requisito dell’adeguatezza. Tant’è che il suo raggiungimento è condicio sine qua non dell’applicazione della legge ampliativa.

E, giacché si verte sul dimensionamento, l’adeguatezza non può essere misurata con valutazioni estemporanee e casistiche; l’unica unità di misura possibile è costituita rapporto tra dimensionamento dell’edificato ed aree ed attrezzature per servizi definito dal PAT, ai sensi dell’art. 31 della l.r. n. 11/2004. O, in una prospettiva di maggior favore all’esercizio delle facoltà ampliative offerte dalla legge in esame[36], ed al prezzo di un poco commendevole abbassamento dei livelli di dotazioni urbanizzative previste dal Piano (ossia a scapito della città pubblica) scendere sino al quoziente minimo degli “standards” urbanistici di cui al combinato disposto del d.m. n. 1444/1968 e dell’art. 17 della legge n. 765/1967.

Va detto che tale concetto di esistenza delle opere di urbanizzazione primaria, espressa in termini di loro adeguatezza alle prescrizioni di legge, è allineato al paradigma enucleato dalla giurisprudenza per l’applicazione dell’art. 12, comma 2, del d.P.R. 380/2001.

La disposizione recita: “Il permesso di costruire è comunque subordinato alla esistenza delle opere di urbanizzazione primaria o alla previsione da parte del comune dell’attuazione delle stesse nel successivo triennio, ovvero all’impegno degli interessati di procedere all’attuazione delle medesime contemporaneamente alla realizzazione dell’intervento oggetto del permesso”.

E, come accennato, in proposito la giurisprudenza insegna che l’espressione “esistenza” delle opere di urbanizzazione va intesa nel significato di adeguatezza delle opere medesime ai bisogni collettivi; e che, pertanto, tale valutazione circa la congruità del grado di urbanizzazione di un’area non può che essere effettuata alla stregua della normativa sugli standards urbanistici vigenti al momento dell’istanza edificatoria[37].

Pare importante, a questo punto, considerare che la legge in esame – che, a differenza delle pregresse normative sul piano-casa, non ha termine di efficacia – riversa sulla città costruita un massiccio potenziale ampliativo, che si riverbera nella possibile tracimazione dei pesi insediativi, rispetto alle dotazioni e alle infrastrutture esistenti.

Pertanto, in mancanza di un orizzonte temporale dell’efficacia della legge, il predetto, consistente potenziale ampliativo garantito dalla legge, in deroga agli indici di edificabilità del Piano Regolatore Comunale (sui quali le previsioni urbanizzative sono state dimensionate) potrebbe essere attinto a fondo. Ed è del tutto evidente che ampliamenti uti singuli modesti, se largamente diffusi, metterebbero inevitabilmente in crisi il sistema infrastrutturale e dei servizi: la città pubblica, insomma. Con l’effetto di degradare la qualità urbana: risultato diametralmente opposto all’obiettivo regionale di promuovere “misure volte al miglioramento della qualità della vita delle persone all’interno delle città e al riordino urbano (…)”.

2.4. L’implementazione delle dotazioni urbanizzative. La via ordinaria

Parrebbe, pertanto, che ad ogni intervento ampliativo, per quanto molecolare, debba corrispondere un paziente, altrettanto minuzioso adeguamento dell’ossatura urbanizzativa della sottozona.

Principio siffatto pare ormai acquisito in giurisprudenza, e vale tanto per le zone già edificate, quanto per quelle oggetto di piani approvati, ossia, riprendendo le definizioni utilizzate al capo precedente, sia per le aree che per gli ambiti di urbanizzazione consolidata.

Per le aree già edificate, la giurisprudenza insegna come, in caso di nuovi innesti generatori di carico urbanistico, l’intervento urbanizzativo si imponga per garantire un armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo allo scopo di potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti[38].

E il paradigma non può che essere costituito dalle dotazioni e dalle infrastrutture richieste dallo strumento urbanistico generale per sostenere il carico urbanistico indotto dal nuovo intervento.

Altrettanto deve valere per i casi in cui oggetto dell’intervento ai sensi della legge in esame sia un edificio incluso in un ambito attuativo approvato o in corso di attuazione.

In tali casi, il dimensionamento dell’urbanizzazione primaria dell’ambito attuativo scorre lungo la soglia minima di legge. E, conseguentemente, dovrà essere adeguato in misura corrispondente all’incremento del peso insediativo determinato dall’intervento in progetto.

Nel caso in cui le opere urbanizzative del Piano attuativo siano eccedentarie rispetto ai minimi, si pone un tema più complesso. Da un lato, infatti, a termini di legge l’aumento del carico urbanistico indotto dal singolo intervento potrebbe essere assorbito dalle dotazioni e infrastrutture esistenti senza necessità di adeguamento.

Dall’altro, però, tale misura eccedentaria è evidente frutto di una sintesi tra interessi pubblici (è ben possibile che il PAT esiga, in determinate Zone, dotazioni e infrastrutture eccedentarie rispetto ai minimi di legge) e privati (i lottizzatori stessi potrebbero voler impreziosire il loro ambito dotandolo, ad esempio, di verde pubblico eccedentario), effettuata in sede di redazione ed approvazione della pianificazione attuativa. Pertanto, in tali casi, non sarà sufficiente verificare sic et simpliciter la sufficienza delle opere di urbanizzazione primaria, rispetto ai minimi definiti dal PAT o, nella prospettiva più favorevole, dal coordinato disposto del d.m. n. 1444/1968 e dell’art. 17 della legge n. 765/1967.

Si dovrà ottenere l’assenso dei proprietari dei lotti inclusi nell’ambito attuativo (il singolo ampliamento, infatti, vincolerebbe a sé una parte della quota eccedentaria, originariamente intesa quale beneficio collettivo) e del Comune, che dovrà accettare la diminuzione della ridondanza urbanizzativa che era stata posta alla base della disciplina lottizzatoria di quell’area.

In tutti i casi, l’obiettivo di implementare in loco le dotazioni urbanizzative appare per certi versi arduo, sia dal punto di vista degli spazi disponibili, che sovente – a tutto concedere che ci siano – sono insufficienti ad allocare standards supplementari, che dal punto di vista della funzionalità, poiché la frammentazione delle dotazioni e delle infrastrutture in una sorta di sprawl urbanizzativo, che oltretutto prescinde dalla loro effettiva fruibilità pubblica, ne infirma la capacità di assolvere alla loro funzione.

Non ignorando detta problematica, molti Comuni hanno coniato, in applicazione analogica del principio di cui all’art. 32, comma 2, della l.r. n. 11/2004[39], disposizioni che definiscono le ipotesi in cui è ammessa la monetizzazione delle opere di urbanizzazione primaria, ed i criteri di calcolo del relativo importo equivalente, aprendo in tal modo alla delocalizzazione delle dotazioni a standards e delle infrastrutture.

La legge affronta questa problematica, alla cui (parziale) soluzione, in mancanza di disposizioni locali del genere appena accennato, appresta il percorso derogatorio di cui al comma 5 dell’art. 11.

2.5 L’implementazione delle dotazioni urbanizzative. La via derogatoria

La disposizione appena citata recita: “Gli strumenti urbanistici comunali possono individuare gli ambiti di urbanizzazione consolidata nei quali gli interventi di riqualificazione di cui all’articolo 7 consentono la cessione al comune di aree per dotazioni territoriali in quantità inferiore a quella minima prevista dagli articoli 3, 4 e 5 del decreto ministeriale n. 1444 del 1968, qualora sia dimostrato che i fabbisogni di attrezzature e spazi collettivi nei predetti ambiti, anche a seguito del nuovo intervento, sono soddisfatti a fronte della presenza di idonee dotazioni territoriali in aree contermini oppure in aree agevolmente accessibili con appositi percorsi ciclo pedonali protetti e con il sistema di trasporto pubblico. In tale caso il mantenimento delle dotazioni territoriali, infrastrutture e servizi pubblici stabiliti dal decreto ministeriale n. 1444 del 1968, è assicurato dalla monetizzazione, in tutto o in parte, della quota di dette aree”.

Com’è noto, l’ipotesi di riqualificazione del tessuto esistente di cui all’art. 7, ossia di demolizione e ricostruzione in ampliamento, consente l’allocazione di pesi insediativi anche doppi dei preesistenti.

In tal caso – ma, testualmente, non nell’ipotesi di ampliamenti ai sensi dell’art. 6 – la legge consente di ricorrere ad una sorta di smaterializzazione della quota di dotazioni, delle infrastrutture e dei servizi pubblici dovuta per il singolo intervento, che si convertirebbe in moneta.

