Commento all’art. 12 l.r. n. 14/2017

di Roberto Travaglini

Art. 12

Disposizioni finali

1. Sono sempre consentiti sin dall’entrata in vigore della presente legge ed anche successivamente, in deroga ai limiti stabiliti dal provvedimento della Giunta regionale di cui all’articolo 4, comma 2, lettera a):

a) gli interventi previsti dallo strumento urbanistico generale ricadenti negli ambiti di urbanizzazione consolidata;

b) gli interventi di cui agli articoli 5 e 6, con le modalità e secondo le procedure ivi previste;

c) i lavori e le opere pubbliche o di interesse pubblico;

d) gli interventi di cui al Capo I della legge regionale 31 dicembre 2012, n. 55 “Procedure urbanistiche semplificate di sportello unico per le attività produttive e disposizioni in materia urbanistica, di edilizia residenziale pubblica, di mobilità, di noleggio con conducente e di commercio itinerante”;

e) gli interventi di cui all’articolo 44 della legge regionale 23 aprile 2004, n. 11, e, comunque, tutti gli interventi connessi all’attività dell’imprenditore agricolo;

f) l’attività di cava ai sensi della vigente normativa;

g) gli interventi di cui alla legge regionale 8 luglio 2009, n. 14 “Intervento regionale a sostegno del settore edilizio e per favorire l’utilizzo dell’edilizia sostenibile e modifiche alla legge regionale 12 luglio 2007, n. 16 in materia di barriere architettoniche”, le cui premialità sono da considerarsi alternative e non cumulabili con quelle previste dal presente Capo;

h) gli interventi attuativi delle previsioni contenute nel piano territoriale regionale di coordinamento (PTRC), nei piani di area e nei progetti strategici di cui alla legge regionale 23 aprile 2004, n. 11.

2. Ai fini della realizzazione degli interventi di cui al comma 1, lettera b), sono consentite eventuali varianti allo strumento urbanistico comunale.

2 bis. Le disposizioni di cui alla presente legge si applicano anche agli interventi commerciali che restano disciplinati dalla legge regionale 28 dicembre 2012, n. 50 “Politiche per lo sviluppo del sistema commerciale nella Regione del Veneto”, e dai relativi regolamento e provvedimenti attuativi, ove rechino una disciplina più restrittiva.

Sommario: 1. Il comma 1 – 2. (segue) gli interventi previsti dallo strumento urbanistico generale ricadenti negli ambiti di urbanizzazione consolidata3. (segue) gli interventi di cui agli articoli 5 e 6, con le modalità e secondo le procedure ivi previste4. (segue) i lavori e le opere pubbliche o di interesse pubblico 5. (segue) gli interventi di cui al Capo I della legge regionale 31 dicembre 2012, n. 55 “Procedure urbanistiche semplificate di sportello unico per le attività produttive”6. (segue) gli interventi di cui all’articolo 44 della legge regionale 23 aprile 2004, n. 11 e, comunque, tutti gli interventi connessi all’attività dell’imprenditore agricolo7. (segue) l’attività di cava ai sensi della vigente normativa8. (segue) gli interventi di cui alla legge regionale 8 luglio 2009, n. 14 – c.d. Piano casa9. (segue) gli interventi attuativi delle previsioni contenute nel piano territoriale regionale di coordinamento (PTRC), nei piani di area e nei progetti strategici di cui alla legge regionale 23 aprile 2004, n. 1110. Il comma 211. Il comma 2-bis.

1. Il comma 1

L’art. 12, come si evince dalla formulazione del relativo comma 1, assolve alla funzione di indicare gli interventi e le attività che “sono sempre consentiti sin dall’entrata in vigore” della l.r. 14/2017 (ovvero dal 24 giugno 2017) e restano consentiti anche dopo che il provvedimento della Giunta regionale previsto dall’art. 4, co. 2, lett. a), avrà indicato i limiti del suolo consumabile in ciascun Comune del Veneto, potendo derogare a detti limiti.

La portata della disposizione è, pertanto, quella di individuare una serie di interventi e/o attività che – sebbene costituenti consumo di suolo secondo la definizione datane dall’art. 2, lett. c) (di seguito, nel commento, si vedrà, peraltro, che non è sempre così) – il legislatore ritiene di sottrarre alla disciplina del contenimento del consumo di suolo dettata con il provvedimento legislativo in esame.

2. (segue) gli interventi previsti dallo strumento urbanistico generale ricadenti negli ambiti di urbanizzazione consolidata

La prima fattispecie, la cui descrizione è riportata in rubrica, si caratterizza per la duplice circostanza che si tratta di interventi (già) previsti dallo strumento urbanistico generale (PRG per i Comuni ancora privi del PAT, PI per quelli che ne sono già dotati) e che ricadono negli ambiti di urbanizzazione consolidata.

Quest’ultima espressione va interpretata ricorrendo alla relativa definizione, contenuta nell’art. 2, lett. e), secondo cui costituiscono ambiti di urbanizzazione consolidata “l’insieme delle parti del territorio già edificato, comprensivo delle aree libere intercluse o di completamento destinate dallo strumento urbanistico alla trasformazione insediativa, delle dotazioni di aree pubbliche per servizi e attrezzature collettive, delle infrastrutture e delle viabilità già attuate, o in fase di attuazione, nonché le parti del territorio oggetto di un piano urbanistico attuativo approvato e i nuclei insediativi in zona agricola. Tali ambiti di urbanizzazione consolidata non coincidono necessariamente con quelli individuati dal piano di assetto del territorio (PAT) ai sensi dell’articolo 13, comma 1, lettera o), della legge regionale 23 aprile 2004, n. 11”.

Nel rinviare al commento all’art. 2 riportato nel presente volume per gli opportuni approfondimenti della definizione sopra riprodotta, appare utile sottolineare in questa sede che dal combinato disposto delle ulteriori definizioni di “superficie naturale e seminaturale” (art. 2, lett. a) e “consumo di suolo” (art. 2, lett. c) si ricava che può aversi consumo di suolo anche all’interno degli ambiti di urbanizzazione consolidata, ma esclusivamente con riferimento alle relative superfici che risultino “utilizzate, o destinate, a verde pubblico o ad uso pubblico”, oppure “costituenti continuità ambientale, ecologica e naturalistica con le superfici esterne della medesima natura”.

Orbene, gli interventi aventi ad oggetto quest’ultime superfici beneficiano della disciplina “derogatoria” dettata dalla lettera a) della norma in commento, mentre la gran parte delle superfici comprese negli ambiti di urbanizzazione consolidata, non rientrando tra quelle la cui impermeabilizzazione dà luogo a consumo di suolo, sono realizzabili a prescindere dalla predetta norma.

3. (segue) gli interventi di cui agli articoli 5 e 6, con le modalità e secondo le procedure ivi previste

Gli articoli richiamati riguardano, rispettivamente, la “riqualificazione edilizia ed ambientale” (art. 5) e la “riqualificazione urbana” (art. 6), ai cui commenti, ovviamente, si rinvia.

In questa sede preme sottolineare come gli interventi di riqualificazione urbana siano localizzati “negli ambiti urbani degradati” (art. 6, co. 1), espressione che giusta la definizione riportata nell’art. 2, lett. g), indica “le aree ricadenti negli ambiti di urbanizzazione consolidata, assoggettabili agli interventi di riqualificazione urbana di cui all’articolo 6”.

Ciò comporta, analogamente a quanto rilevato per gli interventi di cui alla precedente lettera a), che anche per quelli di riqualificazione urbana l’eventualità che possano dar luogo a consumo di suolo ai sensi della l.r. n. 14/2017 è piuttosto marginale, in quanto legata al solo coinvolgimento di superfici “utilizzate, o destinate, a verde pubblico o ad uso pubblico”, oppure “costituenti continuità ambientale, ecologica e naturalistica con le superfici esterne della medesima natura”.

Anche in queste remote occasioni, peraltro, la norma che qui si commenta ne sancisce l’irrilevanza, consentendo egualmente la realizzazione di tali interventi comportanti consumo di suolo.

Diversa è la situazione nel caso degli interventi di riqualificazione edilizia ed ambientale, potendo riguardare singoli edifici e/o opere incongrui, degradati, da migliorare nella relativa qualità edilizia, la cui collocazione non necessariamente coincide con ambiti di urbanizzazione consolidata.

Da ultimo, va evidenziato che la norma in rubrica, mentre sottrae alla disciplina “contenitiva” del consumo di suolo gli interventi di riqualificazione edilizia ed ambientale, così come quelli di riqualificazione urbana, non estende analogo regime agli interventi di rigenerazione urbana sostenibile di cui all’art. 7 della l.r. n. 14/2017.

Tale differenziazione si giustifica solo parzialmente con la circostanza che a norma dell’art. 4, co. 2, lett. b), per la concreta applicazione dell’art. 7 la Giunta regionale è chiamata a dettare “i criteri di individuazione e gli obiettivi di recupero degli ambiti urbani di rigenerazione, nel rispetto delle specifiche finalità di cui all’articolo 2, comma 1, lettera h), nonché gli strumenti e le procedure atti a garantire l’effettiva partecipazione degli abitanti alla progettazione e gestione dei programmi di rigenerazione urbana sostenibile”.

Infatti, come in precedenza evidenziato, la disciplina speciale delineata dall’articolo che qui si commenta opera anche in deroga ai limiti stabiliti dal provvedimento della Giunta regionale di cui all’art. 4, co. 2, lett. a), lo stesso provvedimento che, a norma della sopra riprodotta lett. b), del medesimo art. 4, è chiamato a definire criteri di individuazione e obiettivi di recupero degli ambiti di rigenerazione urbana sostenibile.

Va, peraltro, sottolineato come anche nel caso degli interventi di rigenerazione urbana sostenibile di cui all’art. 7, così come già visto in relazione a quelli di riqualificazione urbana dell’art. 5, il contesto “di riferimento” sia essenzialmente costituito dalla “città costruita”, vista la definizione degli “ambiti urbani di rigenerazione” riportata nell’art. 2, co. 1, lett. h), che li identifica ne “le aree ricadenti negli ambiti di urbanizzazione consolidata, caratterizzati da attività di notevole consistenza, dismesse o da dismettere, incompatibili con il contesto paesaggistico, ambientale od urbanistico, nonché le parti significative di quartieri urbani interessate dal sistema infrastrutturale della mobilità e dei servizi”.

4. (segue) i lavori e le opere pubbliche o di interesse pubblico

Per l’individuazione della portata delle espressioni impiegate dall’elencazione in rubrica è necessario fare innanzi tutto riferimento alle definizioni contenute nell’art. 3 del d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50 (Codice dei contratti pubblici).

Secondo la lett. ll) della norma da ultimo richiamata sono “appalti pubblici di lavori” i contratti aventi ad oggetto almeno l’esecuzione delle “attività di cu all’allegato I”, mentre secondo la successiva lett. nn), sono “lavori di cui all’allegato I, le attività di costruzione, demolizione, recupero, ristrutturazione urbanistica ed edilizia, sostituzione, restauro, manutenzione di opere”.

A sua volta, la lett. pp) definisce come “opera, il risultato di un insieme di lavori, che di per sé esplichi una funzione economica o tecnica. Le opere comprendono sia quelle che sono il risultato di un insieme di lavori edilizi o di genio civile, sia quelle difesa e di presidio ambientale, di presidio agronomico e forestale, paesaggistica e di ingegneria naturalistica”.

Nell’art. 3 del Codice dei contratti pubblici non si rinviene, al contrario, la definizione di “opere di intesse pubblico”, espressione che compare esclusivamente all’art. 186 (Privilegio sui crediti), norma compresa nella Parte IV (Partenariato pubblico privato e contraente generale ed altre modalità di affidamento), Titolo I (Partenariato pubblico privato).

Tale collocazione appare, peraltro, coerente con gli assunti giurisprudenziali secondo cui “La categoria dell’ «interesse pubblico», quale connotazione di un’opera, di una attività o di una funzione, ha carattere aperto e/o indeterminato, non essendo vincolata ad alcuna espressa qualificazione legislativa né alla pertinenza soggettiva dell’iniziativa: essa si presta quindi ad abbracciare qualunque intervento che, a prescindere dalla sua appartenenza tipologica, risulti rispondere, nel concreto contesto sociale ed economico in cui deve essere realizzato, ad una finalità rilevante ed utile per la collettività (e non solo per il soggetto che se ne faccia promotore). Anche un intervento funzionale al raggiungimento di scopi di carattere lucrativo può astrattamente soddisfare esigenze di carattere pubblico e/o di pubblica utilità”.[1]

Va, altresì, ricordato che la nozione di “edifici di interesse pubblico” è contenuta nell’art. 14 del DPR 6 giugno 2001, n. 380, e concorre a delineare la fattispecie del permesso di costruire in deroga agli strumenti urbanistici.

Riguardo a quest’ultima disposizione, la giurisprudenza ha recentemente affermato che “Ai fini dell’adozione di un permesso di costruire in deroga ex art. 14 t.u. edilizia non è necessario che l’interesse pubblico attenga al carattere pubblico dell’edificio o del suo utilizzo, ma è sufficiente che coincida con gli effetti benefici per la collettività che dalla deroga potenzialmente derivano, in una logica di ponderazione e contemperamento calibrata sulle specificità del caso[2].

5. (segue) gli interventi di cui al Capo I della legge regionale 31 dicembre 2012, n. 55 “Procedure urbanistiche semplificate di sportello unico per le attività produttive”

La previsione in rubrica consente sin dall’entrata in vigore della l.r. n. 14/2017 e, successivamente, anche in deroga ai limiti relativi al consumo di suolo, stabiliti per ambiti comunali o sovracomunali omogenei dalla Giunta regionale con il provvedimento di cui all’art. 4, co. 2, lett. a), gli interventi di edilizia produttiva previsti dagli artt. 2, 3 e 4 della l.r. n. 55/2012.

Il Capo I della citata legge regionale detta “procedure urbanistiche semplificate di sportello unico per le attività produttive”, espressione, quest’ultima, mutuata dall’art. 1, co. 1, lett. i), del DPR 7 settembre 2010, n. 160 “Regolamento per la semplificazione ed il riordino della disciplina sullo sportello unico per le attività produttive”, secondo cui sono attività produttive “le attività di produzione di beni e servizi, incluse le attività agricole, commerciali e artigianali, le attività turistiche e alberghiere, i servizi resi dalle banche e dagli intermediari finanziari e i servizi di telecomunicazioni, di cui alla lettera b), comma 3, dell’articolo 38 del decreto-legge[3].

L’art. 2 della l.r. n. 55/2012 riguarda gli interventi di edilizia produttiva che non configurano variante allo strumento urbanistico generale[4], l’art. 3 gli interventi di edilizia produttiva realizzabili in deroga allo strumento urbanistico generale[5], l’art. 4 si riferisce agli interventi di edilizia produttiva in variante allo strumento urbanistico generale[6], mentre l’art. 4-bis riguarda le attività produttive con caratteristiche riconosciute di “eccellenza” in base a parametri da definirsi a cura della Giunta regionale, che peraltro non vi ha ancora provveduto.

Preme in questa sede evidenziare che il richiamo operato dall’art. 4 della l.r. n. 55/2012 all’art. 8 del DPR 160/2010, fa sì che la fattispecie oggetto della norma regionale vada integrata con la disposizione statale e, in particolare, con la relativa condizione di applicabilità costituita dalla circostanza che “lo strumento urbanistico non individua aree destinate all’insediamento di impianti produttivi o individua aree insufficienti[7].

In merito alla predetta condizione, la giurisprudenza ha sottolineato “il carattere eccezionale e derogatorio della procedura disciplinata dall’art. 5, la quale non può essere surrettiziamente trasformata in una modalità “ordinaria” di variazione dello strumento urbanistico generale: pertanto, perché a tale procedura possa legittimamente farsi luogo, occorre che siano preventivamente accertati in modo oggettivo e rigoroso i presupposti di fatto richiesti dalla norma, e quindi anche l’assenza nello strumento urbanistico di aree destinate ad insediamenti produttivi ovvero l’insufficienza di queste, laddove per “insufficienza” deve intendersi, in costanza degli standard previsti, una superficie non congrua (e, quindi, insufficiente) in ordine all’insediamento da realizzare[8].

Purtuttavia, nel caso in cui l’intervento da realizzare consista in un ampliamento dell’insediamento produttivo esistente, la citata condizione sembra doversi intendere del tutto superflua, atteso che in tal caso “l’area da destinare all’ampliamento della relativa attività non può essere rinvenuta altrove, ma deve evidentemente trovarsi in stabile e diretto collegamento con quella dell’insediamento principale e da ampliare[9].

Appare utile sottolineare che la formulazione della fattispecie derogatoria riguardante gli interventi oggetto di SUAP, presente nell’art. 12, co. 1, lett. d), della l.r. n. 14/2017, è diversa da quella licenziata dalla II^ Commissione consiliare il 16 febbraio 2017, che quanto agli interventi degli artt. 4 e 4-bis della l.r. n. 55/2012, li limitava ai soli “ampliamenti delle attività esistenti alla data di entrata in vigore della presente legge”.

6. (segue) gli interventi di cui all’articolo 44 della legge regionale 23 aprile 2004, n. 11 e, comunque, tutti gli interventi connessi all’attività dell’imprenditore agricolo

La lettera in rubrica sottrae alla disciplina del contenimento del consumo di suolo innanzi tutto “gli interventi edilizi in funzione dell’attività agricola, siano essi destinati alla residenza che a strutture agricolo-produttive” (così recita l’art. 44, co. 1, della l.r. n. 11/2004), strutture, quest’ultime, definite nell’apposito Atto di indirizzo previsto dall’art. 50, co. 1, lett. d), n. 3, della l.r. n. 11/2004[10].

Si rammenta che gli interventi di cui al citato art. 44, a norma del relativo comma 2, sono consentiti, sulla base di un piano aziendale, esclusivamente all’imprenditore agricolo titolare di un’azienda agricola con requisiti minimi fissati dalla stessa disposizione di legge.