In sintesi, lasciando il commento approfondito alla sede appropriata: lo strumento urbanistico generale può perimetrare ambiti di urbanizzazione consolidata nei quali è possibile ridurre, fino ad azzerare, le superfici da cedere a titolo urbanizzativo. La condizione oggettiva di applicabilità di tale deroga è costituita dalla disponibilità, nei pressi o a portata di mobilità lenta o di trasporto pubblico, di dotazioni adeguate. Alla cui implementazione provvederebbero le risorse captate attraverso la monetizzazione, parziale o totale, della quota urbanizzativa di spettanza dei singoli interventi. Si tratta di una disposizione volta a consentire l’applicazione della legge in esame alle Zone (tipicamente, le A e le B), prive di possibilità di ospitare rafforzamenti delle dotazioni e delle infrastrutture.

In verità, l’idea di delocalizzare le opere urbanizzative, rispetto alle aree generatrici dei pesi insediativi, non è una novità; è un rimedio, sinora sfruttato per attenuare ed allontanare – nei limiti del possibile – le tensioni infrastrutturali generate dal tessuto urbano più risalente, e fragile. In questo caso, invece, la delocalizzazione è volta a consentirne la densificazione.

Si tratta di un’opzione delicata, poiché può incidere su equilibri urbani precari.

Opportunamente la legge affida al Comune la scelta se avvalersi o meno (Gli strumenti urbanistici comunali possono individuare …) di questo strumento.

In caso affermativo, si ritiene che il provvedimento ricognitivo degli ambiti ammessi a monetizzazione delle dotazioni e delle infrastrutture dovrà contenere, oltre ai criteri di determinazione dell’importo equivalente, anche l’individuazione precisa delle aree destinate ad accogliere le opere da realizzare mediante le risorse ricavate dalla monetizzazione, e dello specifico capitolo di bilancio a ciò riservato.

In caso negativo, in tutti i casi in cui mancherà la reperibilità fisica di aree da destinare alle opere urbanizzative integrative, l’applicazione della legge in esame non sarà possibile.

In altri termini: semplicemente non facendo uso del potere di cui al comma 5 dell’art. 11, i Comuni potrebbero precludere in via di fatto l’esercizio delle facoltà ampliative/ricostruttive previste dalla legge in esame, nelle zone edificatoriamente sature e più carenti dal punto di vista delle dotazioni infrastrutturali degli AUC.

2.6. Il permesso di costruire convenzionato

Ciò posto, lo strumento cui affidare il reperimento delle dotazioni e delle infrastrutture urbanizzative, è costituito dal permesso di costruire convenzionato, introdotto nell’ordinamento nazionale dal decreto-legge n. 133/2014 (c.d. “Sblocca Italia”), che ha inserito l’art. 28-bis nel d.P.R. n. 380/2001.

Donde, in questa sede ci si limita ad una constatazione: posto che la legge sottopone a permesso di costruire gli interventi che richiedono l’adeguamento delle opere di urbanizzazione in ragione del maggior carico urbanistico connesso al previsto aumento di volume o di superficie, ogniqualvolta non sia ammessa la monetizzazione[40] o non vi si ricorra, l’intervento non potrà essere abilitato con SCIA.

3. Il terzo comma

La disposizione riprende testualmente il comma 3 dell’art. 1 della l.r. n. 14/2009 nel testo introdotto dal comma 2 dell’art. 1 della l.r. n. 32/2013, che ha sostituito le parole “di cui agli articoli 2, 3, 4 e 5” con la parola “edilizi” e che ha soppresso le parole “titolare della proprietà demaniale o”.

Anche in questo caso, le circolari regionali esplicative[41] della l.r. n. 14/2009 si sono limitate a proporre stringate parafrasi la disposizione, del resto, è limpida, et in claris non fit interpretatio.

Ci si può limitare ad osservare che essa non esclude l’applicabilità della legge agli edifici pubblici, pacificamente rientranti tra gli edifici con qualsiasi destinazione d’uso negli ambiti di urbanizzazione consolidata, nonché nelle zone agricole.

Oggetto precipuo della disposizione, comunque, sono gli edifici che sorgono su aree demaniali, o vincolate ad uso pubblico, utilizzati da privati concessionari o proprietari in base ad atti convenzionali che ne disciplinano le modalità ed i limiti di utilizzo.

Tali edifici in astratto godono delle medesime facoltà ampliative, e sono sottoposti alle medesime condizioni, previste dalla legge in esame per il patrimonio edilizio rientrante nel suo orizzonte di azione.

In concreto, tuttavia, l’esercizio di dette facoltà non è rimesso all’esclusiva iniziativa del concessionario o del proprietario, che dovrà munirsi del previo assenso dell’ente tutore.

Detto assenso non costituisce atto dovuto, ma scaturisce da una valutazione di opportunità – alla luce del pubblico interesse – condotta dall’ente, che potrebbe motivatamente negarlo, ovvero subordinarlo ad una correlativa variazione della disciplina di uso e godimento dell’immobile fissata dalla convenzione accessiva alla concessione amministrativa.

4. Il quarto comma

L’art. 3, comma 4, della l.r. n. 14/2019 delimita i casi in cui non trovano applicazione gli articoli 6 e 7 della legge regionale stessa. Nelle fattispecie previste alle successive lettere da a) ad h) non possono essere condotti né gli interventi di ampliamento (art. 6), né gli interventi di riqualificazione del tessuto edilizio tramite integrale demolizione e successiva ricostruzione (art. 7).

Per il vero, la norma in commento riprende in buona parte l’art. 9, comma 1, lettere da a) a g), della previgente l.r. n. 14/2009. La riedizione, però, non sempre è meramente ripropositiva del vecchio testo, di talché è opportuna un’analisi partita delle lettere del comma 4 dell’art. 3, per coglierne le diverse sfumature, non per rieditare commenti, che altri hanno già scritto in materia. L’esposizione sarà, quindi, volta in particolare all’approfondimento delle novità introdotte.

4.1 Il raccordo tra la l.r. n. 14/19 e la l.r. n. 14/09: la lett. h)

Sempre in via preliminare, giova anche osservare come sia di fresco conio la lettera h) del nuovo testo, dalla quale merita principiare la disamina, non solo per l’indubbia novità, ma anche per la sua natura di raccordo tra vecchia e nuova disciplina.

L’art. 17, comma 1, l.r. n. 14/2019 dispone che gli interventi edilizi proposti entro il 31 marzo 2019 continuino ad essere disciplinati dalla l.r. n. 14/2009, di modo che le segnalazioni certificate di inizio attività o le istanze di permesso di costruire seguano la previgente norma regionale.

L’art. 3, comma 4, lett. h), della legge regionale in commento, vieta di principio il cumulo tra le premialità del vecchio Piano Casa e le premialità del nuovo Piano Casa, ma con un’eccezione di rilievo, ossia “salvo che per la parte consentita e non realizzata ai sensi della predetta legge regionale 8 luglio 2009, n. 14 e comunque nel rispetto di quanto previsto dalla presente legge”.

La ratio della norma appare essere chiara, nel senso di vietare che coloro, che hanno usufruito degli indici premiali concessi dalla l.r. n. 14/2009, possano ora cumulare agli stessi gli indici premiali di cui alla l.r. n. 14/2019. Non è però vietato, essendo anzi consentito, che, laddove l’indice premiale concesso in base alla l.r. n. 14/2009 non sia stato speso o non sia stato consumato completamente, il residuo volumetrico possa essere speso, a determinate condizioni.

Non si tratta, invero, di una semplice operazione aritmetica (di per sé forse neppure agevole), perché, ove anche residuasse una potenzialità edificatoria inespressa in base alla l.r. n. 14/2009, essa comunque potrebbe essere spesa solo nel rispetto della l.r. n. 14/2019. Se anche un edificio esistente alla data del 31 ottobre 2013 non avesse usufruito per nulla dell’indice premiale ex l.r. n. 14/2009, quest’ultimo potrebbe essere applicato solo nel rispetto della disciplina oggi vigente. Ad esempio, neppure un metro cubo derivante dalla l.r. n. 14/2009 potrebbe oggi essere speso per un edificio situato al di fuori degli ambiti di urbanizzazione consolidata, o per ampliare un edificio senza che ricorrano le condizioni previste dall’art. 6.

Un’ulteriore precisazione non sembra inutile riguardo alla locuzione utilizzata dal legislatore regionale, laddove si riferisce alla “parte consentita e non realizzata dalla predetta legge regionale 8 luglio 2009, n. 14”. Per “parte consentita e non realizzata”, in particolare, non sembra doversi ritenere necessariamente assentita (con PdC) o segnalata (con SCIA), quindi assistita da un titolo edilizio già rilasciato o da una segnalazione di inizio attività già inoltrata, ma consentita in potenza dalla l.r. n. 14/2009. È sufficiente che il premio di volumetria o superficie sia conferito dalla previgente norma, anche se non ancora tradotto in atto.

Nel caso, quindi, sussistesse una SCIA o un PdC (l’una come l’altro validi ed efficaci), perfezionata o rilasciato sulla base della l.r. n. 14/2009, ovvero anche una segnalazione di inizio attività o un’istanza di permesso di costruire presentate entro il 31 marzo 2019, l’intervento edilizio potrebbe essere realizzato alle condizioni previste dal titolo, anche se in contrasto con la l.r. n. 14/2019, in forza di quanto previsto dall’art. 17, comma 1, della l.r. n. 14/2019.

Nel caso, in cui invece, non sia stato richiesto alcun PdC o presentata alcuna SCIA entro il 31 marzo 2019, o i titoli – pur antea richiesti ed ottenuti – siano medio tempore decaduti, la volumetria o la superficie assentibile in base a detta legge e mai utilizzata, potrà comunque essere spesa anche nella vigenza della l.r. n. 14/2019, sempre nel rispetto delle condizioni previste dalla vigente norma.

A ben vedere, quindi, gli indici premiali previsti dalla l.r. n. 14/2019 non potranno essere calcolati sul volume o sulla superficie dell’immobile derivante dall’applicazione del precedente Piano Casa. Ma rimane possibile – sussistendo le condizioni previste dal vigente Piano Casa – usufruire del previgente Piano Casa per la parte consentita e non realizzata in base alla l.r. n. 14/2009.

Il che sembra far risorgere, di fatto, il vecchio Piano Casa, il quale, nonostante la sua abrogazione espressa da parte dell’art. 19, comma 1, l.r. n. 14/2019, potrà ancora orientare, come novello Lazzaro, chi potesse ancora rosicchiare qualcosa (o molto) in base alla l.r. n. 14/2009, salvo, comunque, il rispetto della vigente normativa.

Una volta illustrata la novità dell’art. 3, comma 4, lett. h), della l.r. n. 14/2019, vanno analizzate le altre lettere, di cui si compone il comma stesso, per comprende se e cosa sia stato modificato rispetto al previgente art. 9, sottolineando sin d’ora come l’attuale norma disciplinante l’Ambito di applicazione della legge regionale sia ora più opportunamente collocata all’art. 3, ossia fra le prime disposizioni della norma.

4.2. La lett. a): gli edifici monumentali ed i vincoli indiretti

L’art. 3, comma 4, lett. a), della l.r. n. 14/2019 esclude l’applicazione degli articoli 6 e 7 agli edifici “vincolati ai sensi della parte seconda del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 “Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137”. Nel caso di immobili oggetto di vincolo indiretto, ai sensi dell’art. 45 del citato decreto legislativo, gli interventi sono consentiti laddove compatibili con le prescrizioni di tutela indiretta disposte dall’autorità competente in sede di definizione o revisione del vincolo medesimo”.

Il previgente art. 9, comma 1, lett. b), della l.r. n. 14/2009 si fermava alla prima frase – invero opportunamente integrata dalla locuzione “e successive modificazioni”, mancante nel vigente testo – e non contemplava espressamente la possibilità di applicare il Piano Casa nel caso di immobili gravati da vincolo indiretto, ove gli interventi fossero compatibili con le prescrizioni di tutela indiretta.

Rispetto alla norma in commento, si rendono necessarie alcune chiose di prima lettura.

La prima osservazione è, in realtà, una precisazione, meglio, una serie di precisazioni: ai sensi dell’art 2, comma 1, del d.lgs. 42/2004 il patrimonio culturale è articolato in beni culturali (disciplinati dalla parte II del decreto) e beni paesaggistici (disciplinati dalla parte III del decreto). Nessuna esclusione ex lege è prevista in relazione ai beni paesaggistici, di talché rispetto agli immobili vincolati sotto il profilo paesaggistico gli articoli 6 e 7 della l.r. n. 14/2019 potranno essere applicati, previo conseguimento dell’autorizzazione paesaggistica.

Sono, invece, del tutto esclusi dall’applicazione degli articoli 6 e 7 della l.r. n. 14/2019 gli immobili qualificati come beni culturali ed astretti dal vincolo di tutela diretta, ai sensi dell’art. 13 del d.lgs. 42/2004, quindi gli immobili, rispetto ai quali è stata notificata al proprietario la dichiarazione di interesse culturale.

Con riferimento, invece, agli immobili astretti dal vincolo di tutela indiretta, ai sensi dell’art. 45 del d.lgs. 42/2004[42], la novella regionale ammette l’applicabilità degli articoli 6 e 7, unicamente laddove compatibili con le prescrizioni di tutela indiretta disposte dall’autorità competente in sede di definizione o di revisione del vincolo medesimo.

La seconda osservazione, quindi, attiene alla novità introdotta dalla l.r. n. 14/2019, ossia all’applicabilità del Piano Casa anche agli immobili gravati da vincolo indiretto, ricorrendo le condizioni anzi viste[43]. Ora non è più revocabile in dubbio che gli articoli 6 e 7 della l.r. n. 14/2019 possano applicarsi agli immobili astretti da vincolo indiretto ex art. 45 del d.lgs. 42/2004.

La terza osservazione riguarda, infine, le concrete ed operative modalità, con cui i Comuni possono assentire il titolo edilizio o non inibire la segnalazione certificata di inizio attività, nel caso di ampliamenti o di demolizioni e successive ricostruzioni in relazione ad immobili soggetti a vincolo indiretto.

L’art. 3, comma 4, lett. a), della l.r. n. 14/2019, infatti, consente gli interventi del Piano Casa anche rispetto ad immobili astretti dal vincolo di tutela indiretta, ove compatibili con le prescrizioni di tutela indiretta. Il giudizio di compatibilità non può che spettare alla Soprintendenza, salvo forse i casi in cui il vincolo di tutela indiretta sia compiutamente “vestito” (ipotesi non facile, specie nei provvedimenti di vincolo più risalenti) e dettagli con estrema precisione gli interventi ammessi.

4.3. La lett. b): le disposizioni di tutela di fonte urbanistica e territoriale

L’art. 3, comma 4, lett. b), della l.r. n. 14/2019 esclude l’applicazione degli articoli 6 e 7 per gli edifici “oggetto di specifiche norme di tutela da parte degli strumenti urbanistici e territoriali che non consentono gli interventi edilizi previsti”. Si tratta di norma del tutto analoga rispetto all’art. 9, comma 1, lett. c), della previgente l.r. n. 14/2019. Ove, quindi, specifiche norme di pianificazione urbanistica e territoriale non consentano, in particolare, ampliamenti o demolizioni e successive ricostruzioni, tali interventi non potranno essere assentiti. Si tratta, quindi di analizzare caso per caso gli interventi in funzione della specifica forma di tutela introdotta, di talché non si tratta certo di un divieto assoluto d’applicazione del Piano Casa al cospetto di specifiche norme di tutela, ma di divieto relativo, nel caso in cui esse impediscano in concreto l’intervento edilizio di cui all’art. 6 o all’art. 7[44]. Si può quindi convenire con chi ha sostenuto l’ammissibilità degli interventi del Piano Casa, ove essi non siano espressamente vietati dalla specifica norma di tutela[45]. Il tema, peraltro, appare di grande delicatezza specialmente in relazione all’estensione dei gradi di protezione, sovente attribuiti dallo strumento urbanistico comunale[46].

4.4. La lett. c): l’inderogabilità della normativa settoriale sul commercio

L’art. 3, comma 4, lett. c), della l.r. n. 14/2019 non consente l’applicazione degli articoli 6 e 7 agli edifici aventi destinazione commerciale, “qualora siano volti ad eludere o derogare le disposizioni regionali in materia di commercio, in particolare con riferimento alla legge regionale 28 dicembre 2012, n. 50”. Anche in questo caso si tratta di norma affatto analoga rispetto all’art. 9, comma 1, lett. f), della l.r. n. 14/2009[47]. Valga ribadire come anche in questa fattispecie la norma non introduca alcun divieto assoluto di applicazione del Piano Casa agli edifici aventi destinazione commerciale, ma un divieto relativo, impedendo solo gli interventi volti ad eludere o derogare le disposizioni di cui alla l.r. n. 50/2012, non già altri interventi (ad esempio quelli volti all’ampliamento del magazzino od a superfici non riservate alla vendita al pubblico).

4.5. La lett. d): gli edifici anche parzialmente abusivi

L’art. 3, comma 4, lett. d), della l.r. n. 14/2019 non consente l’applicazione degli ampliamenti e della demolizione integrale e successiva ricostruzione di edifici “anche parzialmente abusivi”. È vero che la norma è identica rispetto all’ultima formulazione dell’art. 9, comma 1, lett. e), della l.r. n. 14/2009, ma il punto merita un approfondimento, sulla base anche della più recente giurisprudenza[48]. Sembra, infatti, acquisita l’interpretazione strettamente formale della norma, in base alla quale, ove sussista l’abuso, anche parziale, non possa essere mai invocata l’applicazione del Piano Casa, nemmeno per la parte legittimamente assentita, così come sembra acquisita l’impossibilità di applicare il Piano Casa in sanatoria.