Quanto all’ulteriore, almeno in apparenza, fattispecie degli “interventi connessi all’attività agricola”, deve comunque trattarsi di interventi significativi in relazione alla disciplina del contenimento del consumo di suolo (ed in particolare della sua definizione, riportata nell’art. 2, co. 1, lett. c), della l.r. n. 14/2017), che parla di “impermeabilizzazione del suolo”, di “interventi di copertura artificiale”, di “scavo o rimozione”, tali da compromettere “le funzioni eco-sistemiche e le potenzialità produttive” del suolo.[11]

In chiusura si evidenzia che in base all’art. 2, co. 1, lett. e), rientrano nella nozione di ambito di urbanizzazione consolidata – al cui interno, salvo le eccezioni indicate all’art. 2, co. 1, lett. a), non è dato registrare superfici naturali e/o seminaturali la cui trasformazione possa dal ruolo a consumo di suolo – anche i “nuclei insediativi in zona agricola”.

7. (segue) l’attività di cava ai sensi della vigente normativa

L’attività di cava è attualmente disciplinata dalla legge regionale 7 settembre 1982, n. 44, anche se giacciono in II^ Commissione consiliare due diverse proposte di legge, una di iniziativa del consigliere Maurizio Conte (PDL 28, presentato il 10 luglio 2015) ed altra di iniziativa della Giunta regionale (PDL 153, presentato il 3 giugno 2016), per superare la normativa ormai risalente a quasi 35 anni fa.

Secondo l’art. 13 della l.r. n. 44/1982 “Costituiscono aree di potenziale escavazione le parti del territorio comunale definite zona E ai sensi del dm 2 aprile 1968, n. 1444 dallo strumento urbanistico generale approvato e non escluse dall’attività di cava ai sensi della presente legge”.

Considerato che a norma dell’art. 2, co. 1, lett. a), rientrano nella nozione di “superficie naturale e seminaturale” anche le aree “destinate all’attività agricola”, che a norma della successiva lett. b), del medesimo articolo debbono considerarsi “superficie agricola” anche “i terreni qualificati come tali dagli strumenti urbanistici”, e che la lett. c) della medesima disposizione definisce “consumo di suolo” “: l’incremento della superficie naturale e seminaturale interessata da interventi di impermeabilizzazione del suolo, o da interventi di … scavo … che ne compromettano le funzioni eco-sistemiche e le potenzialità produttive” è evidente che in assenza della previsione derogatoria qui in commento nuovi interventi costituenti esercizio dell’attività di cava avrebbero dovuto risentire del blocco temporaneo di cui all’art. 13, co. 1, della l.r. n. 14/2017 ed essere successivamente subordinati al rispetto dei limiti definiti dal provvedimento emesso dalla Giunta regionale in attuazione dell’art. 4, co. 2, lett. a), e dalle conseguenti varianti di adeguamento dello strumento urbanistico comunale.

8. (segue) gli interventi di cui alla legge regionale 8 luglio 2009, n. 14 – c.d. Piano casa

Con la previsione in rubrica vengono affrancati dalle misure di contenimento del consumo di suolo, sia nel periodo transitorio, sia, successivamente, a regime, gli interventi previsti e consentiti dalla l.r. n. 14/2009 e successive modifiche “Intervento regionale a sostegno del settore edilizio e per favorire l’utilizzo dell’edilizia sostenibile e modifiche alla legge regionale 12 luglio 2007, n. 16 in materia di barriere architettoniche”, meglio nota come “Piano casa”.

Si tratta degli interventi di ampliamento (art. 2 della l.r. n. 14/2009), di demolizione e ricostruzione con ampliamento (art. 3), anche in zona agricola (art. 3-bis), di rimozione e smaltimento dell’amianto (art. 3-ter), di demolizione e ricostruzione, in zona territoriale omogenea propria e non dichiarata pericolosa dal punto di vista idraulico, di edifici ricadenti in aree ad alta pericolosità idraulica o idrogeologica (art. 3-quater), aventi ad oggetto attrezzature all’aperto, a servizio degli insediamenti turistici e ricettivi (art. 4) di installazione di impianti solari e fotovoltaici (art. 5).

Va sottolineato che la norma in esame precisa che le “premialità” che accedono alla disciplina del c.d. “Piano casa” sono da considerarsi alternative e non cumulabili con quelle previste dalle disposizioni del Capo I della l.r. n. 14/2017 (bonus volumetrici o superficiari previsti nei casi di riqualificazione edilizia ed ambientale ex art. 5 e di riqualificazione urbana ex art. 6).

Com’è noto, l’art. 19 della l.r. 4 aprile 2019, n. 14 “Veneto 2050: Politiche per la riqualificazione urbana e la rinaturalizzazione del territorio”, ha disposto, a far data dal 6 aprile 2019 (giorno successivo alla pubblicazione sul BUR n. 32/2019), l’abrogazione di buona parte delle norme della l.r. n. 14/2009 (fanno eccezione gli artt. 5 e 10).

A sua volta, l’art. 17, comma 1, della stessa l.r. 14/2019, stabilisce che “Gli interventi per i quali la segnalazione certificata di inizio lavori o la richiesta del permesso di costruire siano stati presentati, ai sensi della legge regionale 8 luglio 2009, n. 14, entro il 31 marzo 2019[12], continuano ad essere disciplinati dalla medesima legge regionale”.

Si pone, pertanto, il problema se l’affrancamento dalla disciplina del contenimento del consumo di suolo degli interventi previsti dalla legge regionale sul “Piano casa” – affrancamento disposto dalla norma che qui si commenta – possa trovare applicazione, una volta abrogata la l.r. n. 14/2009, nei confronti degli interventi disciplinati dagli artt. 6 (interventi edilizi di ampliamento), 7 (interventi di riqualificazione del tessuto esistente), 8 (interventi in zona agricola) e 9 (interventi su edifici in aree dichiarate di pericolosità idraulica o idrogeologica) della l.r. n. 14/2019, che sostituiscono e mettono “a regime” quelli di carattere “straordinario” introdotti nel 2009.

La risposta appare necessariamente negativa, atteso il puntuale riferimento che la norma in commento fa alla l.r. 14/2009, che ne escludere il carattere “dinamico” o “mobile”.

D’altra parte, la questione riveste una portata piuttosto modesta, atteso che gli interventi di cui agli artt. 6 e 7 della l.r. n. 14/2019 possono essere realizzati nei soli “ambiti di urbanizzazione consolidata” individuati dai comuni ai sensi della l.r. n. 14/2017 (ed al cui interno non si dà luogo a consumo di suolo) e nella zona agricola, ma in quest’ultimo caso, a norma dell’art. 8, limitatamente alla prima casa di abitazione (e relative pertinenze) ed esclusivamente in aderenza o sopra elevazione.

Ne consegue che potranno determinare consumo di suolo (e, conseguentemente, doverne rispettare i limiti fissati dai comuni nei relativi strumenti urbanistici adeguati alla DGR 668/2018) solo gli interventi di cui agli artt. 6 e 7 della l.r. 14/2019 riguardanti edifici in zona agricola, esterni ai “nuclei insediativi” ivi presenti – che a norma dell’art. 2, comma 1, lett. e), della l.r. n. 14/2017, fanno parte degli ambiti di urbanizzazione consolidata – nella sola ipotesi di incremento volumetrico in aderenza.

Quanto agli interventi di demolizione di edifici ubicati in aree di pericolosità idraulica o idrogeologica molto elevata (P4) o elevata (P3) e ricostruiti altrove[13], egualmente potranno determinare consumo di suolo e, conseguentemente, doverne rispettare i limiti fissati dai comuni in attuazione della DGR 668/2018, qualora la ricostruzione abbia luogo all’esterno degli ambiti di urbanizzazione consolidata di cui all’art. 2, comma 1, lett. e), della l.r. n. 14/2017.

9. (segue) gli interventi attuativi delle previsioni contenute nel piano territoriale regionale di coordinamento (PTRC), nei piani di area e nei progetti strategici di cui alla legge regionale 23 aprile 2004, n. 11

A tal proposito si ricorda che il Piano territoriale regionale di coordinamento (PTRC) e disciplinato, quanto ai contenuti, dall’art. 24 e quanto al procedimento di formazione, efficacia e varianti, dall’art. 25 della l.r. n. 11/2004.

A loro volta i Piani d’area costituivano, a norma dell’art. 3 della l.r. 27 giugno 1985, n. 61, strumento di specificazione del PTRC, e quelli vigenti alla data di entrata in vigore della l.r. n. 11/2004, sono considerati parte integrante del PTRC a norma dell’art. 48, co. 2, di quest’ultima legge regionale.

Infine, dei piani strategici si occupa l’art. 26 della l.r. n. 11/2004, in base al quale “Il piano territoriale regionale di coordinamento (PTRC) può prevedere che le opere, gli interventi o i programmi di intervento di particolare rilevanza per parti significative del territorio siano definiti mediante appositi progetti strategici”.

10. Il comma 2

Il comma 2 della disposizione in commento stabilisce che per la realizzazione degli interventi di riqualificazione edilizia ed ambientale (art. 5) e di riqualificazione urbana (art. 6) “sono consentite eventuali varianti allo strumento urbanistico comunale”.

Tale precisazione appare di difficile interpretazione e, comunque, collocata in un contesto non coerente.

Cominciando da quest’ultimo rilievo, appare evidente che con la norma testé riprodotta non si è inteso delineare un regime derogatorio alla disciplina del contenimento del consumo di suolo per gli interventi di cui agli artt. 5 e 6, poiché tale regime è già sancito dal comma 1, lett. b).

Ciò detto, risulta privo di ogni sistematicità l’inserimento di un connotato disciplinare proprio degli interventi sopra richiamati in sede diversa dagli articoli che ne disciplinano il contenuto.

Ma la difficoltà interpretativa nasce soprattutto dal confronto con tali disposizioni, poiché:

  • secondo l’art. 5, co. 2, “Fermo restando il rispetto del dimensionamento del piano di assetto del territorio (PAT), il piano degli interventi (PI) … definisce le misure e gli interventi finalizzati al ripristino, al recupero e alla riqualificazione nelle aree occupate dalle opere di cui al comma 1 e prevede misure di agevolazione che possono comprendere il riconoscimento di crediti edilizi per il recupero di potenzialità edificatoria negli ambiti di urbanizzazione consolidata, premialità in termini volumetrici o di superficie e la riduzione del contributo di costruzione”;
  • secondo l’art. 6, co. 2, “Fermo restando il rispetto del dimensionamento del piano di assetto del territorio (PAT), il piano degli interventi (PI) individua il perimetro degli ambiti urbani degradati da assoggettare ad interventi di riqualificazione urbana e li disciplina in una apposita scheda, precisando: i fattori di degrado, gli obiettivi generali e quelli specifici della riqualificazione, i limiti di flessibilità rispetto ai parametri urbanistico-edilizi della zona, le eventuali destinazioni d’uso incompatibili e le eventuali ulteriori misure di tutela e compensative, anche al fine di garantire l’invarianza idraulica e valutando, ove necessario, il potenziamento idraulico nella trasformazione del territorio.”, mentre il successivo comma 3 stabilisce che “Il PI può prevedere il riconoscimento di crediti edilizi per il recupero di potenzialità edificatoria negli ambiti di urbanizzazione consolidata, premialità in termini volumetrici o di superficie e la riduzione del contributo di costruzione”.

Appare curioso che dopo aver configurato, negli articoli ad esse dedicati ed al cui commento si rinvia, sia la riqualificazione edilizia ed ambientale, sia la riqualificazione urbana, come rispettose del PRC (PAT e PI) riguardo ai contenuti menzionati nelle sopra riprodotte sedi disciplinari, venga poi stabilito, nella norma recante disposizioni finali, che per la realizzazione dei tali interventi “sono consentite eventuali varianti allo strumento urbanistico comunale”.

Inoltre, come già evidenziato nel commento del comma 1, lett. b), anche nel comma 2 ora in esame si omette qualsiasi richiamo alla rigenerazione urbana sostenibile, di cui all’art. 7, per la realizzazione dei cui interventi, pertanto, non “sono consentite eventuali varianti allo strumento urbanistico comunale”.

Fermi restando i rilievi di carattere sistematico sopra formulati, il personale convincimento di chi scrive è che la disposizione riportata al comma 2 sia del tutto superflua e, per la non esaustività delle fattispecie in essa espressamente richiamate, perfino fuorviante.

Infatti, il rapporto di necessaria coerenza tra la pianificazione urbanistica generale e gli strumenti (titolo edilizio diretto, PUA) a disposizione per l’attuazione degli interventi di riqualificazione edilizia ed ambientale, nonché di riqualificazione urbana, fa sì che il quadro di riferimento “a monte” possa essere adeguato, ricorrendo ad opportune varianti, ogni qual volta esse appaiano utili e funzionali alla più efficace realizzazione degli obiettivi di pubblico interesse sottesi a tali interventi.

Si tratta, peraltro, della normale dialettica che contraddistingue il rapporto tra la pianificazione generale e la concreta attuazione delle relative previsioni.

Ma se questo è l’ovvio contenuto del comma 2, a maggior ragione non può che riguardare anche, se non soprattutto, gli stessi interventi di rigenerazione urbana sostenibile, di cui all’art. 7 della l.r. n. 14/2017, attesa la scala territorialmente più ampia e la maggiore complessità funzionale che li contraddistingue rispetto agli interventi dei precedenti artt. 5 e 6 della stessa legge in commento.

Anche in relazione agli interventi di rigenerazione urbana sostenibile, in sostanza, sembra inevitabile doversi riconoscere la possibilità di variare preventivamente la strumentazione urbanistica “a monte”, così da potervi incardinare, in un quadro di coerenza, i singoli episodi di rigenerazione.

Il tutto senza dimenticare che – – come meglio evidenziato nel commento all’art. 7 -l’approvazione dei programmi di rigenerazione urbana sostenibile avviene mediante accordo di programma ex art. 32 della l.r. n. 35/2001, strumento cui è associata, ove ne ricorra la necessità, “la variazione integrativa agli strumenti urbanistici senza necessità di ulteriori adempimenti”.

11. Il comma 2-bis

L’art. 57, comma 1, della legge regionale 29 dicembre 2017, n. 45 “Collegato alla legge di stabilità regionale 2018”, ha aggiunto il comma 2-bis alla norma che qui si commento, stabilendo che “Le disposizioni di cui alla presente legge si applicano anche agli interventi commerciali che restano disciplinati dalla legge regionale 28 dicembre 2012, n. 50 “Politiche per lo sviluppo del sistema commerciale nella Regione del Veneto”, e dai relativi regolamento e provvedimenti attuativi, ove rechino una disciplina più restrittiva”.

Nel primo esame dell’originaria formulazione dall’articolo qui in commento si era sottolineato come l’assenza di un’esplicita menzione degli interventi disciplinati dalla l. r. n. 50/2012 e dai relativi provvedimenti attuativi (in primis il Regolamento regionale 21 giugno 2013, n. 1) tra quelli che l’art. 11 consente anche in deroga ai limiti al consumo di suolo dovesse essere interpretata nel senso che tali interventi sono ammessi soltanto se non comportano consumo di suolo nell’accezione datane dall’art. 2, lett. c) e se sono compatibili con le previsioni degli strumenti urbanistici adeguati al provvedimento della Giunta regionale di cui all’art. 4, co. 2, lett. a), della l.r. n. 14/2017 (cfr.: DGR n. 668/2018).

Ad avviso di chi scrive il nuovo comma 2-bis conferma tale interpretazione, ancorché la relativa collocazione nell’art. 11 appaia quanto meno “originale”.

Infatti, se la finalità dell’art. 11 è l’individuazione di una serie di interventi e/o attività che – sebbene costituenti consumo di suolo – il legislatore ritiene di sottrarre alla disciplina del relativo contenimento, non può che risultare pleonastica la precisazione secondo cui tale disciplina si applica anche agli interventi commerciali di cui alla l.r. n. 50/2012 e relativi provvedimenti di attuazione, proprio perché detti interventi non sono menzionati tra quelli che l’art. 11 consente “in deroga” ai limiti del consumo di suolo.

Inoltre, stante la descritta portata dell’art. 11, è altrettanto ovvio che la normativa sugli insediamenti commerciali possa (anzi, per il principio di specialità, debba) continuare a trovare applicazione laddove rechi una disciplina sul consumo di suolo “più restrittiva” di quella scaturente dalla l.r. n. 14/2017 e dalla relativa attuazione disposta con la DGR 668/2018 e tradotta nelle conseguenti varianti di adeguamento degli strumenti urbanistici comunali.

Sul punto, anche la Direzione Industria Artigianato Commercio e Servizi della Regione Veneto, con nota prot. n. 7369/70.00.04, datata 9 gennaio 2018, si è limitata a constatare che la portata del nuovo art. 11, comma 2-bis, della l.r. 14/2017 è quella di chiarire che le normative sul consumo di suolo e sulla attività commerciali “trovano entrambe applicazione e che nei casi di incompatibilità trova applicazione la normativa maggiormente restrittiva, in quanto preordinata al più efficace perseguimento delle finalità del contenimento del consumo di suolo”.

Rinviando agli autorevoli commenti della l.r. n. 50/2012 e del regolamento n. 1/2013[14], ci si limita qui a ricordare che l’art. 21 della legge fissa il principio della necessaria coerenza tra la localizzazione delle medie e delle grandi strutture di vendita e le previsioni dello strumento urbanistico comunale adeguato al regolamento, privilegiando in ogni caso il loro insediamento nei centri storici.

A sua volta, l’art. 2 del regolamento stabilisce che il Piano degli Interventi favorisce la localizzazione delle medie e delle grandi strutture di vendita all’interno del centro urbano[15], anche attraverso interventi di riqualificazione urbanistica di aree o strutture dismesse e degradate, le cui caratteristiche (degrado edilizio, degrado urbanistico e degrado socio-economico) corrispondono a quelle indicate nei punti 1), 2) e 3) dell’art. 2, comma 1, lett. g; della l.r. n. 14/2017, recante la definizione di “ambiti urbani degradati”, identificati nelle “aree ricadenti negli ambiti di urbanizzazione consolidata, assoggettabili agli interventi di riqualificazione urbana[16]

Da quanto sopra discende che l’aspetto di maggiore criticità nel rapporto tra la disciplina del contenimento del consumo di suolo (l.r. n. 14/2017) e quella delle attività commerciali (l.r. n. 50/2012 e regolamento n. 1/2013) è rappresentato dal rapporto esistente tra l’accordo di programma per interventi regionali, normato dall’art. 11 della l.r. n. 14/2017, e l’accordo di programma cui l’art. 26 della l.r. n. 50/2012 subordina gli interventi riguardanti le grandi strutture di vendita indicate nel comma 1 di tale disposizione, qualora localizzati al di fuori dei centri storici.