Invero, la dottrina[49] ha dubitato della logicità dell’interpretazione formale della nozione di edifici anche parzialmente abusivi, nulla ostando in realtà all’applicabilità del Piano Casa per la parte dell’edificio legittimamente assentita.

Si è anche giustamente ricordato[50] come l’esclusione degli edifici abusivi dall’ambito dell’applicazione delle leggi regionali di incentivazione dell’edilizia fosse principio contenuto nell’Intesa tra Stato e Regioni sottoscritta il 31 marzo 2009, dalla quale era poi derivata la l.r. n. 14/2009. Intesa che, però, non è più alla base della l.r. n. 14/2019, norma che inoltre non è più “a tempo”, ma a regime.

Va anche ricordato come, in tema di sanatoria, viga oggi la rigida applicazione del principio di doppia conformità, la c.d. sanatoria giurisprudenziale essendo orientamento recessivo[51]. Ma è proprio sulla base dell’affermazione della doppia conformità che, forse, si può giungere a risolvere il problema, che si è sempre posto rispetto al Piano Casa, ossia se tale norma possa essere fatta valere ai fini dell’ottenimento della sanatoria, ai sensi dell’art. 36 del D.P.R. 380/2001.

Lo scenario normativo ed il panorama giurisprudenziale sembrano mutati rispetto al precedente Piano Casa. L’attuale non è più misura temporanea, ma è a regime. Restringe la propria applicazione agli ambiti di urbanizzazione consolidata (nozione introdotta e definita dalla l.r. n. 14/2017 sul contenimento del consumo di suolo) ed, in parte, alle zone agricole. Dal punto di vista giurisprudenziale, è intervenuta la sentenza della Corte costituzionale 11 maggio 2017, n. 107.

La Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 12, comma 4-bis, del Piano Casa campano, di cui alla l.r. n. 19/2009. La norma prevedeva che la sanatoria ex art. 36 del D.P.R. 380/2001 si applicasse anche agli interventi previsti dal Piano Casa, purché realizzati dopo la sua entrata in vigore, privi di titolo abilitativo o in difformità da esso, e purché conformi alla “stessa legge” sia al momento della realizzazione delle opere, sia al momento della presentazione dell’istanza di sanatoria. La declaratoria di incostituzionalità non è fondata sull’illegittimità costituzionale relativa alla sanatoria attraverso il Piano Casa, ma sull’illegittimità della norma campana, laddove faceva riferimento alla “stessa legge” e non alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente all’epoca dell’esecuzione dell’opera abusiva, con ciò potendo indurre l’interprete a ritenere sanabili opere conformi alla legge regionale vigente nella formulazione attuale e non anche alla disciplina vigente al momento della realizzazione delle opere.

Nulla osterebbe, forse, a ritenere legittima la sanatoria di abusi edilizi tramite il Piano Casa, laddove si trattasse di interventi realizzati dopo l’entrata in vigore del Piano Casa stesso ed a condizione che l’intervento edilizio fosse conforme tanto alla disciplina vigente al momento della presentazione dell’istanza di sanatoria, quanto alla disciplina vigente al momento della realizzazione dell’opera abusiva.

Sotto questo profilo, potrebbe, quindi, non essere esclusa l’applicazione del Piano Casa in funzione sanante, ricorrendo i presupposti anzi visti[52]. Ciò a maggior ragione con l’attuale Piano Casa, che non è a tempo, ma è a regime e che – seppure alle condizioni previste dalla l.r. n. 14/2019 – ha di fatto integrato ope legis gli strumenti urbanistici comunali con le diverse carature urbanistiche riservate agli interventi di ampliamento e di demolizione integrale con successiva ricostruzione.

4.6. La lett. e): i centri storici

L’art. 3, comma 4, lett. e), della l.r. n. 14/2019 vieta l’applicazione degli articoli 6 e 7 agli edifici “ricadenti all’interno dei centri storici ai sensi dell’articolo 2 del decreto ministeriale 2 aprile 1968, n. 1444 … omissis … salvo che per gli edifici che risultino privi di grado di protezione, ovvero con grado di protezione di demolizione e ricostruzione, di ristrutturazione o sostituzione edilizia, di ricomposizione volumetrica o urbanistica, anche se soggetti a piano urbanistico attuativo; in tali casi devono essere rispettati i limiti massimi previsti dal n. 1), del primo comma, dell’articolo 8, del decreto ministeriale n. 1444 del 1968”. La norma non si distingue dall’art. 9, comma 1, lett. a), della l.r. n. 14/2009, sicché non muta la prospettiva di evidente tutela dei centri storici, impressa dagli strumenti urbanistici comunali.

4.7. La lett. f): le aree inedificabili

L’art. 3, comma 4, lett. f), della l.r. n. 14/2019, vieta l’applicazione della legge stessa in riferimento ad edifici “ricadenti nelle aree con vincoli di inedificabilità di cui all’articolo 33 della legge 28 febbraio 1985, n. 47 … omissis …, o dichiarate inedificabili per sentenza o provvedimento amministrativo”. Norma identica rispetto all’art. 9, comma 1, lett. d), della l.r. n. 14/2009.

Il riferimento all’art. 33 della legge sul (primo) condono edilizio dovrebbe sottintendere vincoli di inedificabilità assoluta e non relativa, ma i problemi sottesi, in particolare, all’applicazione del Piano Casa entro le c.d. fasce di rispetto (stradali, autostradali, ferroviarie, aeroportuali, cimiteriali, del demanio marittimo e delle acque pubbliche) sono risultati assai complessi e per nulla scontati all’occhio attento della dottrina[53]. Sul concetto di inedificabilità per sentenza o provvedimento amministrativo pare utile richiamare la recente giurisprudenza in ordine ai vincoli di inedificabilità per previsione dello strumento urbanistico[54], che escludono l’applicazione del Piano Casa.

L’esame di tutte le fattispecie in considerazione esulerebbe dallo scopo della presente pubblicazione e sarebbe, forse, meritevole di una trattazione riservata, tante essendo le più varie sfumature.

4.8. Le fasce di rispetto stradali

Tra i molti temi, sia consentito approfondire in questa sede almeno il profilo delle fasce di rispetto stradale fuori dai centri abitati[55], tema che vede molteplici interventi giurisprudenziali e normativi, non sempre coerenti.

Di primo acchito, infatti, la lente d’indagine del giurista correrebbe al (Nuovo) Codice della Strada, di cui al d.lgs. 30 aprile 1992, n. 285, sede della normativa in materia. Ivi l’interprete troverebbe agilmente l’art. 16 del Codice, disciplinante proprio il vincolo di inedificabilità, inerente alle fasce di rispetto stradali fuori dai centri abitati. Con ulteriore movimento, scoverebbe, inoltre, l’art. 26 del Regolamento attuativo (D.P.R. 16 dicembre 1992, n. 495), volto a conferire specifica consistenza e latitudine al vincolo qui in discussione, completando così ciò che sembrerebbe costituire un quadro organico di disciplina della fattispecie.

Tuttavia, non è così semplice.

L’art. 234, comma 5, del Codice della strada, condiziona l’applicazione della disciplina di cui all’art. 16 del Codice sia alla classificazione dei centri abitati, di cui all’art. 4, sia alla classificazione delle strade, ai sensi dell’art. 2, comma 2, così ponendo fuori campo la descritta, piana, disciplina. Infatti, laddove la delimitazione dei centri abitati da parte dei Comuni è traguardo da lungo raggiunto, la classificazione delle strade di cui all’art. 2 si attesta ad oggi quale opera incompiuta; dal che potrebbe essere dubbia l’applicabilità del binomio normativo rappresentato dall’art. 16, d.lgs. n. 285/1992 e dall’art. 26, comma 3, d.P.R. n. 495/1992.

L’ermeneuta, dunque, rimasto orfano di un corpus normativo di (apparente) intuitiva applicazione, è costretto a ricercare altre disposizioni applicabili alla fattispecie. Trova conforto in ben più risalenti disposizioni, ossia nella legge urbanistica nazionale n. 1150/1942, come integrata con l’inserimento dell’art. 41 septies, ad opera dell’art. 19 l. n. 765/1967.

Detto art. 41 septies dispone – fuori dal perimetro dei centri abitati – il rispetto di distanze minime dal nastro stradale, misurate dal relativo ciglio, stabilite con Decreto del Ministero per i lavori pubblici in concerto con i Ministeri dei Trasporti e dell’Interno, ossia con il d.m. 1° aprile 1968, in particolare con il suo articolo 4.

Quest’ultimo quadro racchiude una disciplina organica e sufficiente della fascia di rispetto stradale, corredata delle opportune definizioni, classificazioni ed estensioni spaziali del vincolo.

Allo stato, quindi, appare sostenibile l’inapplicabilità dell’art. 16 del Codice della strada e dell’art. 26 del suo Regolamento d’attuazione, e l’applicabilità della normativa previgente. Ciò in ragione, da un lato, dell’inerzia dell’Amministrazione statale, che non ha provveduto alla classificazione delle strade prevista dall’art. 2, comma 2, del d.lgs. n. 285/1992, dall’altro, dell’art. 234, comma 5, del Codice della strada, norma che rinvia all’applicazione dell’ordinamento previgente nelle more dell’individuazione comunale del centro abitato e della classificazione statale delle strade. Presupposto, quest’ultimo, ad oggi non ancora sussistente.

L’affermata tesi dell’inapplicabilità dell’art. 16 del Codice della strada e dell’art. 26 del Regolamento attuativo, invero, è stata condivisa anche da quella giurisprudenza, che si è occupata dell’argomento[56].

Va, però, dato atto di un arresto giurisprudenziale[57], che, al contrario, ritiene applicabile il Codice della strada ed il suo Regolamento attuativo, sulla base dell’argomento per cui il trasferimento delle competenze in materia stradale dallo Stato alle Regioni ed alle Province – a partire dal d.lgs. n. 112/1998 – avrebbe comportato la compiuta classificazione delle strade, rendendo quindi applicabili le norme anzi viste.

Se dovesse prevalere l’ultimo degli orientamenti giurisprudenziali sopra rassegnati, si dovrebbe fare applicazione dell’art. 16 del Codice della strada e dell’art. 26 del Regolamento attuativo, non dell’art. 41-septies della l. n. 1150/1942 e del d.m. 1° aprile 1968.

Si deve solo all’art. 26 del Regolamento attuativo (o, meglio, all’art. 1 del D.P.R. 26 aprile 1993, n. 147) l’introduzione della locuzione “ampliamenti fronteggianti le strade”, sconosciuta al sistema basato sull’art. 41-septies della l. n. 1150/1942 e sul d.m. 1° aprile 1968, norme che nulla dicevano in merito agli ampliamenti fronteggianti le strade.

Se, quindi, si dovesse ritenere applicabile il corpus normativo dato dal Codice della strada e dal Regolamento attuativo, ci si dovrebbe interrogare circa la reale portata della riferita locuzione; più precisamente, se essa debba essere interpretata nel senso che siano consentiti gli ampliamenti e le nuove edificazioni in fascia di rispetto stradale, purché tali interventi vengano realizzati in direzione opposta rispetto alla strada.

Per una risposta di tipo negativo militano i seguenti argomenti.

Una considerazione puramente letterale, posto che la nuova edificazione o l’ampliamento comunque fronteggiano la strada, del tutto irrilevante essendo il fatto che tra essi si interponga un edificio già realizzato. Altrimenti detto, la prospettiva utile è quella che si ha dalla strada; rispetto ad essa tutto è fronteggiante: sia l’edificio – in ipotesi – preesistente, sia l’ampliamento – sempre in ipotesi – realizzato dalla parte opposta rispetto alla strada. L’interposizione di un esistente edificio può forse nascondere l’ampliamento dalla strada, ma nondimeno esso fronteggia la strada, secondo una visione complessiva ed unitaria.

Un ulteriore argomento deriva dal fatto che il vincolo generato dalla fascia di rispetto stradale è generalmente qualificato come assoluto[58], irrilevanti essendo le caratteristiche concrete delle opere realizzate in fascia di rispetto stradale[59], posto che: “Le distanze previste vanno osservate anche con riferimento ad opere che non superino il livello della sede stradale o che costituiscano mere sopraelevazioni o che, pur rientrando nella fascia, siano arretrate rispetto alle opere preesistenti (cfr. sul punto, ex plurimis, Cons. Stato, Sez. IV, 30 settembre 2008, n. 4719 e Cass. civ., Sez. II, 3 novembre 2010, n. 22422)[60].

Del resto, la qualificazione in termini assoluti del vincolo di rispetto stradale discende dall’adozione di una ricognizione della ratio legis in ottica particolarmente ampia. Secondo una prospettiva ristretta, il divieto sarebbe diretto esclusivamente a prevenire, da un lato, ostacoli materiali a modifiche al tracciato stradale e, dall’altro, possibili pregiudizi alla sicurezza del traffico veicolare e all’incolumità delle persone. Secondo l’ottica più ampia, invece, il vincolo insisterebbe a presidio di “una fascia di rispetto utilizzabile per finalità di interesse generale e, cioè, per esempio, per l’esecuzione dei lavori, per l’impianto dei cantieri, per il deposito dei materiali, per la realizzazione di opere accessorie, senza vincoli limitativi connessi alla presenza di costruzioni[61].

Si è, però, affacciata in giurisprudenza[62] altra e diversa prospettazione, in base alla quale sarebbe comunque consentita l’edificazione all’interno della fascia di rispetto stradale, ove la nuova opera fosse retrostante rispetto alla strada.

Sia le norme in tema di fasce di rispetto stradale, sia la giurisprudenza non conducono – complessivamente – ad approdi rassicuranti.

In materia, peraltro, è intervenuta anche la legislazione veneta, con la l.r. n. 30/2016. L’art. 63, comma 5, della stessa introduce un inedito comma 4-ter all’art. 41, della l.r. n. 11/2004, incidendo sulla disciplina qui d’interesse in una triplice direzione, ossia consentendo:

  1. gli interventi di cui all’art. 3, comma 1, lett. a), b), c) e d), D.P.R. n. 380/2001, ad esclusione della demolizione con ricostruzione in loco, entro la fascia di rispetto stradale, con riferimento alle costruzioni non oggetto di tutela da parte di PAT e PI;
  2. gli interventi di demolizione e ricostruzione in area agricola adiacente ai fabbricati inseriti nella fascia di rispetto stradale, sempre che il nuovo sedime sia posto in area esorbitante tale fascia ma non oltre 200 metri dal sedime originario;
  3. l’approvazione del PI, che, attraverso specifiche schede d’intervento, consenta ampliamenti di fabbricati residenziali esistenti all’interno della fascia di rispetto, purché: a) non siano superiori al 20% del volume esistente; b) siano realizzati sul lato opposto rispetto a quello fronteggiante la strada; c) siano necessari per l’adeguamento alle norme igienico-sanitarie; d) non comportino pregiudizi maggiori alle esigenze di tutela della circolazione; e) il rilascio del titolo edilizio sia preceduto dall’assenso dell’ente proprietario o gerente la strada; f) sia accompagnata dalla sottoscrizione di un atto d’obbligo dell’avente titolo a non richiedere eventuali maggiori somme a titolo di indennizzo in ipotesi di eventuali lavori da svolgere sulla sede viaria.

La novella consente in fascia di rispetto stradale ogni intervento edilizio ad esclusione della nuova costruzione e della demolizione e ricostruzione in loco. Consente, altresì, la demolizione e successiva ricostruzione dell’edificio al di fuori della fascia di rispetto stradale, anche sull’adiacente zona agricola, purché entro 200 metri rispetto al sedime originario.

Pur se con i visti limiti, alle ricordate condizioni e nel necessario quadro del Piano degli Interventi in Regione Veneto è, quindi, normativamente consentito realizzare ampliamenti in fascia di rispetto stradale. Viatico rispetto all’applicazione della vista norma regionale viene senz’altro dalla recente giurisprudenza del Consiglio di Stato[63], rispetto alla quale la disposizione veneta appare financo restrittiva.

In conclusione, il quadro dell’edificabilità in fascia di rispetto stradale non si presenta ancora con contorni nitidamente definiti, essendo interessato da oscillazioni giurisprudenziali, stimolate da un sistema normativo non certo cristallino. Ai contorni non ancora ben definiti, si aggiunge il rapporto tra art. 41, comma 4-ter, della l.r. n. 11/2004 e l.r. n. 14/2019, ossia se la seconda deroghi la prima, quanto meno rispetto agli ampliamenti da realizzare sul lato opposto a quello fronteggiante la strada. La risposta dovrebbe essere affermativa, ove non si riconoscesse natura di vincolo assoluto alla fascia di rispetto stradale, secondo quanto deduce parte della giurisprudenza[64]. Negativa, ove invece se ne riconoscesse la natura di vincolo assoluto[65], stante l’anzi visto art. 3, comma 4, lett. f), l.r. n. 14/2019.

Per quanto dianzi esposto in tema di natura e funzione della fascia di rispetto stradale, pare preferibile propendere per quest’ultima tesi.

Invero, la disposizione in commento mira a congelare lo status quo edificatorio di tutte le zone vincolate, ad evitare che la loro stessa ragion d’essere sia compromessa dalla sopravvenienza di addizioni edilizie. E non paiono profilarsi motivi che convincano a sottrarre il vincolo posto a protezione dei nastri stradali al regime proprio dei vincoli assoluti

4.9. La lett. g): le aree di elevata o molto elevata pericolosità idraulica

Infine, l’art. 3, comma 4, lett. g), della l.r. n. 14/2019 vieta l’applicazione degli articoli 6 e 7 agli edifici ricadenti in aree dichiarate di pericolosità idraulica o idrogeologica molto elevata (P4) o elevata (P3) dai Piani stralcio di bacino, fatte salve le disposizioni di cui all’art. 9.