Nel rinviare all’aggiornamento del commento alla prima delle citate norme per una più compiuta analisi di tale rapporto, ci si limita a sottolineare la non coincidenza, nonostante l’identica denominazione, tra l’accordo di programma cui fa riferimento l’art. 11 della legge sul consumo di suolo e l’accordo di programma previsto dall’art. 26 della l.r. n. 50/2012 per l’autorizzazione, anche in variante urbanistica, delle grandi strutture di vendita a rilevanza regionale.

Il primo è quello disciplinato dall’art. 32 della l.r. n. 35/2001, dalle disposizioni applicative contenute nella DGR n. 2493, del 14 dicembre 2010, nonché dall’art. 6 della l.r. n. 11/2004; il secondo è quello disciplinato dall’art. 34 del d.P.R. n. 267/2000, cui fa rinvio anche l’art. 7 della l.r. n. 11/2004.

Di qui la personale convinzione che, nonostante l’identica denominazione, i due istituti non debbano essere tra lo confusi ed identificati, con conseguente autonomia delle relative discipline sostanziali e procedurali.

Il che comporta, sempre a giudizio di chi scrive, che l’art. 11 della l.r. n. 14/2017 non possa essere invocato tout court per l’approvazione in deroga ai limiti di consumo di suolo di interventi concernenti grandi strutture di vendita – ancorché quelle sole dell’art. 26, comma 1, della l.r. n. 50/2012, localizzate al di fuori dei centri storici – ma esclusivamente riguardo agli “interventi che, pur in presenza di iniziative commerciali, abbiano una marcata valenza strategica di livello regionale[17].

Infine, non va trascurato che l’art. 11, della l.r. n. 14/2017, nel consentire agli accordi di programma ivi richiamati di derogare ai limiti di consumo di suolo, subordina tale possibilità alle seguenti condizioni:

  1. a) impossibilità di localizzare gli interventi che ne costituiscono l’oggetto all’interno degli ambiti di urbanizzazione consolidata,
  2. b) riconoscimento, ad opera della Giunta regionale, sentita la competente Commissione consiliare, della sussistenza dell’interesse regionale alla trasformazione urbanistico-edilizia prevista dall’accordo, il tutto, sulla base dei criteri che la stessa Giunta regionale è chiamata a stabilire ai sensi dell’art. 4, comma 2, lett. f), della l.r. n. 14/2017.

Nell’assenza, che a tutt’oggi perdura, del provvedimento giuntale da ultimo richiamato, la deroga prevista dall’art. 11 della l.r. n. 14/2017 non può in alcun modo operare.

 

[1] TAR Campania, Salerno, 31 gennaio 2017, n. 183.

Secondo il Consiglio di Stato, Sez. IV, 6 marzo 2017, n. 1017, “La realizzazione di un complesso produttivo da parte di un privato non può qualificarsi come “opera pubblica o di interesse pubblico”, essendo tali categorie giuridiche riservate ad iniziative teleologicamente tese alla soddisfazione diretta ed immediata di interessi pubblici (quali scuole, ospedali, caserme, strade), laddove il predetto complesso è ontologicamente funzionale allo scopo lucrativo della società istante ed ha solo indirette e mediate ricadute positive per la collettività (incremento delle prospettive occupazionali, cui peraltro possono far fronte speculari esternalità negative, quali l’aumento dei livelli di inquinamento e del traffico veicolare, specie pesante)”.

[2] Cons. Stato, Sez. IV, 5 giugno 2015, n. 2761. La fattispecie riguarda il recupero di un importantissimo manufatto veneziano, il c.d. “Fontego dei Tedeschi”. In relazione alla qualifica di edificio di interesse pubblico di cui all’art. 14 del DPR 380/2001 si è discusso se vi rientrassero unicamente edifici ed impianti realizzati dalla stessa Amministrazione o anche opere eseguite da parte di privati, purché comunque soddisfacessero il requisito dell’interesse generale. Ad un iniziale orientamento restrittivo (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 12 marzo 1988 n. 2) è seguita una tendenziale “apertura” estesasi fino a ricomprendere tra gli edifici di interesse pubblico tutte le strutture atte a soddisfare — per caratteristiche intrinseche o per destinazione funzionale — bisogni di rilevanza collettiva, anche se realizzate da privati (cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. V, 20 dicembre 2013 n. 6163).

A sua volta, il Cons. Stato, Sez. V, 5 settembre 2014, n. 4518, confermando la pronuncia del TAR Veneto, Sez. II, 7 febbraio 2002, n. 766, ha precisato che “Ai fini del rilascio di un permesso di costruire in deroga di cui all’art. 14 DPR. 380/2001, per “edificio di interesse pubblico” deve intendersi ogni manufatto edilizio idoneo, per caratteristiche intrinseche o per destinazione funzionale, a soddisfare interessi di rilevanza pubblica. In tale categoria può rientrare, pertanto, anche la realizzazione di una struttura alberghiera ed il suo ampliamento”.

[3] Si tratta del D.L. 25 giugno 2008, n. 112, convertito con modificazioni dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, in attuazione del cui art. 38 è stato approvato il DPR 160/2010.

[4] Sono soggetti al procedimento unico di cui all’art. 7 del DPR 160/2010 e si identificano:

negli ampliamenti di attività produttive che si rendono indispensabili per adeguare le attività ad obblighi derivanti da normative regionali, statali o comunitarie, fino ad un massimo del 50 per cento della superficie esistente e comunque non oltre 100 mq. di superficie coperta;

nelle modifiche ai dati stereometrici di progetti già approvati ai sensi della normativa in materia di sportello unico per le attività produttive, ferme restando le quantità volumetriche e/o di superficie coperta approvate.

[5] Sono soggetti al procedimento unico di cui all’art. 7 del DPR 160/2010 e consistono negli interventi che comportano ampliamenti di attività produttive in difformità dallo strumento urbanistico purché entro il limite massimo dell’80 per cento del volume e/o della superficie netta/lorda esistente e, comunque, in misura non superiore a 1.500 mq.. Nel caso in cui l’ampliamento sia realizzato mediante il mutamento di destinazione d’uso di fabbricati esistenti, gli stessi devono essere situati all’interno del medesimo lotto sul quale insiste l’attività da ampliare o, comunque, costituire con questa un unico aggregato produttivo.

[6] La norma riguarda gli interventi non rientranti nelle casistiche di cui ai precedenti artt. 2 e 3, e che vengono assoggettati al procedimento di cui all’art. 8 del DPR 160/2010. Se ne ricava che sono soggetti all’art. 4, in particolare, gli interventi che danno vita ad un nuovo insediamento, nonché quelli aventi ad oggetto ampliamenti eccedenti le dimensioni consentite dall’art. 3.

[7] Così anche la Circolare regionale 1, del 20 gennaio 2015, approvata in pari data con DGR 20/2015.

[8] Così Cons. Stato, Sez. IV, 8 gennaio 2016, n. 27; analogamente Cons. Stato, Sez. IV, 15 luglio 2011, n. 4308.

[9] Così TAR Lombardia, Milano, Sez. IV, 24 marzo 2011, n. 773, TAR Lombardia, Milano, Sez.II, 28 dicembre 2009, n. 6222; analogamente TAR Puglia, Lecce, 26 febbraio 2014, n. 660, secondo cui “l’insufficienza delle aree sussiste anche nel caso di ampliamento di un impianto produttivo quando le aree contigue risultino avere una diversa destinazione urbanistica” dovendosi verificare la stessa insufficienza con riferimento alla esigenza di funzionamento e di sviluppo di quel determinato impianto”; TAR Veneto, Sez. II, 11 luglio 2008, n. 1993; contra TAR Veneto, Sez. II, 31 ottobre 2007, n. 3494.

[10] Atto di indirizzo approvato con DGR 8 ottobre 2004, n. 3178, modificato con le DGR 25 novembre 2008, n. 3650, 16 febbraio 2010, n. 329 e 15 maggio 2012, n. 856

Vi si legge, in particolare, che “A solo titolo esemplificativo, rientrano nel novero delle strutture agricolo-produttive, come individuate dalla legge regionale 23 aprile 2004, n. 11, le seguenti tipologie strutturali:

strutture e manufatti per l’allevamento di animali o per la coltivazione, la protezione o la forzatura delle colture;

strutture per il ricovero di macchine ed attrezzature agricole, officine di manutenzione e magazzini utensili per lo svolgimento dell’attività agricola aziendale;

manufatti ed impianti per il deposito e/o la conservazione delle materie prime (mangimi, lettimi, foraggi, imballaggi, fertilizzanti, prodotti veterinari e fitosanitari, ecc.);

manufatti ed impianti per la sosta, la prima lavorazione, la trasformazione, la conservazione o la valorizzazione dei prodotti ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo o del bosco o dall’allevamento di animali;

strutture ed impianti per l’esposizione, la promozione, la degustazione e la vendita dei prodotti aziendali;

strutture ed impianti aziendali per attività di ricezione con finalità ricreative, culturali e didattiche, comunque in rapporto di connessione e complementarietà rispetto alle attività aziendali;

locali da adibire ad uffici, mense, spogliatoi, servizi da utilizzarsi esclusivamente da parte di dipendenti dell’impresa agricola;

opere ed impianti aziendali destinati all’approvvigionamento idrico ed energetico, alla regimazione delle acque, alla bonifica e alla viabilità;

opere ed impianti destinati allo stoccaggio e/o trattamento delle deiezioni zootecniche e dei residui delle attività di trasformazione aziendali.

[11]Si ricorda, altresì, che l’art. 2135, secondo comma, del codice civile, offre la definizione di attività connesse a quelle agricole, dovendo così intendersi le attività, esercitate dal medesimo imprenditore agricolo, “dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione che abbiano ad oggetto prodotti ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo o del bosco o dall’allevamento di animali, nonché le attività dirette alla fornitura di beni o servizi mediante l’utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse dell’azienda normalmente impiegate nell’attività agricola esercitata, ivi comprese le attività di valorizzazione del territorio e del patrimonio rurale e forestale, ovvero di ricezione e ospitalità”.

[12] Termine così ridefinito dall’art. 28 della l.r. n. 43/2018.

[13] In ZTO propria o in zona agricola, in quest’ultima ipotesi solo nel caso di edifici residenziali ed in presenza di un edificato già consolidato e qualora non ostino specifiche norme di tutela degli strumenti urbanistici o territoriali.

[14] Cfr. “Il commercio nel Veneto – commentario alla legge regionale del Veneto 28 dicembre 2012, n. 50”, a cura di Bruno Barel e Giorgia Vidotti.

[15] Che a norma dell’art. 3, comma 1, lett. m) della l.r. n. 50/2012 è la “porzione di centro abitato, individuato ai sensi dell’articolo 3, comma 1, punto 8), del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 “Nuovo codice della strada”, caratterizzata dal tessuto urbano consolidato, con esclusione delle zone produttive periferiche e delle zone prive di opere di urbanizzazione o di edificazione”.

[16] Laddove l’iniziativa commerciale non si traduca in un intervento di recupero e riqualificazione urbanistica di aree o strutture dismesse e degradate, l’art. 2, comma 11, lett. b.2), del regolamento n. 1/2013 richiede che l’iniziativa consolidi polarità commerciali esistenti, cioè ricada in aree in cui sono presenti altre attività commerciali di medie o grandi strutture di vendita, purché la relativa variante urbanistica non comporti il consumo di suolo agricolo.

[17] Così, letteralmente, B. Barel, Commento all’art. 26, in ““Il commercio nel Veneto – commentario alla legge regionale del Veneto 28 dicembre 2012, n. 50”, cit., pag. 165.

Commento all’art. 11 l.r. n. 14/2017

di Antonella Ballarin

Art. 11

Accordi di programma per interventi di interesse regionale

1. Gli accordi di programma approvati ai sensi del combinato disposto di cui dell’articolo 32 della legge regionale 29 novembre 2001, n. 35 e dell’articolo 6, comma 2, della legge regionale 16 febbraio 2010, n.11, possono consentire una deroga ai limiti di consumo di suolo qualora conseguano ad interventi che non sia possibile localizzare all’interno degli ambiti di urbanizzazione consolidata e la Giunta regionale, sulla base dei criteri di cui all’articolo 4, comma 2, lettera f), sentita la competente Commissione consiliare, ne abbia riconosciuto l’interesse regionale alla trasformazione urbanistico-edilizia.

2. La deroga prevista al comma 1 va motivata in funzione dei limiti strettamente necessari per il buon esito dell’intervento e prevede adeguate misure di mitigazione e interventi di compensazione ecologica degli effetti del superamento dei limiti di consumo di suolo.

Sommario: 1. Analisi normativa2. Aggiornamento a seguito delle modifiche apportate con la l.r. n. 45/2017.

1. Analisi Normativa

La disposizione in commento consente di derogare ai limiti di consumo di suolo mediante accordi di programma, nell’ipotesi in cui gli interventi o programmi di intervento oggetto di accordo non possano essere localizzati negli ambiti di urbanizzazione consolidata e sempre che per tali interventi la Giunta regionale ne riconosca l’interesse regionale alla trasformazione urbanistico-edilizia, sulla base di criteri previamente adottati, sentita la Commissione consiliare competente.

Questa norma di deroga si aggiunge, peraltro, ad altre deroghe contenute negli articoli 12 e 13, e si intreccia, altresì, con diverse altre disposizioni contenute nella legge regionale, al cui commento si rinvia.

Come è noto ed in generale, l’uso dello strumento dell’accordo è particolarmente significativo nella realizzazione delle politiche regionali in quanto duttile ed efficace per la semplificazione e accelerazione dell’azione amministrativa, oltre che funzionale al metodo della concertazione sia per la individuazione delle strategie che per la condivisione delle forme di intervento nel rispetto delle diverse competenze.

La norma in parola richiama gli accordi di programma nel combinato disposto di cui all’art. 32 della l.r. n. 35/2001 e all’art. 6, co. 2, della l.r. n. 11/2010.

Con riferimento agli accordi dell’art. 32 della l.r. n. 35/2001, si tratta di accordi operativi da tempo ed utilizzati per realizzare opere e interventi di interesse regionale. Per tale tipo di accordi la Giunta regionale ha approvato uno schema procedimentale con la delibera n. 2943 del 14 dicembre 2010 che, all’allegato A, individua la scansione delle diverse azioni riguardanti detti accordi, al fine di evitare una certa difformità nei procedimenti amministrativi soprattutto legati alle valutazioni ambientali e urbanistiche.

Di altro genere, invece, il richiamo al comma 2 dell’articolo 6 che si inserisce nell’ambito della disciplina riguardante il trasferimento alle province della materia urbanistica, e si preoccupa di mantenere in capo alla regione l’esercizio delle competenze urbanistiche per quei piani e progetti di interesse regionale sottoposti ad accordi di programma ai sensi dell’art. 32 della l.r. 29 novembre 2001, n. 35 o relativamente ai progetti strategici previsti dall’art. 26 l.r. n. 11 del 2004.

Nella formulazione del comma 2 ritroviamo, quindi, come in un gioco di parole, il richiamo agli accordi dell’articolo 32 e, forse di più interesse, il richiamo ai progetti strategici, di cui faremo un cenno più avanti.

Secondo la norma, l’accesso allo strumento dell’accordo, che consente di poter superare tutte le limitazioni sul consumo del suolo che si produrranno in futuro ed i divieti immediati sia pure di carattere transitorio, è vincolato alle condizioni che il legislatore ha posto e che si concretizzano , come detto, nella necessaria presenza dell’interesse regionale alla trasformazione urbanistico-edilizia ed al fatto che non sia possibile localizzare l’intervento all’interno degli ambiti di urbanizzazione consolidata.

Tra le due condizioni poste, la prima valutazione che deve essere fatta per poter accedere all’accordo è la verifica della localizzazione dell’opera nell’ambito della urbanizzazione consolidata; tale previsione si pone perfettamente in linea con l’obiettivo di risparmio di suolo previsto dalla presente legge (e di derivazione comunitaria), che andrà attuato non solo in termini di mancato utilizzo dello stesso ma anche mediante il riutilizzo dell’esistente attraverso quei processi già noti di riconversione, rigenerazione e riqualificazione dei tessuti urbani, anche degradati.

Detti processi li troviamo, peraltro, meglio specificati, all’art. 3, co. 2, laddove si prevede che: “…la pianificazione territoriale e urbanistica privilegia gli interventi di trasformazione urbanistico-edilizia all’interno degli ambiti di urbanizzazione consolidata che non comportano consumo di suolo, con l’obiettivo della riqualificazione e rigenerazione, sia a livello urbanistico-edilizio che economico-sociale, del patrimonio edilizio esistente, degli spazi aperti e delle relative opere di urbanizzazione, assicurando adeguati standard urbanistici, nonché il recupero delle parti del territorio in condizioni di degrado edilizio, urbanistico e socio-economico, o in stato di abbandono, sotto utilizzate o utilizzate impropriamente.”; e li ritroviamo ancora, in maniera più puntuale, agli articoli successivi da 5 a 9.

Sulla previsione della verifica della localizzazione sarebbe auspicabile una interpretazione di carattere restrittivo, nel senso di escludere qualsiasi possibilità di derogare ai limiti sul consumo del suolo ove vi sia anche una sola minima possibilità di realizzare l’intervento in un contesto di urbanizzazione consolidata, al fine di non vanificare gli scopi che questa legge si prefigge.

Va da sé che l’eventuale mancata possibilità di localizzare in detti ambiti dovrà trovare adeguata motivazione (sull’onere di motivazione si sofferma anche il comma 2 che poi vedremo).

Sempre sulla localizzazione, un richiamo si trova anche all’art. 4, co. 2, lett. f), (cioè il comma che prevede il provvedimento riguardante i criteri per il riconoscimento dell’interesse regionale), che indica nella mancanza di alternative localizzative negli ambiti di urbanizzazione consolidata, il criterio per poter applicare la deroga (assieme a quello dell’interesse regionale). Il legislatore ribadisce quindi la necessarietà di valutare concretamente tutte le possibili alternative di collocazione dell’intervento nell’ambito da esso prescelto.

Una leggera critica andrebbe fatta, invece, sul mancato coordinamento di detta previsione della lettera f) con l’art. 11; nel caso della lettera f), si assegna alla Giunta regionale il compito di dettare i criteri per l’individuazione degli “interventi pubblici di interesse regionale”, ponendo quindi l’accento dell’interesse della regione sul tipo di intervento pubblico; mentre l’articolo 11 collega l’interesse regionale non solo all’intervento ma soprattutto alla “trasformazione urbanistico edilizia” che tale intervento comporta.

Sortisce ancora una certa attenzione questo richiamo all’interesse della regione alla trasformazione urbanistico edilizia tanto più se si pensa che nella formulazione dell’originale progetto di legge, l’interesse regionale era rivolto, forse più correttamente, all’accordo.

In ogni caso, sempre per quanto concerne detto interesse regionale, occorrerà attendere la definizione dei criteri contenuti nel provvedimento della Giunta regionale; provvedimento che potrebbe anche ritardare se, per ragioni di “opportunità”, si ritenesse importante l’acquisizione di tutte quelle informazioni sullo stato della pianificazione territoriale comunale, necessarie per la predisposizione del provvedimento dell’art. 4, co. 2, lett. a), ed utili per una analisi di carattere generale circa i criteri da definire; sempre che non si voglia rispettare il termine, ordinatorio, disposto dal comma 4 dell’articolo 4 citato che dispone che tutti i provvedimenti del comma 2 del medesimo articolo (e quindi anche quello dei criteri per l’interesse regionale), saranno emanati entro 180 giorni dall’entrata in vigore della legge regionale, previo parere della commissione consiliare competente, che ha 60 giorni per esprimersi, decorsi i quali se ne prescinde.

Passando ora al comma 2, si richiede che l’eventuale deroga venga motivata “in funzione dei limiti strettamente necessari per il buon esito dell’intervento”; nonostante questa disposizione appaia un po’ diversa e forse meno chiara rispetto alla originaria formulazione contenuta nel progetto di legge presentato nel 2015, che disponeva un obbligo di contenere la superficie in deroga entro i limiti strettamente necessari per l’attuazione degli interventi, sembra ragionevole ritenere che l’obiettivo sia lo stesso e che anche in questa nuova formulazione si voglia comunque raccomandare che nell’uso della deroga, la motivazione debba dar conto che l’intervento è comunque realizzato entro quei limiti strettamente necessari a soddisfare il suo buon esito. Diversamente verrebbero vanificato gli scopi della norma e della legge in generale.

Sono infine previste adeguate misure di mitigazione e di compensazione ecologica che possano bilanciare e riequilibrare il superamento dei limiti imposti al consumo del suolo.

La mitigazione e, soprattutto, la compensazione ecologica per la conservazione degli habitat e il recupero delle funzionalità perse dall’ecosistema, sono tematiche già avviate da tempo in materia di consumo di suolo che, oltre ad avere un obiettivo di riequilibrio dei valori naturali a fronte della loro dissipazione, sono viste anche come strumento di disincentivazione del consumo di suolo, con riferimento ai costi da sopportare per il compimento di tali azioni compensative, spesso differenziate in relazione alla diversità delle aree oggetto di intervento.

Si vuole ora tornare, brevemente, sul tema degli accordi per una piccola appendice sull’applicazione dell’art. 11 ai progetti strategici turistici previsti dall’art. 26 l.r. n. 11 del 2004, per effetto del richiamo ad essi operato da parte dell’art. 6, co.2, della l.r. n. 11/2010 ed agli accordi previsti dalla l.r. n. 50/2012 in materia di commercio.

Nel primo caso si tratta di una questione di carattere procedimentale; posto che i progetti strategici di carattere strutturale ed infrastrutturale finalizzati ad attività di particolare interesse per lo sviluppo delle località turistiche sembrano ricadere in pieno nella disciplina dell’articolo 11, essendo approvati proprio ai sensi dell’art. 32 l.r. n. 35/2001 e considerati di interesse regionale ai sensi dell’art. 6, co. 2 l.r. n. 11/2010, il procedimento all’epoca adottato dalla Giunta regionale con proprio provvedimento del 2015 richiederà con ogni probabilità un coordinamento con la nuova norma regionale cosi come il provvedimento della Giunta adottato per gli accordi di programma dell’articolo 32.

Qualche dubbio solleva invece l’applicazione dei limiti posti dalla legge regionale sul consumo di suolo rispetto alla legge regionale n. 50/2012 relativamente al sistema commerciale, ivi compresi gli accordi di programma per le strutture di vendita a rilevanza regionale.

Premesso che in questo caso gli accordi sono stipulati ai sensi dell’articolo 34 del d.lgs. n. 267/2000 (quindi l’articolo 11 potrebbe non trovare applicazione?) deve comunque rilevarsi che il testo approvato in commissione consiliare, nell’articolo relativo alle disposizioni finali (art. 11, co. 1, lett. h) prevedeva che fossero sempre consentiti sin dall’entrata in vigore della legge ”h) gli interventi di cui alla legge regionale 28 dicembre 2012, n. 50 “Politiche per lo sviluppo del sistema commerciale nella Regione del Veneto” e ai relativi provvedimenti attuativi”.

In tal modo venivano sottratti dalle regole del risparmio di suolo tutti gli interventi afferenti alle strutture di vendita.

Considerato che tale previsione è sparita, apro una parentesi dubbiosa: deve ritenersi che il legislatore abbia inteso non escludere dall’ambito applicativo di questa legge regionale il sistema commerciale oppure, più semplicemente, che il legislatore abbia ritenuto pleonastico mantenere la previsione della lettera h), potendosi considerare tale normativa commerciale di carattere speciale, anche perché, in alcuni passaggi, di difficile applicazione per le strutture di vendita?[1]

2. Aggiornamento a seguito delle modifiche apportate con la l.r. n. 45/2017

Nel corso del biennio di sua vigenza l’articolo in rubrica non ha subito modifiche, tuttavia, l’inserimento del comma 2 bis all’articolo 12 (al cui commento si rinvia), da parte della legge regionale 29 dicembre 2017, n. 45 “Collegato alla legge di stabilità regionale 2018”, ha influito parzialmente sulla sua applicazione permettendoci di fare qualche ulteriore riflessione con riferimento alla normativa commerciale. Nel rinviare quindi alla precedente pubblicazione per gli aspetti generali sull’articolo 11, ci si limiterà in questa sede a valutare le ricadute di questo nuovo comma 2 bis sull’articolo in questione con riferimento alle strutture di vendita.

Brevemente, ricordiamo che in sede di approvazione definitiva della legge regionale n. 14/2017, il Consiglio regionale aveva stralciato la previsione normativa inserita dalla commissione consiliare competente che sottraeva alle regole sul contenimento del suolo gli interventi afferenti le strutture di vendita di cui alla legge regionale n. 50/2012, lasciando quindi un margine di interpretabilità circa l’applicazione o meno della legge regionale n. 14/2017 anche a tali strutture di vendita.

Per chiarire, presumibilmente, tali dubbi interpretativi, alcuni mesi dopo l’approvazione della citata legge regionale n. 14, il legislatore veneto ha approvato il richiamato comma 2 bis che prevede: “Le disposizioni di cui alla presente legge si applicano anche agli interventi commerciali che restano disciplinati dalla legge regionale 28 dicembre 2012, n. 50 “Politiche per lo sviluppo del sistema commerciale nella Regione del Veneto”, e dai relativi regolamento e provvedimenti attuativi, ove rechino una disciplina più restrittiva”.

La nuova disposizione precisa espressamente il rapporto che intercorre tra la legge sul contenimento del suolo di cui alla legge regionale n. 14/2017 e quella sul sistema commerciale di cui alla legge regionale n. 50/2012 assumendo, come regola che sovrintende l’applicazione delle due discipline normative, quella che maggiormente “limita” gli interventi commerciali.

Anche per gli accordi, quindi, a governare sarà la disciplina più restrittiva tra quella derogatoria dell’articolo 11 e quella più stringente sugli accordi commerciali rinvenibile non solo nella specifica legge regionale sul commercio ma soprattutto nel suo regolamento attuativo 21 giugno 2013, n. 1 “Indirizzi per lo sviluppo del sistema commerciale”, ovviamente con riferimento alle strutture di vendita a rilevanza regionale.

In tale quadro va specificato che la rilevanza regionale di tali strutture commerciali, ed il conseguente loro assoggettamento all’accordo di programma, è strettamente connessa all’entità dimensionale in termini di superficie di vendita come indicata nell’articolo 26, comma 1, lett. da a) ad e). Si tratta di strutture di grandi dimensioni che attengono a superfici superiori a 15 mila mq; oppure di superfici di dimensioni più ridotte ma comunque superiori a 8000 metri quadrati (o anche 2500 mq se collocate in ambiti individuati di rilevanza regionale) che però richiedono una apposita variante urbanistica di localizzazione.

Interessante per la questione è la parte del regolamento che reca una serie di regole e parametri piuttosto rigorosi che poco spazio lasciano ai margini derogatori dell’articolo 11 rispetto a quelli ammessi da tale regolamento: si tratta dei criteri definiti di approccio sequenziale e di valutazione della compatibilità e sostenibilità degli interventi che trovano applicazione per tutti gli accordi di programma che siano finalizzati alla realizzazione di strutture di vendita di rilevanza regionale.

A tal proposito, quindi, la deroga dell’articolo 11 andrà necessariamente valutata in concreto posto che la realizzazione delle strutture di vendita di rilevanza regionale al di fuori del centro urbano (che, secondo la definizione data dall’articolo 3, comma 1, lett. m), della l.r. 50/2012, rientra pienamente nell’ambito della urbanizzazione consolidata) è consentita soltanto in caso di riqualificazione urbanistica di aree o strutture dismesse e degradate o di consolidamento di polarità esistenti oppure nelle limitate ipotesi di valorizzazione di complessi sportivi di interesse regionale situati all’interno dei comuni capoluogo e nel caso di varianti localizzative funzionali ad un intervento commerciale di ampliamento.

Infine, ma di un certo rilievo anche per gli accordi commerciali, va ricordato il limite posto dal comma 2 bis dell’articolo 16 della legge regionale n. 11/2004 (la legge sul governo del territorio), il quale richiede la pianificazione coordinata tra comuni, ivi compresi  i comuni confinanti con il comune interessato dall’insediamento della grande struttura di vendita,  nel caso di strutture poste al di fuori del centro storico, con superficie di vendita superiore a 8.000 metri quadrati nei comuni capoluogo di provincia e con superficie di vendita superiore a 4.000 metri quadrati negli altri comuni.

 

[1] Nota di aggiornamento: In tema di applicazione delle disposizioni della legge 14/2017 anche alle strutture di vendita è intervenuta la modifica legislativa portata con la legge regionale n. 45/2017, che ha introdotto nell’art. 12 un nuovo comma 2bis, il quale prevede che le disposizioni della legge sul contenimento del consumo di suolo trovino applicazione anche agli interventi commerciali, che restano disciplinati dalla l.r. n. 50/2012 “ove rechino una disciplina più restrittiva”.

 

Commento all’art. 10 l.r. n. 14/2017

di Patrizia Petralia

Art. 10

Fondo regionale per la rigenerazione urbana sostenibile e per la demolizione

1. È istituito un fondo regionale per:

a) il rimborso delle spese di progettazione degli interventi previsti nei programmi di rigenerazione urbana sostenibile approvati di cui all’articolo 7;

b) il finanziamento delle spese per la redazione di studi di fattibilità urbanistica ed economico-finanziaria di interventi di rigenerazione urbana sostenibile di cui all’articolo 7;

c) il finanziamento delle spese per la demolizione delle opere incongrue di cui all’articolo 5, comma 1, lettera a), per le quali il comune, a seguito di proposta dei proprietari, abbia accertato l’interesse pubblico e prioritario alla demolizione.

2. Il fondo è disciplinato dal provvedimento della Giunta regionale previsto all’articolo 4, comma 2, lettera g); al fondo possono accedere enti pubblici, organismi di diritto pubblico ed associazioni, singolarmente o in forma associata, nonché soggetti privati.

3. La Giunta regionale definisce, sentita la commissione consiliare competente in materia di governo del territorio, i criteri di riparto del fondo.

La disposizione in commento istituisce un fondo regionale per il finanziamento di alcune spese correlate agli interventi promossi dalla legge.

Le regole di funzionamento del fondo saranno fissate con il provvedimento della Giunta regionale previsto dall’art. 4 co. 2 lett. g), la cui adozione dovrà avvenire entro 180 giorni dall’entrata in vigore della nuova normativa. Con tale atto la Giunta regionale, sentita la competente commissione consiliare, individuerà l’ambito di intervento e l’articolazione del fondo, le modalità, i tempi e i criteri di presentazione delle domande, predisporrà i moduli da utilizzare per le istanze di accesso ai finanziamenti e stabilirà i criteri di riparto del fondo stesso. Le spese rimborsabili riguardano:

  1. la progettazione degli interventi di attuazione dei programmi di rigenerazione aventi ad oggetto lo sviluppo di tecniche di edificazione urbana innovative, ecocompatibili e a basso impatto energetico. Saranno così finanziabili le spese correlate a progetti di edifici e di spazi pubblici, caratterizzati da elevata qualità architettonica e dei costi di ideazione per rendere il progetto edilizio plurifunzionale, funzionali a consentire l’utilizzo flessibile degli immobili, che facilmente potranno, così progettati, essere modificati in relazione alle richieste del mercato; si eviterebbe in tal modo che gli edifici restino vuoti dopo un primo utilizzo, e vadano incontro ad un inevitabile degrado con inutile consumo di aree;
  2. la redazione di studi di fattibilità urbanistica e di valutazione economico-finanziaria degli interventi di rigenerazione urbana sostenibile descritti alla lettera a);
  3. la demolizione integrale di opere incongrue, di elementi di degrado e di manufatti che si trovano in aree con rischio idraulico o geologico o in fasce di rispetto stradale, previo accertamento, da parte del Comune, della sussistenza di un interesse pubblico e prioritario alla demolizione.

Per quanto riguarda l’ambito di applicazione soggettivo della disposizione, l’articolo 10 individua un ampio novero e di possibili beneficiari degli incentivi promossi attraverso il fondo: enti pubblici, organismi di diritto pubblico, associazioni e privati senza altro specificare.

Conseguentemente, occorrerà attendere i provvedimenti attuativi della legge per comprendere la reale estensione dei benefici che l’articolo prevede. Appare peraltro auspicabile che tutte le amministrazioni, regionali e locali, cogliendo occasioni offerte dall’Unione europea attraverso i numerosi fondi europei dedicati ai temi dello sviluppo sostenibile e alle smart cities, reperiscano ulteriori risorse da destinare a questo fondamentale progetto negli anni futuri. Invero, quelle indicate dall’articolo 16, appaiono sottodimensionate rispetto agli obiettivi ambiziosi posti dalla legge e, purtroppo, non sempre gli enti locali sono in grado a sfruttare al meglio tutte le occasioni per mettere in sinergia, combinandole, le scarse risorse offerte da diversi soggetti pubblici ovvero le opportunità che derivano dall’unione di investimenti pubblici con le risorse economiche ed intellettuali che i privati sono disponibili a mettere in campo.

Commento all’art. 9 l.r. n. 14/2017

di Patrizia Petralia e Angelo De Zotti

Art. 9

Politiche per la qualità architettonica, edilizia ed ambientale, per la riqualificazione e per la rigenerazione

1. La qualità architettonica si persegue mediante una progettazione che, recependo le esigenze di carattere funzionale, formale, paesaggistico, ambientale e sociale poste alla base dell’ideazione e della realizzazione dell’opera, garantisca l’armonico inserimento dell’intervento nel contesto urbano o extraurbano, contribuendo al miglioramento dei livelli di vivibilità, fruibilità, sicurezza, decoro e garantendone il mantenimento nel tempo.

2. La Giunta regionale:

a) promuove la qualità edilizia e diffonde la conoscenza delle buone pratiche attraverso il sito istituzionale della Regione e con iniziative specifiche, avvalendosi della collaborazione e del contributo attivo di università, enti di studio e centri di ricerca, associazioni professionali, imprenditoriali e culturali;

b) incentiva la promozione dell’edilizia sostenibile di cui alla legge regionale 9 marzo 2007, n. 4 “Iniziative ed interventi regionali a favore dell’edilizia sostenibile”;

c) promuove ed attiva concorsi di idee e laboratori di progettazione, in collaborazione con i soggetti qualificati di cui alla lettera a);

d) definisce parametri di eco-sostenibilità degli interventi di riqualificazione urbana e di rigenerazione urbana sostenibile, con particolare riguardo al risparmio energetico degli edifici, alla riduzione delle superfici impermeabili, al potenziamento ed all’efficientamento delle reti tecnologiche, alla riduzione dell’inquinamento atmosferico;

e) incentiva l’elaborazione di una pianificazione volta alla diffusione e all’applicazione delle buone pratiche per la valorizzazione del verde urbano e, in generale, degli spazi urbani aperti, pubblici e privati, nonché per la realizzazione di boschi cittadini;

f) riconosce ai piani ed ai progetti che abbiano contenuti particolarmente qualificanti ed innovativi per qualità edilizia ed ambientale la possibilità di fregiarsi dello stemma e del logo della Regione di cui all’articolo 42 della legge regionale 23 aprile 2004, n. 11, e valorizza tale riconoscimento fra i criteri per l’assegnazione di eventuali finanziamenti, premi e incentivi, regionali o a regia regionale, nel campo della pianificazione urbanistica e territoriale, dei programmi di rigenerazione urbana sostenibile e della progettazione.

3. Ai comuni, che prevedono azioni per la realizzazione di interventi di rigenerazione urbana sostenibile nonché di interventi volti a favorire l’insediamento di attività agricola urbana e il ripristino delle colture nei terreni agricoli incolti, abbandonati, inutilizzati o, comunque, non più sfruttati ai fini agricoli, è attribuita priorità nella concessione di finanziamenti regionali in materia di governo del territorio. Il medesimo ordine di priorità è riconosciuto anche a soggetti privati che effettuano interventi di recupero di edifici e di infrastrutture nei nuclei insediativi in zona agricola, nonché il recupero del suolo ad uso agricolo mediante la demolizione di opere incongrue o di altri fabbricati rurali abbandonati.

4. I comuni per lo svolgimento delle azioni di cui al comma 3 possono stipulare convenzioni con gli imprenditori agricoli ai sensi dell’articolo 15 del decreto legislativo 18 maggio 2001, n. 228 “Orientamento e modernizzazione del settore agricolo, a norma dell’articolo 7 della legge 5 marzo 2001, n. 57”.