La formulazione del previgente art. 9, comma 1, lett. d), della l.r. n. 14/2009, invero, era diversa, posto che contemplava in generale le aree dichiarate ad alta pericolosità idraulica (nulla però dicendo circa la pericolosità idrogeologica).

Da una prima analisi letterale della vigente norma, si ricava che le restrizioni operano solo con riferimento alle aree dichiarate dall’Autorità di Bacino di pericolosità idraulica o idrogeologica molto elevata o elevata, ma non operano nelle altre aree di moderata o media pericolosità (P2) o nelle altre aree, pur di rilevante pericolosità, dichiarata però da Amministrazioni diverse rispetto all’Autorità di Bacino.

L’esempio potrebbe essere dato da un vincolo idrogeologico di inedificabilità, che trova compiuta definizione in sede di PAT, precisamente nella carta delle fragilità e che non deriva da un vincolo sovraordinato, rinvenibile nel Piano d’Assetto Idrogeologico dell’Autorità di Bacino, ma dalla realizzazione geologica propedeutica alla redazione del PAT.

Se è vero che l’art. 3, comma 4, lett. g), della l.r. n. 14/2019 formalmente consentirebbe l’applicazione del Piano Casa, posto che il vincolo idrogeologico non deriverebbe dalla pianificazione dell’Autorità di Bacino, è anche vero che comunque non potrebbe essere applicato il Piano Casa, perché vi sarebbe una specifica norma dello strumento urbanistico, che non ne consente l’applicazione, come previsto dall’art. 3, comma 4, lett. b), della l.r. n. 14/2019.

 

[1] Il comma ricalca la rubrica e la struttura sistematica del precedente art. 9 della l. 14/2009, replicandone la reciproca dissonanza: la casistica applicativa, infatti, è enunciata per edifici, e non per ambiti. è localizzativo

[2] Rispetto al comma 1 dell’art. 2 della l.r. n. 14/2009 è stato soppresso il predicato esistenti, che accompagnava il sostantivo edifici, giacché con la messa a regime della deroga viene meno il requisito dell’avvenuta realizzazione dell’edificio o della presentazione dell’istanza del titolo abilitativo alla data indicata nella legge, ed è pacifico che la legge in esame sarà applicabile ad edifici ad oggi inesistenti ma che verranno realizzati in futuro.

[3] Precisiamo, subito, che si proporrà un criterio, per individuare detti ambiti, basato su elementi giuridico-formali. Si sorvolerà, dunque, sull’esemplificazione proposta dall’Allegato B della DGRV 15/05/2018, n. 668, costituita da una sorta di diagramma di flusso basato sullo zoning nominalistico risalente al d.m. 1444/68 (che, per la verità, la Regione stessa intendeva superare, sin dalla l.r. n. 11/2004). E va detto che in tale Allegato – alla fig. 3.1 – spicca una significativa restrizione, che limiterebbe le pianificazioni attuative inseribili negli ambiti di urbanizzazione consolidata alle sole “aree destinate dallo strumento urbanistico alla trasformazione insediativa, oggetto di un piano urbanistico attuativo in fase di realizzazione”. Ricalcando, dunque, la definizione dettata, per le aree di urbanizzazione consolidata di cui all’art. 13, comma 1, lett. o) della l.r. n. 11/2004, dall’Atto di indirizzo di cui alla DGRV 3811/2009, di cui si dirà oltre. Risparmiando commenti sulla tecnica redattiva dell’atto, va da sé che perimetrazione siffatta non possa reggere il vaglio di legittimità, a fronte del testo della l.r. n. 14/2017, che include nell’AUC le parti del territorio oggetto di un piano urbanistico attuativo approvato.

[4] La disposizione di cui all’art. 13, comma 1, lett. o), della legge urbanistica fondamentale non proponeva elementi identificativi dell’AUC, limitandosi a definirlo.

[5] Cfr. la relazione Calzavara al PdL 402, nel passaggio in II Commissione.

[6] Si accenna, qui, ad una questione che appare, in prospettiva, cruciale: nei casi in cui i proprietari di terreni liberi, inclusi nelle aree di urbanizzazione consolidata ai sensi dell’art. 13 comma 1 lett. o), non ne sviluppino il potenziale edificatorio, il Comune, a fronte di un fabbisogno insoddisfatto, potrà (o dovrà?) intervenire, per saturarne le capacità insediative prima di pianificare il consumo di suolo esterno all’AUC? La risposta, alla luce dei ridetti principi sul contenimento del consumo di suolo, pare dover essere affermativa, ed allo scopo potrebbero sovvenire strumenti officiosi quali quelli previsti agli ultimi due commi dell’art. 28 della l. 1150/1942.

[7] Siano esse qualificabili naturali (ossia frutto spontaneo della natura), seminaturali (ossia biologiche, ma scaturite o comunque incise dall’attività antropica) o agricole, ai sensi dell’art. 2, comma 1, lett. a) e b) della l.r. n. 14/2017.

[8] Come tali vanno intese non solamente le (sub)Zone E4, ma anche i non infrequenti siti produttivi impropriamente ubicati in zona agricola, sovente stabilizzati, se non anche espansi, in forza di zonizzazioni puntiformi scaturite da procedimenti derogatori ai sensi del D.P.R. 20/10/1998, n. 447, in relazione all’art. 48 comma 7bis2 della l.r. n. 11/2004 prima, poi D.P.R. 7/09/2010, n. 160 e l.r. n. 31/12/2012, n. 55.

[9] Si fa riferimento alle aree di urbanizzazione consolidata – che, come si vedrà, costituiscono il core degli AUC ai sensi dell’art. 2 della l. reg. 14/2017 – poiché sulle porzioni di territorio supplementari che distinguono questi ultimi, ossia gli ambiti dei PUA approvati, e per tutta la durata della loro efficacia, non possono rinvenirsi superfici naturali o seminaturali autonome – vale a dire non vincolate a funzioni urbanizzative – e perciò trasformabili con successive pianificazioni, né tantomeno superfici agricole.

[10] [1. Sono sempre consentiti sin dall’entrata in vigore della presente legge ed anche successivamente, in deroga ai limiti stabiliti dal provvedimento della Giunta regionale di cui all’articolo 4, comma 2, lettera a):]

  1. a) gli interventi previsti dallo strumento urbanistico generale ricadenti negli ambiti di urbanizzazione consolidata;

[11] In caso di attuazione parziale, il Comune dovrà attingere alle garanzie, ed ultimare la trasformazione, portando il PUA alla condizione di attuato. Va eccettuato il caso in cui la parziale attuazione si limiti ad un singolo comparto, rimanendo inattuati gli altri. In tale ipotesi il Comune potrà limitarsi a completare detto comparto, attingendo alla garanzia, senza procedere nella trasformazione dei terreni inclusi in altri comparti del PUA, e rimasti allo stato naturale o seminaturale.

[12] Mantenendo la superficie, rinaturalizzata o rinunciata, all’interno dell’area di urbanizzazione consolidata, si evita che tali superficie siano de plano riallocate fuori dall’AUC, e che in tal modo si creino ulteriori sfrangiature dell’edificato (dalle quali il territorio Veneto pare già sufficientemente martoriato).

[13] Il traguardo dell’AUC, pertanto, è la stabilità. Con tutte le cautele dovute alla lunghissima gittata temporale della previsione, si ritiene che modificazioni di tale perimetrazione “finale” potrebbero conseguire solo ad interventi di espianto e rilocalizzazione dei tessuti edificati esistenti che risultino ubicati in zone inappropriate, per fragilità idrauliche, geologiche, sismiche o perché interferenti con nuove opere pubbliche. Va da sé che la riallocazione dovrà essere condotta ricorrendo alla trasformazione di aree agricole solamente se non siano disponibili risorse interne all’AUC, e comunque nel rispetto del dogma citato nel testo.

[14] La disposizione fa riferimento esclusivamente all’approvazione dello strumento attuativo. La stipula della Convenzione non è richiesta.

[15] La disposizione di riferimento in questo caso è l’art. 18bis della l. reg. 11/2004, che- echeggiando il coordinato disposto degli artt. 9 e 109 della l. reg. 61/1985, ammette sempre, in diretta attuazione degli strumenti urbanistici generali, anche in assenza dei piani attuativi dagli stessi richiesti, gli interventi (…) di completamento su parti del territorio già dotate delle principali opere di urbanizzazione primaria e secondaria.

[16] Qui il richiamo è alla decadenza quinquennale dei vincoli pre-espropriativi sancita dal comma 7 dell’art. 18 della l. reg. 11/2004, che consegna le aree destinate ad una mera ipotesi trasformativa, possibile.