L’esordio dell’articolo in commento ha in sé qualcosa di poetico, fa tornare in mente i versi di antichi testi di bucolica memoria virgiliana: “Tytyre, tu patulae recubans sub tegmine fagi silvestrem tenui Musam meditaris avena; nos patriae finis et dulcia inquimus arva, nos patriam fugimus; tu, Tityre, lentus in umbra formosam resonare doces Amaryllida silvas.

L’idea di opere armonicamente inserite nel contesto urbano ed extraurbano, che nel tempo garantiscano vivibilità, fruibilità, sicurezza e decoro, ci riporta a tempi in bianco e nero, in cui i quartieri delle nostre città -per quanto privi di negozi luccicanti e griffati e di centri commerciali grandi come città- non erano ancora soffocati dal traffico e dal parcheggio selvaggio in tripla fila, da plurimi contenitori per le raccolte differenziate, da folle di persone che si muovono in folti gruppi, incrociandosi spesso indifferenti gli uni altri. I negozi, essenziali e sobri, erano punti di socializzazione e di incontro di persone che nel quartiere si conoscevano; al bar il barista parlava il tuo dialetto e serviva un buon e tradizionale espresso italiano.

Quanto suolo è stato consumato da allora e quanto prezioso ambiente distrutto, sacrificato in nome del consumistico progresso!

Con la nuova legge si introducono invero concetti già presenti nella normativa regionale pregressa, anche se gli stessi nel 2004 venivano presentati come meri principi cui i Comuni e la Regione si dovevano ispirare; oggi il processo di revisione ispirato ad una nuova coscienza delle risorse territoriali ed ambientali, diviene urgente.

Proponendo una sintetica comparazione con l’analoga legge n. 31/2014 della Regione Lombardia, ciò che appare evidente e merita una sottolineatura è lo sviluppo che il legislatore veneto intende imprimere alla finalità, comune alle due leggi sul contenimento del consumo del suolo, al fine non solo di riassumerne gli obiettivi, ricompresi nel termine “Politiche per la qualità architettonica, edilizia ed ambientale, per la riqualificazione e per la rigenerazione”, ma per far comprendere che la riduzione del consumo del suolo non è il fine unico della legge, ma che l’obiettivo è più ampio e comprende la ristrutturazione, la rigenerazione e la riqualificazione di tutto l’ambiente costruito: in una parola l’obiettivo vero e ambizioso che la legge veneta intende perseguire è non solo di ridurre il consumo del suolo ma, in tutti i modi possibili, la restituzione del suolo consumato, se possibile, alla sua condizione originaria di superficie agricola, ovvero alla sua rigenerazione, in modo da raggiungere un bilancio ecologico tendenzialmente pari a zero tra consumo e ripristino.

L’obiettivo dello zero relativo, inteso come sopra descritto, appare infatti certamente più realistico e meglio perseguibile di quello che affida allo zero assoluto di consumo di suolo, il risultato finale da perseguire entro il 2050.

Ecco perché la legge regionale veneta interviene ambiziosamente (qualcuno ritiene già troppo) su più piani: da un lato con norme che indirizzano le scelte amministrative verso il pur lontano obiettivo europeo di azzeramento del consumo del suolo non ancora urbanizzato, attraverso la programmazione regionale e comunale, dall’altro orientando le amministrazioni locali e gli operatori del settore verso la rigenerazione urbana, la riqualificazione del patrimonio edilizio esistente e lo sviluppo di tipologie edilizie ed uso di materiali ecocompatibili di ultima generazione, a basso impatto energetico ed ambientale.

La rubrica dell’articolo 9 in commento “Politiche per la qualità architettonica, edilizia ed ambientale, per la riqualificazione e per la rigenerazione” preavvisa che la norma contiene una disciplina di peso e quindi decisiva per le future scelte politiche di governo del territorio.

Le disposizioni regionali precedenti avevano già tracciato, almeno negli obiettivi, il percorso che la nuova legge intende concretamente intraprendere: programmazione dell’uso del suolo, riduzione progressiva e controllata della copertura artificiale, tutela del paesaggio, delle superfici agricole e forestali e delle loro produzioni e delle reti ecologiche, promozione e salvaguardia della biodiversità, azioni dirette alla rinaturalizzazione di suolo impropriamente occupato, riqualificazione e rigenerazione degli ambiti urbani e utilizzo di nuove risorse territoriali, solo quando non esistano alternative alla riorganizzazione e riqualificazione del tessuto insediativo esistente, finalità quest’ultima già formalmente presente nella legge regionale n. 11/2004.

L’art. 4 della l.r. n. 14/2017 “Misure di programmazione e di controllo sul contenimento del consumo del suolo”, al quale l’art. 9 implicitamente si riferisce, in particolare prevede l’assunzione, da parte della Giunta regionale, entro 180 giorni dalla entrata in vigore della legge, di un atto fondamentare per l’operatività della normativa appena introdotta, trattandosi dell’atto che dovrà fissare, nel periodo di riferimento, la quantità massima di consumo del suolo ammessa nel territorio regionale e la sua ripartizione per ambiti comunali o sovracomunali omogenei.

Alla Giunta regionale viene affidato il compito decisivo di raccogliere tutti i dati utili per determinare la quantità di suolo consumabile nel periodo prefissato di cinque anni, nella prospettiva già evidenziata di raggiungere il traguardo previsto dalla Commissione europea di giungere entro il 2050 a una occupazione netta di terreno pari a zero.

Con l’articolo in commento vengono invece determinati i principi, gli obiettivi e gli strumenti per realizzare il secondo scopo, ulteriore ma non meno rilevante, della legge, rispetto al risparmio di territorio, vale a dire quello della rigenerazione e del riuso dell’edificazione preesistente, creando le basi per progettare la nuova edilizia regolata da tecniche e materiali di ultima generazione, secondo le migliori prassi già utilizzate nelle belle, ordinate ed ecocompatibili smart cities del nord Europa ( esempio noto per tutte la città di Friburgo). Questo obiettivo si coniuga, e in questo senso è stato già definito come assolutamente complementare, con quello del risparmio del suolo, perché solo se si conseguirà l’obiettivo del riuso attraverso la riqualificazione di immobili inutilizzati o obsoleti, e in senso più ampio, la rigenerazione ambientale, sarà possibile contenere la richiesta di nuove aree edificabili.

Risparmiare vuol dire infatti, come ricordato nella premessa al presente commento, utilizzare bene il patrimonio disponibile.

Questo obiettivo prioritario che il legislatore, al comma 2, affida alla Giunta regionale, quantunque non preveda una tempistica definita e stringente (180 giorni dall’entrata in vigore della legge ex art. 4 della legge), presuppone nondimeno che i soggetti istituzionali cui compete avviare tale percorso, si attivino immediatamente.

Per dare un’idea della complessità del compito si segnala che l’analoga legge lombarda n. 31/2014, dopo tre anni dall’avvio dello stesso progetto, non ha ancora visto la conclusione di tale fase, che dopo gli ultimi aggiornamenti è stata fissata al 31 dicembre 2017, dilatando in pari misura l’applicazione della disciplina transitoria.

In tal senso la normativa urbanistica del Veneto sembra tuttavia affidata a disposizioni che potrebbero ridurre i tempi rispetto al modello lombardo, basato sulla revisione del piano territoriale regionale (PTR) che prevede fasi di osservazioni, concertazione e pubblicazione di criteri, indirizzi e linee tecniche per determinare e quantificare gli indici di misura del consumo di suolo nel territorio regionale lombardo.

In ogni caso il legislatore regionale, pur contando sul rispetto dei termini di approvazione della DGR, all’art. 13 comma 8^ ha nondimeno previsto che, ove tale provvedimento non sia emanato nel termine di 180 giorni, la percentuale fissata nella misura del 30% della capacità edificatoria assegnata dai PAT, in deroga al divieto di consumo di suolo stabilito dal 1^ comma, viene aumentata di un ulteriore 20%; il che significa che, scaduto quel termine, il divieto di consumo di suolo viene sostanzialmente derogato nella misura non trascurabile del 50%.

Soluzione assai discutibile perché è evidente che anziché operare in senso ulteriormente restrittivo, la norma allarga le maglie della deroga, risolvendosi in una sanzione a carico del territorio da salvaguardare.

Passando al commento sintetico del commi 2 lettere a) b) c) d) e) f) si può segnalare quanto segue:

In generale, il contenuto delle lettere a) b) c) d) e) f) non appare particolarmente innovativo rispetto alle norme precedenti, sia della legge regionale n.11/2004 (cfr. art. 13 contenuti del PAT, art. 17 contenuti del PI; art. 24 contenuti del PTRC; art. 36 riqualificazione ambientale e credito edilizio, art. 37 compensazione urbanistica, art. 43 e seguenti riguardanti l’edificazione nel territorio agricolo e art. 46 sull’attività di indirizzo regionale) sia della l.r. 4/2007 rubricata “Iniziative e interventi regionali a favore dell’edilizia sostenibile”.

Il comma 3 e il comma 4 contengono invece previsioni più concrete, rispetto al comma 2 essenzialmente costituito da principi, prevedendo la possibilità che i Comuni ottengano finanziamenti regionali sia per progetti di rigenerazione urbana sostenibile, per l’incentivazione allo sfruttamento agricolo anche attraverso il ripristino di colture in terreni incolti ed abbandonati che per l’insediamento di attività agricola urbana (orti cittadini, agricoltura in balconi e terrazze agricoltura idropinica).

Un esempio interessante e emblematico è, a questo proposito, il palazzo ‘verde‘ ideato dallo studio di Stefano Boeri nella zona dei Giardini di Porta Nuova a Milano, noto come “il bosco verticale” e riconosciuto come uno dei progetti più innovativi del recupero urbano milanese.

Nell’ambito di tale complessiva attività di promozione e di incentivazione viene attribuita priorità di finanziamento a progetti di soggetti privati che abbiano la finalità di recuperare edifici infrastrutture in nuclei in zona agricola, ovvero il recupero di suolo ad uso agricolo attraverso la demolizione di opere e fabbricati abbandonati o non più funzionali all’uso per cui erano stati realizzati.

Il Veneto, come noto, dispone sul territorio di molti edifici, specie capannoni, inutilizzati perché frutto di mere operazioni speculative che la crisi economica ha reso infruttuose, che potrebbero riacquistare valore attraverso progetti di recupero intelligenti ed innovativi ascrivibili ai tanti nostri professionisti, cui non fa certamente difetto preparazione tecnica e fantasia innovatrice.

Infine, il comma 4^, ispirato all’orientamento e alla modernizzazione del settore agricolo verso fini non meramente utilitaristici di produzione alimentare ma volti alla fondamentale e insostituibile funzione di salvaguardia dei territori del nostro paese, a norma dell’art. 7 della l. 57/2001, prevede la possibilità che i Comuni stipulino, per tali finalità, convenzioni con gli imprenditori agricoli che quegli scopi si impegnino a perseguire.

E’ dunque scaduto il tempo in cui si consumava il suolo e si costruiva per l’effimero bisogno del momento, senza riguardo alcuno agli impatti sull’ambiente, sugli equilibri idrogeologici, sul clima e in generale sull’ecosistema dell’intero pianeta?

Le intenzioni sono certamente queste, sia pure con obiettivi non sempre immediati, ma l’esperienza del passato suggerisce di mantenere tuttora l’uso del condizionale.

Non si tratta quindi né di assecondare quella forma di pessimismo cosmico che nasce dalle tante illusioni del passato né di lasciarsi trascinare dall’enfasi che gli obiettivi estremamente ambiziosi della legge qui commentata lasciano intravedere “a portata di mano”.

La cautela resta quindi d’obbligo!

Quantomeno si può convenire che con questa legge il Veneto ha preso atto che non è più possibile urbanizzare senza una pianificazione dei rischi idrogeologici, senza rinforzare le difese naturali della piantumazione e della cura dei terreni boscati urbani ed extra urbani, senza una valutazione dell’esistente e del suo opportuno riuso, senza il necessario cambiamento di mentalità che conduce ad un più intelligente e razionale utilizzo dell’edificato esistente.

Gli articoli di stampa, i commenti e le interviste a rappresentanti delle diverse categorie interessate, inducono a pensare che l’attuazione della legge non sarà così celere come l’obiettivo richiederebbe e l’esempio lombardo sembra confermarlo.

Si sente parlare già di necessità di “approccio graduale al problema “, di “diritti acquisiti”, di “fasi di monitoraggio” e di “misure prudenti e graduali”.

L’articolo 9, pur tenendo conto dell’eterno rapporto dialettico tra sviluppo economico e tutela dell’ecosistema ambientale, non può tuttavia essere interpretato come un manifesto astratto di scelte future.

Lo sviluppo urbano sostenibile ed il reale miglioramento della qualità della vita in Veneto, impongono ormai impegni e scelte pronte, concrete ed efficaci.

È stato detto che per l’ambiente non c’è più tempo per le regolazioni transitorie: la cura non può essere omeopatica, siamo alla chirurgia d’urgenza.

Commento all’art. 8 l.r. n. 14/2017

Art. 8

Interventi di riuso temporaneo del patrimonio immobiliare esistente

1. Al fine di evitare il consumo di suolo e favorire la riqualificazione, il recupero e il riuso dell’edificato esistente, il comune può consentire l’uso temporaneo di volumi dismessi o inutilizzati ubicati in zona diversa da quello agricola, con esclusione di ogni uso ricettivo.

2. I progetti di riuso mirano preferibilmente a sviluppare l’interazione tra la creatività, l’innovazione, la formazione e la produzione culturale in tutte le sue forme, creando opportunità di impresa e di occupazione, start up. In particolare sono considerate funzioni prioritarie per il riuso:

a) il lavoro di prossimità: artigianato di servizio all’impresa e alle persone, negozi temporanei, mercatini temporanei, servizi alla persona;

b) la creatività e la cultura: esposizioni temporanee, mostre, eventi, teatri, laboratori didattici;

c) il gioco e il movimento: parchi gioco diffusi, attrezzature sportive autogestite, campi da gioco;

d) le nature urbane: orti sociali di prossimità, giardinaggio urbano collettivo, parchi urbani.

3. Il riuso temporaneo è consentito anche nel caso in cui l’uso richiesto sia diverso dal precedente o da quello previsto dallo strumento urbanistico, per una sola volta e per un periodo di tempo non superiore a tre anni, prorogabili di altri due, dalla data di agibilità degli immobili oggetto di intervento.

4. Il comune, a seguito di specifica proposta da parte dei proprietari o dei soggetti aventi titolo, può autorizzare l’uso temporaneo di singoli immobili, stabilendo con apposita deliberazione:

a) il nuovo utilizzo ammesso, nel rispetto delle normative in materia di sicurezza negli ambienti di lavoro, di tutela della salute e della incolumità pubblica e delle norme igienico sanitarie e dell’ordine pubblico;

b) gli utilizzi e le modalità d’uso vietate e quelle che possono creare situazioni di conflitto, tensione o pericolo sociale, o arrecare disturbo agli insediamenti circostanti; la violazione del divieto di tali utilizzi e modalità comporta la immediata sospensione della autorizzazione;

c) il termine per l’utilizzo temporaneo, che non può in ogni caso essere complessivamente superiore a cinque anni.5.

5. Il comune autorizza il riuso temporaneo previa presentazione di un progetto di riuso e la sottoscrizione di una convenzione approvata dal Consiglio comunale nella quale sono precisati:

a) le condizioni per il rilascio degli immobili alla scadenza del termine fissato per l’utilizzo temporaneo;

b) le sanzioni a carico dei soggetti inadempienti;

c) le eventuali misure di incentivazione, comprese quelle di natura contributiva, nel caso di immobili privati messi a disposizione del comune;

d) le dotazioni territoriali e infrastrutturali minime necessarie e funzionali all’uso temporaneo ammesso, con particolare riferimento all’accesso viabilistico e ai parcheggi;

e) le altre condizioni e modalità necessarie a garantire il raggiungimento delle finalità di cui al comma 1.

6. I comuni pubblicano nel sito internet del comune l’elenco dei “Luoghi del Riuso”, in cui sono riportate le aree e i volumi autorizzati al riuso temporaneo, con i progetti di riuso e le relative convenzioni, e lo trasmettono alla Giunta regionale entro il 31 dicembre di ogni anno.

Sommario: 1. Dalle destinazioni d’uso agli usi temporanei (B. Barel)2. Il riuso temporaneo (D. Gerotto)3. La Valorizzazione Immobiliare e la Rigenerazione Urbana tramite gli usi temporanei degli immobili (A. Balduzzi)4. Il valore del “Temporiuso” (C. Bertorelli).

1. Dalle destinazioni d’uso agli usi temporanei

Anche l’attività normativa può avere dei momenti di creatività. È il caso di questa disposizione, che non figurava nei disegni di legge originari confluiti nel testo di sintesi ma che è stata felicemente inserita in dirittura d’arrivo, mediante un emendamento dell’ultimo minuto ampiamente condiviso dal consiglio regionale e auspicato anche da tutti i commentatori di questo articolo.

Al di là del dettato letterale, che ha inevitabilmente risentito dei tempi ristrettissimi dei lavori conclusivi, è la sostanza che conta e che fa la differenza. Si tratta infatti di un’assoluta novità non solo per la legislazione regionale del Veneto ma anche per la legislazione in genere, statale e di altre regioni.

La disciplina urbanistica è infatti prigioniera da oltre cinquant’anni del mito dello zooning, delle destinazioni d’uso degli immobili tipizzate dalla legge e disegnate dagli atti di pianificazione in una griglia sempre più rigida e sempre più datata. Destinazioni d’uso assunte a presupposto per la determinazione degli standard e dei contributi di costruzione, perimetrate con parole sempre più anacronistiche e insignificanti al mutare dell’economia, della società e dei lavori. Parole spesso usate con libertà e vaghezza dai pianificatori, compiaciuti dal fascino esercitato da espressioni accattivanti quanto vacue e polivalenti come “parco tecnologico” o come “zone produttive e terziarie”.

Fino a degenerazioni ridicole, come nel caso di imprenditori brillanti insediati in origine in zone artigianali e colpevoli di essere poi diventati industriali, in contrasto con la destinazione di zona, o come nel caso di officine divenute pian piano concessionarie di autoveicoli e perciò meritevoli di essere sfrattate dalle zone produttive siccome degenerate in attività commerciali.

Se nei decenni dell’espansione edilizia poteva apparire ragionevole indirizzare l’insediamento delle imprese in ambiti selezionati del territorio comunale, a protezione del tessuto edilizio consolidato e degli spazi agricoli e aperti, secondo vocazioni che sembravano stabilmente tipizzabili, già non lo era più agli inizi di questo secolo, tanto che la riforma urbanistica veneta del 2004 ha rimesso ai piani territoriali provinciali la funzione di inventariare le aree produttive disperse e di segnarne la sorte, distinguendo quelle meritevoli di espansione da quelle ormai esaurite e ancor più da quelle da sopprimere prima possibile.

Ma la crisi economica dell’ultimo decennio è stata più veloce ed efficace della pianificazione territoriale. E, forse più ancora della crisi, è la nuova economia post-globalizzazione a far intuire scenari radicalmente diversi, nei quali cerca una ridefinizione lo stesso rapporto fra spazio e lavoro, fra contenitore e contenuto. Basta osservare i giovani creativi ospiti degli “incubatori” di start-up per capire come la loro idea di ufficio o di laboratorio sia talora radicalmente diversa da quella tradizionale.

La crisi del tessuto produttivo tradizionale e lo svuotamento dei capannoni disseminati nel territorio regionale non sono che un pallido riflesso del cambiamento radicale in atto delle forme del lavoro, dei servizi necessari alla nuova economia, della nuova domanda di dare senso e intensità e significato e emozioni al tempo libero, dell’aspirazione sempre più diffusa ad una qualità di vita diversa dal passato, ad una diversa modulazione del proprio tempo e dei propri ritmi di vita.

Che ne sarà allora degli scheletri della vecchia economia, dei capannoni ancora soggetti a pesante tassazione, come se fossero ancora segni tangibili di redditività e non invece fardelli pesanti generatori di oneri, fiscali e manutentivi, di premi assicurativi e di costi di guardiania?

La nuova domanda della nuova economia guarda da tutt’altra parte. Cerca manufatti di grandi e grandissime dimensioni, adatti alla logistica più che alla produzione, prossimi alle grandi vie di comunicazione, localizzati in punti strategici rispetto ai bacini di interesse, adeguati alle più recenti normative tecniche e di sicurezza, dotati di impiantistica al passo coi tempi.

Che fare, dunque, per evitare che il territorio veneto diventi un cimitero di ruderi industriali fatiscenti, con evaporazione di investimenti e tracollo di bilanci aziendali, senza neppure quel malinconico oblio che velava le rovine di Roma antica vegliate da pecore e capre nelle struggenti stampe del Piranesi?

Due sono le carte che gioca il legislatore regionale per salvare il salvabile, complementari fra loro e rimesse al coraggio delle scelte difficili e pragmatiche. L’una è la demolizione, apparentemente traumatica ma in realtà lungimirante. Ciò che è inutile, è spreco per tutti: per il paesaggio e il territorio, per la proprietà destinata a sopportare oneri e rischi senza prospettive positive. La demolizione finisce allora col rivelarsi liberatoria: fa cessare costi improduttivi, rimette in gioco uno spazio libero e come tale suscettibile di essere reinterpretato e rivissuto, magari per accogliere un vigneto o un parco giochi o un noceto o un maneggio: beni oggi preziosi e spesso generatori di valore.

L’altra carta, la prima da giocare per i manufatti in migliori condizioni, è offerta dalla disposizione in commento: ridare un senso, nuovo e imprevedibile, a manufatti costruiti per le attività produttive, aprendoli alla creatività dei giovani e alla loro re-interpretazione della vita e del lavoro e dei servizi e del tempo libero. Gli usi temporanei non hanno nome, tipicità, stabilità, prevedibilità: sono un’espressione tutta da riempire di contenuti secondo l’energia creativa dei giovani e dei meno giovani dal pensiero giovane. Nessuna variante urbanistica da chiedere ai Comuni e da rimettere a faticosi e lenti procedimenti; nessun contributo da pagare per mutamenti di destinazione d’uso. La disposizione consente ai Comuni, mediante semplici accordi tra privati e consiglio comunale, di provare a riempire di idee nuove scatole edilizie nate per un altro mondo. È una sfida: il Consiglio comunale “può” autorizzare, per un massimo di cinque anni, gli usi previsti da progetti presentati dai proprietari o anche da altri soggetti, d’intesa ovviamente con i proprietari. La convenzione ha un ampio spazio d’azione, può prevedere sanzioni in caso di inadempimento, può esigere un minimo di opere come accessi e parcheggi o infrastrutture indispensabili in rapporto allo specifico uso proposto. Ma non sono imposti standard particolari, né opere che non siano indispensabili per rispettare le normative statali e regionali preposte alla salvaguardia di valori superiori, dalla sicurezza del lavoro alla tutela della salute e naturalmente della pubblica incolumità, alle esigenze igienico-sanitarie, all’ordine pubblico. Particolare attenzione è riservata anche alla tutela dei vicini, per prevenire disturbo o addirittura tensioni sociali, e l’espressa esclusione dell’uso ricettivo sembra volta proprio ad evitare in radice l’uso dei capannoni come ricoveri temporanei per l’ospitalità di persone in condizioni di disagio (ma è forse conciliabile con la possibilità di ricavarne foresterie per dipendenti delle aziende locali).

La scelta del legislatore di coinvolgere il Consiglio comunale, chiamato ad autorizzare l’uso temporaneo mediante l’approvazione di una convenzione col privato promotore, appare poco in linea col riparto di competenze tra Consiglio e Giunta secondo la competente normativa statale, e anche con la provvisorietà dell’esperimento in rapporto alla immutazione della pianificazione urbanistica. Per contro può spiegarsi col proposito di non interferire neppure temporaneamente col ruolo proprio del consiglio comunale in materia di pianificazione urbanistica comunale e allo stesso tempo con un’esigenza di massima trasparenza e partecipazione di fronte a decisioni che, sia pure temporanee, avviano processi non sono prevedibili nei loro sviluppi e suscettibili di incidere anche sul contesto sociale e ambientale nel quale si colloca l’edificio interessato dal progetto.

Lo schema di convenzione previsto è atipico e delinea i contenuti minimi, lasciando al Consiglio comunale e al proponente ampio margine per definire eventualmente altri contenuti. È palese però che la duttilità dello strumento è finalizzata a semplificare ed incentivare il perseguimento degli obiettivi enunciati dalla disposizione fin dal suo esordio, cosicché sarà efficace quanto più sarà un abito su misura, leggero e arioso, per innovatori poveri di capitali e ricchi di idee e coraggio, e non invece una cappa gravosa e rigida, onerosa e dissuasiva, capace di spegnere sul nascere quell’entusiasmo magari un po’ emotivo e improvvisato che potrebbe rappresentare l’ultima speranza prima della demolizione.

(Bruno Barel)

2. Il riuso temporaneo

La commercializzazione del primo smartphone nel 2007 e la crisi economica dell’anno successivo hanno dato vita ad una successione sempre più veloce di cambiamenti, non lasciandoci spesso il tempo per adattarci. Ma ci sono persone consapevoli di questo “nuovo” mondo in continuo cambiamento che riescono a guardarlo con occhi nuovi. Sono quelle che provano tutti i giorni ad immaginare con creatività un futuro coerente con questo tempo. Per loro il lavoro c’è se viene inventato. Giovani e meno giovani, senza occupazione, provano allora a far nascere imprese da idee innovative e spesso non chiaramente classificabili. Questi nuovi imprenditori/artigiani/agricoltori/creativi, con la consapevolezza dell’importanza del legame con il territorio, hanno avviato un processo per una nuova di economia del Veneto che il sistema bancario ha difficoltà a finanziare.

In questo contesto il riuso di immobili vuoti diventa un’opportunità per avere spazi a costi modesti e senza grandi investimenti, dando la possibilità di imparare a far crescere un’impresa con molto impegno, nonostante le limitate risorse finanziarie di questi tempi.

Il riuso temporaneo permette di ottenere spazi a costi ridotti senza onerosi cambi di destinazione e con poche opere di messa a norma in relazione alla specifica attività, per un periodo sufficiente a capire se l’impresa ideata funziona veramente.

Il riuso temporaneo concede l’utilizzo di vecchi edifici abbandonati o sottoutilizzati di proprietà pubblica o privata che, in attesa di un importante processo di ristrutturazione, possono ospitare iniziative legate al mondo della cultura e dell’associazionismo, allo start-up dell’artigianato e piccola impresa, a servizi alla persona e al commercio di vicinato.

Il riuso temporaneo permette l’uso di capannoni artigianali da parte di micro imprese che lavorano insieme, aiutandosi a vicenda, aggregando un’ampia varietà di attività, senza farsi molte domande su quale tipo di destinazione urbanistica sia formalmente appropriata.

Il riuso temporaneo consente alle start-up di occupare negozi sfitti in vie o gallerie commerciali degradate che nessuno vuole, generando un microcosmo di relazioni capace di cambiare lo spazio urbano innalzando il valore degli immobili dell’intero quartiere.

Tutto questo non si ottiene con una mera applicazione delle norme. La Regione Veneto, prima in Italia, ha voluto consegnare ai Comuni una nuova possibilità per avviare processi di riqualificazione della città lasciando alla comunità spazi di innovazione e creatività. Le amministrazioni devono pensare lo sviluppo urbano come azione per coniugare idea di spazio e qualità della vita della popolazione. La città va immaginata come ecosistema funzionale allo sviluppo di relazioni tra le persone e tra diverse organizzazioni. Papa Francesco ci dice nell’enciclica Laudato Sii “Non basta la ricerca della bellezza nel progetto architettonico, perché ha ancora più valore servire un altro tipo di bellezza: la qualità della vita delle persone, la loro armonia con l’ambiente, l’incontro e l’aiuto reciproco. Anche per questo è tanto importante che il punto di vista degli abitanti del luogo contribuisca sempre all’analisi della pianificazione urbanistica”.

Attraverso il riuso la comunità sperimenta una modalità diversa di pianificazione urbana. Il Piano non è più uno strumento calato dall’alto ma piuttosto il risultato di una condivisione di attività e comportamenti. Parole ormai vuote come smart o sustainable, lasciano spazio ad un nuovo dizionario di vocaboli e di gesti condivisi.

Oggi il problema delle amministrazioni è come dare risposte ai bisogni dei propri cittadini con una crescente scarsità di risorse e con sfide sempre più grandi. Alla Politica è richiesto di fare uno sforzo di immaginazione per definire scenari strategici adatti ai tempi. Le è richiesto di usare “occhi nuovi” per guardare il mondo. La Regione con questa legge ha provato a immaginare un nuovo modello di sviluppo per il Veneto, spetta a noi ora cogliere l’opportunità per adattarci al “nuovo” mondo.

(Danilo Gerotto)

3. La Valorizzazione Immobiliare e la Rigenerazione Urbana tramite gli usi temporanei degli immobili

La “rigenerazione urbana” è diventata, negli anni, un tema sempre più attuale, i cui riflessi concreti si evidenziano nelle numerose iniziative volte alla riqualificazione del patrimonio immobiliare alla scala urbana, puntando a garantire qualità e sicurezza dell’abitare sia dal punto di vista sociale che ambientale, mirando ad attuare interventi volti alla rifunzionalizzazione del patrimonio edilizio preesistente, limitando il consumo di territorio, salvaguardando il paesaggio e l’ambiente, ed escludendo interventi unicamente volti a “demolizione e ricostruzione” a fini speculativi.

Il significato di “rigenerazione urbana” è, inoltre, in continua evoluzione e le metodologie messe in atto a tale scopo cambiano seguendo i ritmi e le trasformazioni del tessuto socio-economico: il lavoro è sempre più flessibile, gli spostamenti più frequenti, le sedi di lavoro sempre meno geograficamente identificabili e permanenti; si stanno diffondendo lo “smart working” e la condivisione delle esperienze e degli spazi, del “fare rete” (co-working e co-living) Anche la conformazione del nucleo famigliare è cambiato, e di conseguenza le relative esigenze in termini di spazi e di fruizione dei luoghi.

Il fattore esperienziale assume sempre più rilevanza a fronte di elementi canonici di identificazione spazio-temporali di una determinata funzione in un determinato luogo: le “attività”, intese in senso lato e classico, stanno uscendo dal perimetro fisico degli spazi storicamente dedicati ad ospitarle e spesso cercano collocazione in ambienti inusuali (si pensi alle mostre d’arte contemporanea o alle sfilate di moda organizzate all’interno di ex stabilimenti industriali dismessi).

Il concetto di “temporaneità” è sempre più presente e determinante le scelte e gli indirizzi del vivere nella società odierna: il tema del riuso degli immobili, contro il consumo di suolo, è ormai da parecchio tempo sentito e sempre più attuale; l’innesto sugli immobili dismessi di “usi temporanei” è una pratica che sta prendendo piede, ma che ancora sconta l’inadeguatezza di un quadro normativo, a livello nazionale, ormai superato o che, quantomeno, non agevola tali iniziative.

Oggi in Italia ci sono più di 6 milioni di beni inutilizzati o sottoutilizzati, pari a due volte la città di Roma[1]; tra questi sono moltissimi quelli di provenienza pubblica, abbandonati da decenni, estesi alcune decine di migliaia di metri quadri (tra cui ex caserme, ex ospedali ecc.), e molto spesso collocati in aree limitrofe il centro delle città. Tali aree vanno a configurare una nuova tipologia di “periferia” urbana, caratterizzata da uno status di degrado e abbandono, ma geograficamente collocata in zone centrali e spesso limitrofe a quartieri i cui valori immobiliari sono elevati.

Attribuendo un significato innovativo alla “valorizzazione immobiliare”, intendendola come un processo temporaneo di rivitalizzazione degli immobili in disuso, in attesa che gli stessi vengano avviati ad un percorso di trasformazione definitiva, è possibile considerare gli immobili come “temporary box”, adatti ad ospitare attività temporanee capaci di riattivare dinamiche che faticano a ripartire seguendo i processi tradizionali “economic driver”. La cultura, in senso lato, è sempre più utilizzata, anche in Italia, come mezzo e linguaggio contemporaneo per attuare politiche e interventi di rigenerazione urbana e di inclusione sociale.

I benefici apportati dall’attivazione di usi temporanei sugli immobili dismessi sono molteplici: innanzitutto si restituisce alla collettività una porzione di città, piccola o grande che sia, anni in anticipo rispetto ad una futura definitiva trasformazione; in questo modo si ricostruisce una relazione tra un immobile abbandonato e il tessuto urbano limitrofo, relazione che transita attraverso le persone, i fruitori e le funzioni insediate.

Gli usi temporanei sono anche un’occasione per sperimentare destinazioni d’uso e funzioni diverse rispetto a quelle urbanisticamente previste, con investimenti iniziali tutto sommato contenuti, per capire come le stesse possano essere accolte e assorbite nel tessuto sociale dell’immediato contesto e se possano sostenersi in un’ottica di medio-lungo periodo; a priori non si esclude che un uso temporaneo particolarmente ben riuscito possa trasformarsi in una locazione a lungo termine, qualora questa sia compatibile con la strategia di sviluppo del singolo immobile.

Alcuni esempi di successo in Italia e all’estero insegnano che la comunicazione e promozione relativa ad eventi e iniziative temporanee organizzate in questi spazi hanno ottenuto un’elevata copertura mediatica, favorendo di conseguenza la rivalutazione dell’immobile, accrescendo l’interesse nei suoi confronti sia da parte di altri operatori interessati a farne altri usi transitori, sia di investitori interessati ad una valorizzazione definitiva.

Un altro beneficio non trascurabile per un immobile dismesso che ospita usi temporanei è il miglioramento dello stato manutentivo che da tale uso consegue, oltre che la mitigazione dei costi a carico del proprietario (quando non si parli di ricavi). Un’azione strategica, estesa ad un portafoglio immobiliare, consente inoltre di dare visibilità anche a immobili meno appetibili secondo i parametri classici del mercato.

Gli effetti positivi degli usi temporanei, inoltre, escono dalle mura dell’immobile e si riflettono almeno sul contesto limitrofo, stimolando la generazione nuovi indotti economici e circuiti relazionali non ricalcanti percorsi tradizionali.

La parola chiave è “innovazione”, di significato e di linguaggio.

(Alessandra Balduzzi)

4. Il valore del “Temporiuso”[2]

I temi fondanti l’art 8 possono considerarsi l’esito di un dibattito serrato che ha alimentato gli ultimi dieci anni di risveglio “post metrocubaro” in Regione Veneto ibridando saperi apparentemente distanti e le due più autorevoli letture che si sono (solo apparentemente) contrapposte.

La prima ha preso subito a denunciare la pressione speculativa che si annidava nel “patto per lo sviluppo” tra soggetto pubblico e soggetto privato, trovando nei padri culturali del Novecento non solo regionale (Luigi Meneghello, Andrea Zanzotto, Mario Rigoni Stern, Salvatore Settis ed altri ancora) il sostegno e l’autorevolezza necessari ad insediare un corteo permanente di comitati indignati a tutte le scale sociali. Il faro è diventato l’art.9 della Costituzione e il rischio quello di “buttare via il bambino con l’acqua sporca”, di bloccare prima che capire, di irrigidire ulteriormente i regimi di vincolo e condurre i percorsi decisionali ad una definitiva a-fasia progettuale per la sola paura di ritrovarsi discussi sui giornali o citati in qualche ricorso giudiziario.

La seconda ha intrapreso la strada più lunga e complessa di indagare le ragioni per una ripartenza, ma senza “fare prigionieri”, e piuttosto assumendo la convinzione che la città diffusa è il prodotto conseguente di un’epoca che ha accentuato i fenomeni di un urbanesimo senza precedenti. Questa parola, città, fa paura; ma non accettarla così come trovata, come un fatto “as found” e reale, significa non affrontare i problemi alla scala a cui si pongono; significa ridurre la risposta a una infinita teoria di analisi, di piani di settore e a una serie di emendamenti difensivi; significa non avere altro che una città inadeguata rispetto alle sue possibilità e alle sue ambizioni. Ed invece una città che accetti di essere tale deve partire da un disegno politico profondamente condiviso e aperto, per diventare una polis nel senso antico come in quello moderno.

Entrambe le letture in realtà trovano il giusto riconoscimento al proprio operato nelle nuove definizioni di paesaggio e cultura che, pur a fatica, stanno transitando definitivamente nel nostro linguaggio. “Paesaggio” infatti non è più solo il bel paesaggio giustamente tutelato dalle discipline in forma corale, ma anche tutte quelle porzioni di territorio trasformate consapevolmente da una comunità abitante. E “Cultura” non è più solo il veicolo raffinato e piacevole che alimenta il tempo libero, ma anche e soprattutto lo straordinario manipolatore di senso e di valore delle cose, qualunque esse siano, ivi comprese quelle costruite.