[17] Così la migliore dottrina: cfr. A. Calegari, Gli ambiti di urbanizzazione consolidata, in La Nuova Urbanistica Veneta – Guida pratica alla L.R.V. n. 14/2017 sul Consumo del Suolo, a cura di S. Dal Prà, G. Sartorato e A. Calegari, 2018, pp. 67 e ss.

[18] Per attuazione si intende la realizzazione delle opere di urbanizzazione e la cessione delle correlative aree a servizi. In tema di scadenza dei PUA, si ritiene che un’azione amministrativa rispettosa dei principi sul contenimento del consumo di suolo dovrà fare attento uso della facoltà di proroga dell’efficacia del PUA di cui alla seconda parte del comma 11 dell’art. 20 della l.r. n. 11/2004, limitandone la concessione ai casi in cui le opere siano già avviate. Si tenga presente anche quanto esposto alla nota 11, per l’ipotesi in cui le opere in via di realizzazione afferiscano ad un singolo comparto. Come accennato, in casi simili parrebbe conforme alla ratio legis limitare la proroga a tale comparto, escludendone gli altri.

[19] Nulla, infatti, vieta che la c.d. riclassificazione mediante Variante verde sia richiesta dopo l’approvazione di un PUA.

[20] Rimarrebbero, ovviamente, del tutto legittimi gli eventuali interventi che, nel periodo di efficacia del PUA, fossero stati abilitati ai sensi della legge in esame su edifici preesistenti inclusi nell’ambito attuativo. Anche in materia urbanistico-edilizia, infatti, vige il principio tempus regit actum, sicché, se la costruzione è sorta legittimamente alla stregua delle regole vigenti all’epoca della sua realizzazione, il successivo mutamento della situazione di fatto e/o di diritto non la rende abusiva.

[21] Unica possibilità di sottrarre – momentaneamente – l’ambito inattuato all’eventualità di stralcio dell’edificabilità è quella contemplata al comma 11 dell’art. 20 della l. reg. 11/2004.

[22] Per il caso di parziale attuazione, vale il principio esposto alla nota 11: il Comune dovrà attingere alle garanzie, ed ultimare la trasformazione, portando il PUA alla condizione di attuato, nel senso indicato alla nota 13. Se la parziale attuazione riguardasse un singolo comparto, rimanendo inattuati gli altri, il Comune potrà limitarsi a completarlo, attingendo alla garanzia, senza procedere nella trasformazione dei terreni inclusi negli altri comparti del PUA.

[23] L’ipotesi non è infrequente: si pensi agli ambiti attuativi finalizzati alla riconfigurazione ed alla ricucitura di zone edificate rade e di frangia. Le costruzioni ivi esistenti potranno godere delle facoltà ampliative di cui alla l. reg. 14/2019 tanto ed in quanto il loro ambito di appartenenza rimanga incluso in AUC.

[24] Non si pone, ovviamente, il problema opposto, ossia di PUA nel frattempo giunti ad approvazione, poiché i piani in corso di formazione al 24 giugno 2017, data di vigenza della l. re. 14, sono stati fatti salvi, e con ciò esclusi dal conteggio del consumo di suolo, in forza dell’art. 13, commi 4 e 5, della l.r. n. 14/2017.

[25] Nei termini (presenza delle strutture portanti e della copertura) definiti all’art. 6, comma 1, della l. reg. 14/2019, come novellato dall’art. 15 della l. reg. 29/2019.

[26] Ai sensi dell’art. 13, comma 1, lett. k), della l.r. n. 11/2004.

[27] Il testo richiamato recita: c) i lavori e le opere pubbliche o di interesse pubblico;

  1. d) gli interventi di cui al Capo I della legge regionale 31 dicembre 2012, n. 55 “Procedure urbanistiche semplificate di sportello unico per le attività produttive e disposizioni in materia urbanistica, di edilizia residenziale pubblica, di mobilità, di noleggio con conducente e di commercio itinerante”;
  2. e) gli interventi di cui all’articolo 44 della legge regionale 23 aprile 2004, n. 11, e, comunque, tutti gli interventi connessi all’attività dell’imprenditore agricolo;
  3. f) l’attività di cava ai sensi della vigente normativa;
  4. g) gli interventi di cui alla legge regionale 8 luglio 2009, n. 14 “Intervento regionale a sostegno del settore edilizio e per favorire l’utilizzo dell’edilizia sostenibile e modifiche alla legge regionale 12 luglio 2007, n. 16 in materia di barriere architettoniche”, le cui premialità sono da considerarsi alternative e non cumulabili con quelle previste dal presente Capo;
  5. h) gli interventi attuativi delle previsioni contenute nel piano territoriale regionale di coordinamento (PTRC), nei piani di area e nei progetti strategici di cui alla legge regionale 23 aprile 2004, n. 11.

[28] Ovviamente, se ubicate all’esterno del reticolo infrastrutturale esistente.

[29] La disposizione recita: “4. Sono fatti salvi i procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della presente legge relativi:

  1. a) ai titoli abilitativi edilizi, comunque denominati, aventi ad oggetto interventi comportanti consumo di suolo;
  2. b) ai piani urbanistici attuativi, comunque denominati, la cui realizzazione comporta consumo di suolo.
  3. Per i procedimenti in corso di cui al comma 4 si intendono:
  4. a) nel caso dei titoli abilitativi edilizi, i procedimenti già avviati con la presentazione allo sportello unico della domanda di permesso di costruire ovvero delle comunicazioni o segnalazioni, comunque denominate, relative ai diversi titoli abilitativi, corredate dagli eventuali elaborati richiesti dalla vigente normativa;
  5. b) nel caso dei piani urbanistici attuativi, i procedimenti già avviati con la presentazione al comune della proposta corredata dagli elaborati necessari ai sensi dell’articolo 19, comma 2, della legge regionale 23 aprile 2004, n. 11. Sono comunque fatti salvi i piani urbanistici attuativi per i quali siano già stati approvati gli ambiti di intervento.
  6. Sono, altresì, fatti salvi gli accordi tra soggetti pubblici e privati, di cui all’articolo 6 della legge regionale 23 aprile 2004, n. 11, per i quali, alla data di entrata in vigore della presente legge, sia già stata deliberata dalla giunta o dal consiglio comunale la dichiarazione di interesse pubblico, nonché gli accordi di programma di cui all’articolo 7 della medesima legge regionale 23 aprile 2004, n. 11, relativamente ai quali entro la medesima data la conferenza decisoria abbia già perfezionato il contenuto dell’accordo”.

[30] Le considerazioni che si svolgono nel testo valgono sia per le zone di espansione previste dallo strumento conformativo prima della data di vigenza della l. reg. 14/2017, ossia il 24 giugno 2017, per le quali a tale data non fosse stato presentato un progetto di PUA, sia per le zone di espansione pianificate successivamente.

[31] Di cui al comma 7 dell’art. 18 della l. reg. 11/2004, che recita: “Decorsi cinque anni dall’entrata in vigore del piano decadono le previsioni relative alle aree di trasformazione o espansione soggette a strumenti attuativi non approvati, a nuove infrastrutture e ad aree per servizi per le quali non siano stati approvati i relativi progetti esecutivi, nonché i vincoli preordinati all’esproprio di cui all’articolo 34. In tali ipotesi si applica l’articolo 33 fino ad una nuova disciplina urbanistica delle aree, da adottarsi entro il termine di centottanta giorni dalla decadenza, con le procedure previste dai commi da 2 a 6; decorso inutilmente tale termine, si procede in via sostitutiva ai sensi dell’articolo 30”. Per un valido inquadramento si veda A. Borella, Il contenimento del consumo dei suoli attraverso le varianti “verdi” e la decadenza dei vincoli urbanistici, pp. 6 e ss., all’URL http://www.amministrativistiveneti.it/il-contenimento-del-consumo-dei-suoli-attraverso-le-varianti-verdi-e-la-decadenza-dei-vincoli-urbanistici/

[32] Il comma recita: “Per le previsioni relative alle aree di espansione soggette a strumenti attuativi non approvati, gli aventi titolo possono richiedere al comune la proroga del termine quinquennale. La proroga può essere autorizzata previo versamento di un contributo determinato in misura non superiore all’1 per cento del valore delle aree considerato ai fini dell’applicazione dell’IMU. Detto contributo è corrisposto al comune entro il 31 dicembre di ogni anno successivo alla decorrenza del termine quinquennale ed è destinato ad interventi per la rigenerazione urbana sostenibile e per la demolizione. L’omesso o parziale versamento del contributo nei termini prescritti comporta l’immediata decadenza delle previsioni oggetto di proroga e trova applicazione quanto previsto dal comma 7”.

[33] Che includono anche quelle per le quali il progetto di strumento attuativo non fosse stato proposto.