Ebbene, è evidente che solo accogliendo anche in sede politica tali nuove definizioni è stato possibile per il legislatore introdurre per la prima volta un principio di temporalità d’uso nella gestione del costruito, laddove fino a ieri esso seguiva obbligatoriamente la dimensione predeterminata dell’Urbanistica.

Tale risultato, è bene ricordarlo, ha fatto palestra soprattutto con la stagione corsara di piattaforme culturali nate proprio nei territori periferici e molecolari della Regione Veneto e cresciute fino a raggiungere ampie fette di opinione pubblica nazionale. Mi riferisco ai festival ibridi (ad esempio il Festival Comodamente a Vittorio Veneto, che dal 2007 al 2013 ha riaperto più di cinquanta luoghi dismessi della città; oppure Festival Città Impresa, attivo dal 2008), alla lunga stagione che ha alimentato la candidatura di Venezia e Nordest a capitale europea della cultura 2019, alle piattaforme di indagine più puntuale (es. Provincia Italiana, promossa da Biennale di Venezia nel 2010; Re-cycle Italy, progetto di ricerca di interesse nazionale coordinato da IUAV Venezia nel triennio 2013/2016) ed anche a quelle più attuative nate qua e là per dare soluzione ad un fatto locale, ma sempre appartenenti ad un cloud esperienziale che non ha avuto bisogno di alcuna norma per essere tutelato e per attecchire fino al punto di divenire la sola possibile soluzione d’uso per interi ambiti di costruito andati dismessi troppo velocemente.

Il portato finale, cioè che a curare il declino permanente dei luoghi costruiti sia l’uso temporaneo dei luoghi stessi (o perfino la loro “demolizione creativa”, come la definisce Bruno Barel), potrà in prima istanza apparire un ossimoro, ma in realtà va accettato come pratica oggettiva del nostro mondo contemporaneo.

(Claudio Bertorelli)

 

[1] Fonte: www.temporiuso.org.

[2] Temporiuso è il termine dato al progetto di ricerca-azione avviato nel 2008 a cura dell’associazione temporiuso.net, con il patrocinio dell’Assessorato alla Cultura della Provincia di Milano, nel 2009 dell’Assessorato allo Sviluppo del Territorio del Comune di Milano e il sostegno e contributo dei ricercatori e tirocinanti del laboratorio Multiplicity.lab, DiAP Politecnico di Milano. Il progetto si propone di utilizzare il patrimonio edilizio esistente e gli spazi aperti vuoti, in abbandono o sottoutilizzati di proprietà pubblica o privata, per riattivarli con progetti legati al mondo della cultura e associazionismo, dell’artigianato e piccola impresa, dell’accoglienza temporanea per studenti e turismo giovanile, con contratti ad uso temporaneo a canone calmierato.

Commento all’art. 7 l.r. n. 14/2017

di Emilio Caucci e Diego Signor

Art. 7

Rigenerazione urbana sostenibile

1. Sulla base dei criteri e degli obiettivi di recupero indicati dalla Giunta regionale ai sensi dell’articolo 4, comma 2, lettera b):

a) il piano di assetto del territorio (PAT) individua gli ambiti urbani di rigenerazione assoggettabili a programmi di rigenerazione urbana sostenibile;

b) il piano degli interventi (PI), con apposita scheda, individua il perimetro dell’ambito assoggettato a un programma di rigenerazione urbana sostenibile dando gli indirizzi per la sua attuazione, ivi comprese le modalità di trasferimento di eventuali attività improprie, le destinazioni d’uso incompatibili e le misure necessarie a garantire il raggiungimento degli obiettivi di rigenerazione.

2. I progetti degli interventi per l’attuazione dei programmi di rigenerazione prevedono lo sviluppo di tipologie edilizie urbane a basso impatto energetico e ambientale, la pluralità di funzioni e la qualità architettonica degli edifici e degli spazi pubblici.

3. A seguito della individuazione degli ambiti di cui al comma 1, i soggetti pubblici o privati aventi titolo presentano all’amministrazione comunale una proposta di programma di rigenerazione urbana sostenibile, al fine di verificarne la coerenza con gli indirizzi, i criteri e gli obiettivi indicati nelle schede contenute nel PI. Il programma è corredato dalla seguente documentazione:

a) l’indicazione delle proposte progettuali di massima, eventualmente suddivise in singole fasi di attuazione, nelle quali siano evidenziati gli ambiti di intervento unitario, le eventuali misure compensative volte a garantire l’invarianza idraulica, valutando, ove necessario, il potenziamento idraulico nella trasformazione del territorio, le deroghe allo strumento urbanistico generale eventualmente necessarie per l’attuazione degli interventi, fermo restando il rispetto del dimensionamento del PAT, nonché le modalità di impiego degli eventuali crediti edilizi riconosciuti per il trasferimento delle attività improprie;

b) la relazione tecnico-illustrativa, contenente la descrizione delle finalità specifiche del programma di rigenerazione e degli interventi preordinati al loro conseguimento, nonché l’indicazione dei tempi di attuazione, degli elementi qualitativi e dei risultati attesi;

c) la relazione economica, contenente un piano economico-finanziario di massima, che illustra costi e benefici attesi, con particolare riferimento alle modalità e ai tempi di realizzazione degli interventi previsti, alle fonti di finanziamento, alla sostenibilità economica dell’intero programma o delle singole fasi di attuazione;

d) uno schema di accordo con l’indicazione degli impegni assunti dai soggetti interessati, delle forme di coordinamento, delle modalità di monitoraggio periodico dello stato di attuazione del programma.

4. I programmi di rigenerazione urbana sostenibile sono promossi dai comuni, singoli o associati, e sono approvati, in quanto di interesse regionale, mediante accordo di programma ai sensi del combinato disposto dell’articolo 32 della legge regionale 29 novembre 2001, n. 35 “Nuove norme sulla programmazione” e dell’articolo 6, comma 2, della legge regionale 16 febbraio 2010, n. 11 “Legge finanziaria regionale per l’esercizio 2010”; l’approvazione degli stessi costituisce presupposto per l’accesso al fondo regionale di cui all’articolo 10.

5. Nell’accordo di programma le parti pubbliche possono prevedere forme di cofinanziamento ed incentivi, inclusa la riduzione del contributo di costruzione.

6. I programmi di rigenerazione urbana sostenibile hanno titolo preferenziale per l’attribuzione di finanziamenti regionali e per la partecipazione a bandi di finanziamento a regia regionale.

Sommario: 1. La “rigenerazione urbana”2. Individuazione degli ambiti di rigenerazione urbana sostenibile3. Approvazione dei programmi di rigenerazione urbana sostenibile4. Osservazioni conclusive.

1. La “rigenerazione urbana”

La “rigenerazione urbana” è un concetto che accompagna da almeno quarant’anni la nostra storia urbanistica, e come tanti altri ha cambiato sembianze e significato.

Negli anni Settanta si parlava di rigenerazione limitatamente al tessuto edilizio storico.

A partire dagli anni Ottanta, il concetto si è esteso a comprendere il recupero delle aree dismesse dopo la progressiva delocalizzazione delle industrie e di molti altri servizi fino ad allora in prossimità, se non all’interno, dei centri urbani.

La nozione attuale è ancora più ampia: coincide con la riqualificazione di interi quartieri o di ambiti urbani complessi, spesso costruiti con criteri di bassa qualità edilizia, architettonica e urbanistica.

Fino ad oggi, anche per il sostanziale inutilizzo della società di trasformazione urbana (art. 17, comma 59, l. n. 127/1997 e art. 120 d. lgs. n. 267/2000), l’obiettivo della rigenerazione è stato perseguito prevalentemente attraverso i programmi integrati ossia su iniziativa sostanzialmente privata, per ambiti definiti e in cambio di un beneficio pubblico da contrattare di volta in volta. La felice stagione dei programmi integrati ha tuttavia esaurito la propria forza propulsiva proprio nel momento in cui è venuta a mancare dal mercato una domanda capace di convogliare risorse private sull’attuazione di tali strumenti, che la legislazione e la pianificazione avevano sì sviluppato in forme sempre più flessibili, ma anche sempre incentrate su una capacità derogatoria dipendente dal riconoscimento di un beneficio pubblico ossia comunque di un sacrificio economico richiesto al privato principalmente in termini di opere pubbliche o di pubblico interesse.

Questa logica, insita nell’incentivazione di interventi extra ordinem con la concertata introduzione di deroghe o varianti alle previsioni di piano regolatore generale ma con la contestuale pretesa di una qualche forma di partecipazione pubblica al maggior valore che si stima generato dagli interventi (logica che, di fatto, caratterizza anche la disposizione di cui alla lettera d-ter introdotta nel 4° comma dell’art. 16 del d.P.R. n. 380/2001 dal decreto-legge “Sblocca Italia” del 2014), ha perduto impatto e attualità ed è stata ripensata facendo in primis della riqualificazione in sé stessa il “beneficio pubblico” (come già era in parte stabilito dall’art. 5, commi 9 e 11, del d.l. n. 70/2011[1]): e confermando – anzi, se possibile, implementando – l’incentivo ormai “classico” rappresentato dalla “deroga”, dalla “variante”, con il coinvolgimento di risorse finanziarie pubbliche per il tramite di modalità diverse rispetto a quelle caratterizzanti la fallimentare esperienza della società di trasformazione urbana.

A questa filosofia sembra ispirarsi l’articolo in commento, rubricato “rigenerazione urbana sostenibile”.

La “rigenerazione” riguarda ambiti di scala ben più ampia e complessa di quelli oggetto della “riqualificazione urbana” di cui all’articolo 6[2]. Lo attesta già la definizione di “ambiti urbani di rigenerazione” contenuta alla lettera h) dell’art. 2, comma 1, secondo la quale sono tali “le aree ricadenti negli ambiti di urbanizzazione consolidata” quali definiti nella precedente lettera e) del medesimo comma e “caratterizzati da attività di notevole consistenza, dismesse o da dismettere, incompatibili con il contesto paesaggistico, ambientale od urbanistico, nonché le parti significative di quartieri urbani interessate dal sistema infrastrutturale della mobilità e dei servizi”. Sempre la lettera h) del comma 1 dell’articolo 2, al cui commento si rinvia, prosegue elencando anche le specifiche finalità dei programmi di rigenerazione urbana sostenibile (sostenibilità, contenimento del consumo di suolo; riduzione dei consumi idrici ed energetici; integrazione sociale, culturale e funzionale; soddisfacimento della domanda abitativa e coesione sociale; integrazione delle infrastrutture della mobilità veicolare, pedonale e ciclabile con il tessuto urbano, con le politiche urbane della mobilità sostenibile e con la rete dei trasporti collettivi; partecipazione attiva dei cittadini fin dalla progettazione dei programmi di intervento; innovazione e sperimentazione edilizia e tecnologica; sviluppo di nuove economie e di nuova occupazione, sicurezza sociale e superamento delle diseguaglianze sociali): da questo elenco si desume che la rigenerazione urbana va ben oltre l’aspetto urbanistico e ben oltre la sfera privata.

Vi è dunque, al fondo della norma, la piena consapevolezza che la rigenerazione di ambiti urbani estesi coinvolge una pluralità di fattori (sociali, economici, ambientali, urbanistici, edilizi) da coordinare ed integrare fra loro e può avvenire solamente sotto una chiara e forte regia pubblica: da parte della Regione, ma – prima e soprattutto – da parte del Comune interessato.

2. Individuazione degli ambiti di rigenerazione urbana sostenibile

Il metodo di fondo per l’attuazione di queste finalità resta invero quello a cui è improntata l’intera legge ossia la delega ai Comuni – esercitabile dopo l’emanazione e nel rispetto dei criteri di individuazione e degli obiettivi di recupero dettati dalla Giunta regionale (art. 4, comma 2, lett. b) – del compito di individuare nel PAT gli ambiti urbani di rigenerazione assoggettabili a programmi di rigenerazione urbana sostenibile, procedendo poi nei PI a definirne più esattamente i perimetri e a dettarne gli indirizzi attuativi (fermo restando che nel caso di ambiti interessanti il territorio di più Comuni sarà il PATI lo strumento chiamato a coordinare, da un punto di vista pianificatorio, la possibile azione integrata degli enti comunali coinvolti).

Tale distribuzione nella pianificazione comunale, peraltro, non esaurisce affatto la disciplina degli interventi di rigenerazione ma ne disegna solo la cornice: implica e richiede, infatti, un terzo ed un quarto livello di attuazione, consistenti, rispettivamente, nella presentazione dei “programmi” e nella loro approvazione, che è approvazione regionale (cfr. infra).

In particolare, al PAT è demandato il solo compito di individuare, tenendo conto della definizione contenuta nell’art. 2, comma 1, lett. h) e dei criteri dettati dalla Giunta regionale, gli “ambiti urbani di rigenerazione assoggettabili a programmi di rigenerazione urbana sostenibile”[3], al PI quello di fissare i perimetri (anche all’interno del più generale “ambito” delineato dal PAT, sembra di capire) e di dettare con scheda gli “indirizzi” dell’attuazione comprendenti anche, ma non solo, l’indicazione delle modalità di trasferimento delle attività improprie, le destinazioni d’uso incompatibili e le misure occorrenti a garantire il raggiungimento degli obiettivi (ferma la possibilità, nella fase di approvazione regionale del programma, di variare, ove necessario, specifiche previsioni della scheda [cfr. infra]).

Si tratta di una scelta consapevole e opportuna: la pianificazione comunale non deve e non può entrare nel dettaglio, lasciato alle proposte dei “soggetti pubblici o privati aventi titolo” [a loro volta frutto di ampia consultazione con la cittadinanza, nelle modalità anche procedurali che saranno definite dalla Giunta ai sensi dell’art. 4, comma 2, lett. b)], e soprattutto non deve stabilire le destinazioni d’uso ma solo quelle “incompatibili” di modo che tutte le altre, per esclusione, devono ritenersi ammesse[4].

3. Approvazione dei programmi di rigenerazione urbana sostenibile

Una volta stabilita la cornice nella pianificazione comunale, entra in gioco il “terzo livello”, il quale a sua volta si articola in due momenti.

In un primo momento (comma 3), i “soggetti pubblici o privati aventi titolo” presentano al Comune una “proposta di programma di rigenerazione urbana sostenibile”, e il Comune passa a verificarne la coerenza con gli indirizzi, i criteri e gli obiettivi indicati nelle schede contenute nel PI.

La proposta, per scala e soprattutto per contenuti, non è un piano attuativo ma appunto un “programma” esteso a parti organiche della città (ad es.: una zona industriale), corredato da ben precisi elaborati.

Anzitutto, è corredata da una proposta progettuale “di massima”, articolabile in fasi di attuazione, alla quale si richiede di indicare gli ambiti di intervento che devono restare unitari, di garantire ove occorra l’invarianza idraulica e, se del caso, il potenziamento idraulico e si richiede altresì di specificare “le deroghe allo strumento urbanistico generale eventualmente necessarie per l’attuazione degli interventi, fermo restando il rispetto del dimensionamento del PAT, nonché le modalità di impiego degli eventuali crediti edilizi riconosciuti per il trasferimento delle attività improprie”.

È prevista poi una relazione tecnico-illustrativa per indicare finalità da perseguire, interventi da realizzare, obiettivi di qualità da raggiungere, mezzi e tempi di attuazione, risultati attesi.

Soprattutto, per questi programmi di rigenerazioni urbana che devono essere programmi “sostenibili” si richiede una “relazione economica, contenente un piano economico-finanziario di massima”: relazione volta sì a rappresentare in termini economici costi e benefici attesi, ma più specificamente finalizzata a giustificare la serietà e la fattibilità dell’operazione (fonti di finanziamento e “sostenibilità”), fermo restando che la sostenibilità economica deve essere dimostrata in relazione all’intero programma ma potrebbe essere comprovata anche in relazione a “singole fasi di attuazione” e quindi, sembrerebbe di capire, accettando in partenza l’idea di una attuazione solo (e almeno) parziale (sulla falsariga, del resto, delle nuove disposizioni del d.lgs. 50/2016 sui contratti per la realizzazione di complesse opere pubbliche o di pubblico interesse in regime di concessione: disposizioni che consentono la possibilità di ammettere pure iniziative contemplanti parziali finanziamenti del progetto complessivo, a quel punto realizzabile anche limitatamente a singoli stralci tecnicamente ed economicamente funzionali).

La disposizione non arriva a richiedere espressamente che il piano economico-finanziario di massima, già in questa fase, sia accompagnato anche da idonea documentazione comprovante i possibili finanziamenti dell’iniziativa o da dichiarazioni di istituti finanziatori di manifestazione di interesse a finanziare l’operazione. Vero è che, proprio per assicurare la fattibilità e la sostenibilità dell’iniziativa nel momento in cui la stessa prenderà concretamente avvio, potrebbe essere importante che gli atti approvativi del programma di rigenerazione urbana si premurino di analizzare e disciplinare anche questi profili (subordinando, ad esempio, la sottoscrizione di convenzioni attuative di singole fasi attuative alla dimostrazione della contestuale sottoscrizione di contratti di finanziamento) e, prima, si preoccupino del coinvolgimento degli operatori economici nella verifica sull’adeguatezza dei livelli di “bancabilità” dei progetti (reperibilità sul mercato finanziario di risorse adeguate; sostenibilità delle fonti; congruità della redditività del capitale investito): così da cercare di evitare il ripetersi di errori che hanno caratterizzato una certa fase della storia della programmazione integrata di riqualificazione nel Veneto, dove una non attenta valutazione preventiva sulla concreta ed effettiva sostenibilità economico-finanziaria dei progetti approvati si è tradotta nell’incompletezza, in fase realizzativa, degli interventi.

Da ultimo, il comma 3 dell’articolo 7 richiede che la proposta di programma sia corredata anche da uno schema di “accordo”, che sembrerebbe una forma attenuata e più generale di convenzione urbanistica in cui oltre agli “impegni assunti dai soggetti interessati” – genericamente intesi e perciò attinenti non alla sola urbanizzazione (che potrebbe anche mancare) ma pure ai tempi e modi di attuazione dell’interesse pubblico primario costituito dalla riqualificazione in se stessa – è contemplato il controllo periodico “dello stato di attuazione del programma”[5] (non le garanzie, dunque, demandabili a una fase successiva, dinanzi a un progetto compiuto). Lo schema di accordo potrebbe poi disciplinare anche forme per garantire la possibilità di “effettiva partecipazione degli abitanti” nella fase di gestione del programma, secondo le indicazioni (strumenti e procedure) che saranno date, sul punto, dalla Giunta regionale ai sensi dell’art. 4, comma 2, lett. b), l.r. n. 14/2017.