[34] Cfr. in tal senso la solida dottrina che ha scrutinato la disposizione: Sergio Dal Prà, Guido Sartorato, Alessandro Calegari, Stefano Canal, Luca Donà, Edoardo Furlan, Alessandro Janna e Raffaella Rampazzo che, nel commento “I caratteri innovativi delle varianti urbanistiche di recepimento della DGRV 688 del 15 maggio 2018: la nuova urbanistica consensuale con metodo competitivo” contenuto nel Commentario “LA NUOVA URBANISTICA VENETA Guida pratica alla L.R.V. n. 14/2017 sul Consumo del Suolo” scrivono: “Tali aree, inoltre, potrebbero beneficiare in via preferenziale anche della proroga a pagamento prevista dal nuovo comma 7 bis dell’art. 18 della l.r. n. 11/2004, introdotto dal terzo comma dell’art. 23 della legge in commento, così sottraendosi per almeno un anno al meccanismo comparativo di cui sopra (…)Ancor più improbabile è ritenere che possano essere fatte oggetto di comparazione le aree la cui edificabilità è stata prorogata in ragione del pagamento del contributo previsto dal nuovo comma 7 bis dell’art. 18 della l.r. n. 11/2004”.

[35] Circolari n. 4 del 29/09/2009 (BUR n. 82 del 06/10/2009), n. 1 dell’8/11/2011 (BUR n. 89 del 29/11/2011), n. 1 del 13/11/2014 (BUR n. 111 del 20/11/2014).

[36] Puntando, evidentemente, sull’effetto derogatorio della disciplina locale determinato dalla legge. Effetto, però, che parrebbe contraddire le finalità qualitative enunciate dalla legge stessa, se applicato al dimensionamento delle opere urbanizzative primarie.

[37] Cfr. ad esempio TAR Veneto, sez. II, 14/02/2012, n. 234, richiamata da Cass. Pen., sez. III, n. 38795 del 24/09/2015 – ud. 14/05/2015 – Pres. Franco Est. Scarcella Ric. Lazzi: “In virtù del combinato disposto degli artt. 31 e 41 quinquies, ultimo comma, della legge n. 1150/1942, l’espressione “esistenza” delle opere di urbanizzazione ivi contenuta, rilevante ai fini della necessità o meno della previa redazione di un piano di lottizzazione o di altro strumento urbanistico attuativo prima del rilascio della concessione edilizia, deve essere intesa nel significato di adeguatezza delle opere ai bisogni collettivi; pertanto, tale valutazione circa la congruità del grado di urbanizzazione di un’area non può che essere effettuata alla stregua della normativa sugli “standards” urbanistici di cui al combinato disposto del D.M. n. 1444/1968 e dell’art. 17 della legge n. 765/1967. Ne discende che l’equivalenza tra pianificazione esecutiva e stato di adeguata urbanizzazione è configurabile quando si riscontri l’esistenza di opere di urbanizzazione primaria e secondaria almeno nelle quantità minime prescritte (cfr. Consiglio Stato sez. V, 29.4.2000, n. 2562)”.

[38] Così TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 17/12/2018, n. 7205, con interessante sviluppo argomentativo fondato su precedenti conformi, tra i quali Consiglio di Stato, sez. V, 29 febbraio 2012 n. 1177; Consiglio di Stato, sez. IV, 10 gennaio 2012 n. 26; TAR Campania Napoli, sez. II, 5 aprile 2016 n. 1662; TAR Campania Salerno, sez. I, 23 marzo 2015 n. 633; TAR Campania Napoli, sez. VIII, 3 luglio 2012 n. 3140.

[39] Le aree per servizi devono avere dimensione e caratteristiche idonee alla loro funzione in conformità a quanto previsto dal provvedimento della Giunta regionale di cui all’articolo 46, comma 1, lettera b). Qualora all’interno del PUA tali aree non siano reperibili, o lo siano parzialmente, è consentita la loro monetizzazione ovvero la compensazione ai sensi dell’articolo 37.

[40] Nel qual caso sarà applicato al titolo abilitativo la somma determinata secondo il criterio di calcolo dell’importo equivalente alle opere di urbanizzazione deliberato dal Comune.

[41] Circolari n. 4 del 29/09/2009 (BUR n.82 del 06/10/2009), n. 1 dell’8/11/2011 (BUR n. 89 del 29/11/2011), n. 1 del 13/11/2014 (BUR n.111 del 20/11/2014).

[42] Ossia gli immobili privi ex se di interesse culturale, ma gravati da prescrizioni, atte a preservare non direttamente l’immobile stesso, ma, indirettamente, altri immobili dichiarati di interesse culturale, onde evitare che “sia messa in pericolo l’integrità dei beni culturali immobili, ne sia danneggiata la prospettiva o la luce o ne siano alterate le condizioni di ambiente e di decoro”, ai sensi di quanto espressamente disposto dall’art. 45, comma 2, del d.lgs. 42/2004.

[43] Invero, alcuni Autori avevano già osservato, nella vigenza della l.r. n. 14/2009, come l’immobile gravato da vincolo indiretto avrebbe forse potuto fruire delle premialità previste, posta la sostanziale diversità tra vincolo diretto ed indiretto. In tal senso, F. Curato, Gli edifici soggetti a vincolo culturale o paesaggistico, in Guida al Piano Casa, a cura di S. Dal Prà e G. Sartorato, maggio 2015, pagg. 143 e ss.-

[44] Si veda, P. Neri, Ambito di applicazione, in Il Piano Casa della Regione veneto, Guida Operativa alla Legge regionale n. 32 del 29 novembre 2013.

[45] A. Calegari, Gli edifici situati nei centri storici o soggetti a specifiche norme di tutela, in Guida al Piano Casa, cit., pagg. 147 e ss.-

[46] Sul tema si veda: Cons. Stato, sez. VI, 17.7.2017, n. 3508, che conferma TAR Veneto, sez. II, n. 424/2015.

[47] Sia consentito il rinvio ad A. Veronese, Commento all’art. 9, comma 1, lett. e), f), g), in Il Piano Casa della Regione veneto, Guida Operativa alla Legge regionale n. 32 del 29 novembre 2013, Charta Bureau ed., 2014.

[48] Cons. Stato, sez. VI, 9.5.2016, n. 1861 (che conferma TAR Veneto, sez. II, 26.1.2015, n. 69); TAR Marche, 23.1.2017, n. 54; TAR Veneto, sez. II, 5.7.2012, n. 962 (oggetto d’appello, con esito non noto)

[49] Contra, A. Calegari, Gli edifici abusivi, in Guida al Piano Casa del Veneto, Commento organico alla legge regionale 8 luglio 2009 n. 14, 2010, pagg. 160 e ss.-

[50] Ibidem; nonché, dello stesso Autore, relazione al Convegno tenuto il 10 aprile 2019 presso il Comune di Spinea sull’art. 3 della l.r. n. 14/2019.

[51] Cons. Stato, sez. VI, 11.9.2018, n. 5319; id., 24.4.2018, n. 2496; id. 20.2.2018, n. 1087; TAR Lombardia, Milano, sez. II, n. 1298/2018. Al riguardo, la stessa Corte costituzionale ha più volte ribadito la natura di norma fondamentale dell’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 e del principio di doppia conformità (n. 107/2017; n. 101/2013).

[52] Nello stesso senso, A. Dal Bello, La Corte Costituzionale sulla sanatoria degli abusi col Piano Casa, in Italiaius, 19 luglio 2017.

[53] D. Chinello, Gli edifici sorgenti in fascia di rispetto, in Guida al Piano Casa, cit., pagg. 160 e ss.-

[54] Cons. Stato, sez. VI, 17.7.2017, n. 3508, cit., che conferma TAR Veneto, sez. II, n. 424/2015.

[55] Sul tema viene ripreso lo scritto di S. Pavan e A. Veronese, La fascia di rispetto stradale fuori dai centri abitati, 30 ottobre 2017, in www.amministrativistiveneti.it.

[56] TAR Toscana, sez. III, 12 luglio 2010, n, 2449; TAR Liguria, sez. I, 13 febbraio 2012, n. 281, sentenza riformata da Cons. Stato, sez. IV, 27 gennaio 2015, n. 347, ma non sul punto.

[57] Cons. Stato, sez. VI, 3 agosto 2017, n. 3889.

[58] Cons. Stato, sez. IV, 20 marzo 2017, n. 1225.

[59] Cons. Stato, sez. V, 23 giugno 2014, n. 3147; TAR Lombardia, Milano, sez. II, 14 aprile 2016, n. 1435.

[60] Cons. Stato, sez. IV, 15 aprile 2013, n. 2062.

[61] TAR Lombardia, Milano, sez. II, n. 1435/2016, cit.-

[62] Cons. Stato, sez. VI, 3 agosto 2017, n. 3889, cit.

[63] Cons. Stato, sez. VI, n. 3889/2017, cit.

[64] Cons. Stato, sez. VI, n. 3889/2017, cit.-

[65] Cons. Stato, sez. IV, n. 1225/2017, cit.-