In un secondo momento rientrano in gioco i Comuni: sono i Comuni, singoli o associati, a “promuovere” i programmi ricevuti e ad avviarli, se ritenuti meritevoli, alla approvazione regionale (comma 4): è implicito e inevitabile infatti che i Comuni compiano una prima valutazione discrezionale di ammissibilità, completezza e anche meritevolezza dei programmi, superata la quale essi, “in quanto di interesse regionale”, sono avviati all’approvazione mediante accordo di programma ai sensi del combinato disposto degli articoli 32 della l.r. n. 35, 2001 e 6, comma 2, della l.r. n. 11/2004.

Il tenore letterale della disposizione di cui all’esaminato comma 4 (“sono approvati, in quanto di interesse regionale”) si presta a una duplice lettura: quella secondo la quale detti programmi, se approvati, diventano “per definizione” di interesse regionale, come sembra suggerire anche una interpretazione sistematica (la norma disciplina la sola approvazione in sede regionale; i finanziamenti previsti ed il monitoraggio sono a livello regionale), e quella secondo la quale invece la forma di approvazione mediante accordo di programma “a regia regionale” trovi applicazione solamente in relazione a quei programmi di rigenerazione urbana che, per il peculiare contenuto o per l’ambito territoriale di intervento, siano ritenuti dalla Regione di interesse sovracomunale (intendendosi la locuzione “in quanto” come un “se” o un “laddove”).

Ad avviso di chi scrive, proprio la strategicità che la l.r.14/2017 ha voluto riconoscere a questi programmi di rigenerazione urbana (i quali ultimi in molti casi potrebbero richiedere una variazione alla strumentazione urbanistica locale e sempre richiedono una attuazione organica e coordinata dei complessi interventi previsti, con l’esercizio congiunto di più competenze amministrative) induce a ritenere che il legislatore abbia voluto sottrarre l’ultima fase approvativa di questi programmi alla sola sfera di competenza comunale (in cui rientrano invece gli interventi di sola “riqualificazione urbana” di cui all’art. 6).

L’utilizzo dello strumento dell’accordo regionale si giustifica anche per l’esigenza di prevedere a carico delle “parti pubbliche” firmatarie “forme di cofinanziamento ed incentivi, inclusa la riduzione del contributo di costruzione” (comma 5): fermo restando che l’approvazione di questi programmi “costituisce presupposto per l’accesso al fondo regionale di cui all’articolo 10” della l.r. n. 14/2017

Chiude l’articolo il comma 6, nel quale si stabilisce che i programmi, evidentemente approvati, hanno titolo preferenziale per l’attribuzione di finanziamenti regionali e per la partecipazione a bandi di finanziamento a regia regionale (cfr. sul punto anche art. 10, comma 1, lett. a) e b)).

4. Osservazioni conclusive

Ciò detto quanto al dato letterale, non mancano spunti di riflessione.

In primo luogo, l’articolo in commento pone un rapporto di consequenzialità ma non di dipendenza fra la “cornice” di indirizzi comunale e l’accordo di programma finale: la scheda del PI evidentemente non vincola ma appunto indirizza il programma, la cui approvazione ai sensi dell’art. 32 della l.r. n. 35/2001 e dell’art. 6, comma 2, della legge finanziaria regionale per il 2010 (l.r. n. 11/2010) consente, se necessario, ulteriori varianti, anche perimetriche: la norma peraltro non limita l’intensità delle eventuali varianti, né stabilisce se esse debbano avere un ruolo correttivo o possano stravolgere gli indirizzi dati dal Comune, che è parte dell’accordo.

In secondo luogo, merita una riflessione la flessibilità della disciplina delle destinazioni d’uso, anche in rapporto agli standard: gli ambiti di rigenerazione urbana sono “a destinazione d’uso residuale” – i Comuni possono solo indicare gli usi espressamente vietati – e in ragione di ciò, analogamente a quanto previsto per l’integrazione delle attività commerciali coi centri storici (art. 21, comma 6, lett. a) l.r. n. 50/2012), non è logicamente possibile predeterminare e tantomeno imporre nella scheda dotazioni di spazi a standard (es.: parcheggi): tale compito evidentemente spetterà al convenzionamento attuativo.

Va da sé che la norma non contempla altro beneficio pubblico se non la rigenerazione in sé stessa; rigenerazione che oltretutto può accedere sia alle forme di cofinanziamento e di incentivo stabilite nell’accordo (comma 5), sia ai finanziamenti regionali o ai bandi di finanziamento a regia regionale (comma 6). È quindi ontologicamente incompatibile coll’istituto la contrapposta previsione di un ulteriore “beneficio pubblico” in termini di contributo straordinario in denaro o in opere, ai sensi della citata lettera “d-ter” del comma 4 dell’art. 16 del d.P.R. n. 380/2001 (il comma 4-bis del menzionato art. 16 del T.U.E., dopo aver disciplinato il contributo straordinario su indicato, fa “salve le diverse disposizioni delle legislazioni regionali e degli strumenti urbanistici generali comunali”).

Un cenno merita anche la procedura di accordo di programma regionale. L’art. 7 nulla aggiunge e quindi vale sempre lo schema tracciato dalla DGR n. 2943/2010, al netto però della prima fase di filtro rappresentata dalla delibera di giunta regionale attestante l’interesse regionale: tale valutazione preliminare, secondo la lettura interpretativa prima evidenziata, è infatti compiuta a monte dalla legge (“I programmi di rigenerazione urbana sostenibile … sono approvati, in quanto di interesse regionale, mediante accordo di programma …”).

Il tempo dirà se questa previsione porterà frutto o resterà sulla carta o, ancora, se esaurirà i propri effetti nel finanziare idee e progetti che resteranno tali.

È chiaro che più ampia sarà l’area da rigenerare (e quindi la platea dei soggetti interessati), più difficile sarà il perseguimento degli ambiziosi obiettivi delineati dalla legge. La stessa possibilità di suddividere in singole fasi di attuazione e per interventi unitari l’intervento programmato (schema già sperimentato in scala di pianificazione attuativa: cfr. art. 28, comma 6-bis, l. n. 1150/1942, introdotto dal d.l. n. 133/2014, convertito dalla legge n. 164/2014) costituisce una risposta solo parziale alle difficoltà generate dalla frammentazione dominicale.

Eppure la Regione non avrebbe potuto fare molto di più.

L’unico vero rimedio per superare l’opposizione dei dissenzienti, che va data per scontata in ambiti vasti a fronte della frammentazione della proprietà (si pensi ai grandi condomìni), è infatti l’espropriazione, che è soggetta a riserva (relativa) di legge statale: è lo Stato a declinare i casi in cui l’espropriazione è ammessa, a dettare i criteri di quantificazione dell’indennità e le regole del procedimento. La legislazione regionale può solo disciplinare aspetti di dettaglio, come avviene nella materia urbanistica a proposito dei comparti e dei piani urbanistici. Ne consegue che, mancando per forza di cose una disciplina specifica dell’espropriazione all’interno della “rigenerazione urbana” regolata dalla legge regionale nell’articolo in commento, e fin quando lo Stato non detterà disposizioni ad hoc, essa potrà e dovrà trovare spazio solo “a valle”, in sede di attuazione urbanistica, con i conseguenti aggravi procedurali.

Un altro elemento significativo, di forza e di debolezza al tempo stesso, è costituito dalla necessità di una forte regia pubblica, dall’inizio alla fine del processo: tale regia, considerate la complessità dei temi e degli obiettivi, la necessità di coinvolgere fin dalla programmazione i cittadini e la peculiarità delle procedure (dal PAT all’accordo di programma regionale, ed anche oltre, fino alla fase dell’attuazione concreta), richiede non solo saldezza o coerenza ma anche continuità politica e/o di visione strategica del futuro della città.

 

[1] Il comma 9 dell’art. 5 del decreto-legge n. 70/2011 (cd. “decreto sviluppo”, convertito dalla l. n. 106/2011) ha disposto quanto segue: “Al fine di incentivare la razionalizzazione del patrimonio edilizio esistente nonché di promuovere e agevolare la riqualificazione di aree urbane degradate con presenza di funzioni eterogenee e tessuti edilizi disorganici o incompiuti nonché di edifici a destinazione non residenziale dismessi o in via di dismissione ovvero da rilocalizzare, tenuto conto anche della necessità di favorire lo sviluppo dell’efficienza energetica e delle fonti rinnovabili, le Regioni approvano entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto specifiche leggi per incentivare tali azioni anche con interventi di demolizione e ricostruzione che prevedano:

  1. il riconoscimento di una volumetria aggiuntiva rispetto a quella preesistente come misura premiale;
  2. la delocalizzazione delle relative volumetrie in area o aree diverse;
  3. l’ammissibilità delle modifiche di destinazione d’uso, purché si tratti di destinazioni tra loro compatibili o complementari;
  4. le modifiche della sagoma necessarie per l’armonizzazione architettonica con gli organismi edilizi esistenti.

[2] Nel primo testo del progetto di legge il termine “rigenerazione” era indifferentemente impiegato per gli interventi edilizi su singoli fabbricati e per quelli di recupero di interi ambiti degradati; inoltre presupponeva iniziative e finanziamenti principalmente privati.

[3] Il PAT non può e non deve fare altro che individuare gli ambiti; gli effetti di questa individuazione sono poi delineati direttamente dalla legge, la quale stabilisce iter e contenuti dei passaggi successivi.

[4] La necessità di un mix funzionale è affermata già nella citata lettera h) del 1° comma dell’art. 2, che fra le finalità dei programmi annovera al n. 4) la “compresenza e [la] interrelazione di residenze, attività economiche, servizi pubblici e commerciali, attività lavorative, nonché spazi ed attrezzature per il tempo libero”, e dallo stesso articolo 7 al comma 2, che impone ai programmi di prevedere “lo sviluppo di tecnologie urbane a basso impatto energetico e ambientale, la pluralità di funzioni e la qualità architettonica degli edifici e degli spazi pubblici”: le funzioni possono – anzi devono – essere diversificate, senza predeterminazione.

[5] Sulla verifica periodica dello stato di attuazione dei programmi di rigenerazione urbana approvati e degli eventuali finanziamenti del fondo regionale di cui all’art. 10, cfr. art. 15, comma 1, lett. a) della legge.

Commento all’art. 6 l.r. n. 14/2017

di Enrico Gaz

Art. 6

Riqualificazione urbana

1. Gli interventi di riqualificazione urbana rispondono alla finalità del presente Capo e sono realizzati negli ambiti urbani degradati.

2. Fermo restando il rispetto del dimensionamento del piano di assetto del territorio (PAT), il piano degli interventi (PI) individua il perimetro degli ambiti urbani degradati da assoggettare ad interventi di riqualificazione urbana e li disciplina in una apposita scheda, precisando: i fattori di degrado, gli obiettivi generali e quelli specifici della riqualificazione, i limiti di flessibilità rispetto ai parametri urbanistico-edilizi della zona, le eventuali destinazioni d’uso incompatibili e le eventuali ulteriori misure di tutela e compensative, anche al fine di garantire l’invarianza idraulica e valutando, ove necessario, il potenziamento idraulico nella trasformazione del territorio.

3. Il PI può prevedere il riconoscimento di crediti edilizi per il recupero di potenzialità edificatoria negli ambiti di urbanizzazione consolidata, premialità in termini volumetrici o di superficie e la riduzione del contributo di costruzione.

4. Gli interventi di riqualificazione urbana possono essere attuati mediante:

a) piani urbanistici attuativi, ai sensi degli articoli 19 e 20 della legge regionale 23 aprile 2004, n. 11;

b) comparti, ai sensi dell’articolo 21 della legge regionale 23 aprile 2004, n. 11;

c) permessi di costruire convenzionati, ai sensi dell’articolo 28 bis del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380 “Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia”.

La disposizione esordisce mettendo a fuoco la stretta corrispondenza biunivoca tra degrado e riqualificazione. Nel disegno della legge, infatti, il degrado costituisce la condizione imprescindibile per accedere alle premialità della riqualificazione e la riqualificazione integra la modalità di contrasto tipico al degrado.

Secondo la lett. g) dell’art. 2.1 gli ambiti urbani degradati sono le aree “assoggettabili agli interventi di riqualificazione urbana di cui all’art. 6” ed il primo comma dell’articolo in commento puntualizza che gli interventi di riqualificazione “sono realizzati negli ambiti urbani degradati”. Sussiste, quindi, un nesso inscindibile tra le due fattispecie e in quest’ottica la riqualificazione diventa un obiettivo privilegiato della pianificazione territoriale ed urbanistica, come precisa il co. 2 dell’art. 3, a tal punto che “sono sempre consentiti sin dall’entrata in vigore della presente legge ed anche successivamente, in deroga ai limiti stabiliti dal provvedimento della Giunta regionale di cui all’articolo 4, comma 2, lettera a … gli interventi di cui agli articoli 5 e 6, con le modalità e secondo le procedure ivi previste” (cfr. art. 12.1, lett. b).

In proposito, per il lettore può essere fuorviante indugiare a prima vista sull’aggettivo “urbana” che parrebbe alludere – stando all’utilizzo che ne viene fatto nel comune linguaggio urbanistico – ad iniziative circoscritte a contesti cittadini o, comunque, di pertinenza di zone site in centri già urbanizzati. In realtà, come prevede l’art. 2 alla citata lett. g) del primo comma, il degrado non è necessariamente dato da compromissioni costruttive o infrastrutturali ma può anche essere di natura unicamente ambientale (si veda il punto n. 4 della lettera in esame), ad esempio imputabile a “mancata manutenzione del territorio o a situazioni di rischio” oppure a “squilibri degli habitat”, circostanza che ricorre di frequente in plaghe ad alta fragilità territoriale (come talune zone alpine e vallive, la Laguna, il Delta, ecc.). In altre parole, poiché gli ambiti degradati possono essere contraddistinti anche solo da una tipologia di elementi detrattori, come quelli ambientali appena richiamati, e poiché – ai sensi della lett. c) dell’art. 2.1 – gli ambiti possono riguardare pure nuclei insistenti in zona agricola, la riqualificazione potrà interessare anche estensioni del tutto estranee alla classica casistica edificatoria (purché si tratti di aree ricadenti in ambiti di urbanizzazione consolidata come definiti dalla lett. a) dell’art. 2 della legge).

Spetta al pianificatore comunale individuare a livello locale, facendo applicazione delle definizioni dettate dall’art. 2 prima citato, gli ambiti di degrado assoggettabili a riqualificazione urbana ed il loro perimetro. L’estensione dell’ambito va calibrata con il Piano degli Interventi (P.I.), analogamente a quanto viene previsto per gli interventi di riqualificazione edilizia ed ambientale considerati dal precedente art. 5 (cfr. co. 2 dello stesso).

Di conseguenza, detta attività individuativa rientra ora tra i contenuti propri del P.I. che si trovano arricchiti di questo ulteriore scopo programmatorio ad integrazione di quanto puntualmente descritto al secondo comma dell’art. 17 della l.r. n. 11/04, il quale illustra nel dettaglio le misure e le determinazioni a cui deve provvedere il Piano in questione. Tra l’altro, già l’art. 17 in parola – pur in modo meno esplicito e definito – assegnava al PI un ruolo promozionale nella riqualificazione del territorio, prova ne sia che il quarto comma della norma dispone che “per individuare le aree nelle quali realizzare interventi di nuova urbanizzazione o riqualificazione, il comune può attivare procedure ad evidenza pubblica, cui possono partecipare i proprietari degli immobili nonché gli operatori interessati, per valutare le proposte di intervento che risultano più idonee a soddisfare gli obiettivi e gli standard di qualità urbana ed ecologico-ambientale definiti dal PAT”.

La legge si preoccupa che la pianificazione non venga elaborata in modo generico e che lo strumento urbanistico non si limiti a mere previsioni localizzative, non assistite da una analisi adeguata e prospettica dell’assetto territoriale volta a volta esaminato. Per questo, il PI oltre ad indicare il perimetro dell’ambito deve disciplinare gli interventi di riqualificazione con una apposita “scheda”. È necessario che questo particolare documento si faccia carico, in virtù di quanto prescritto al secondo comma dell’articolo, di ponderare specificamente la regolazione degli interventi consentiti e certuni aspetti di essi debbono costituire l’oggetto precipuo di una valutazione rafforzata: in effetti, la scheda deve “precisare” alcune singole valutazioni, dando espressamente conto di averle maturate. Esse debbono riguardare: i fattori di degrado, gli obbiettivi della riqualificazione, i limiti e i parametri di zona, le destinazioni d’uso, le misure di tutela e di compensazione nonché la sostenibilità idraulica delle possibili intraprese. La perentorietà del testo, che esige la presenza di tali precisazioni all’interno della scheda di disciplina, porta a concludere per l’illegittimità di previsioni pianificatorie incomplete che non accompagnino la localizzazione dell’ambito con la piena specificazione di quanto appena illustrato.

È inoltre opportuno che il P.I. normi le concrete modalità attuative degli interventi di riqualificazione. Sul punto, l’ultimo comma dell’articolo enuncia in via generale tre possibili modi di attuazione, senza graduare la loro operatività concreta o fornire indicazioni similari di tipo pratico. In questo senso, vi è quindi una piena libertà ed autonomia del Comune nel selezionare le forme esecutive reputate più rispondenti e funzionali all’obiettivo, ferma la necessaria osservanza dei presupposti di legge per ciascuna delle modalità possibili. Tuttavia, va da sé che una pianificazione di così alto livello definitorio, come quella evocata dal secondo comma, implichi giocoforza l’esigenza di fornire anche una puntuale indicazione sullo strumento ritenuto idoneo allo scopo e di fissare detta indicazione nella scheda di riferimento, senza rimettere la scelta alle libere determinazioni del soggetto attuatore.

Innanzitutto, la lett. a) dell’ultimo comma individua nei piani urbanistici attuativi regolati agli artt. 19 e 20 della l.r. n. 11/04 uno strumento ordinario per l’attivazione degli interventi di riqualificazione urbana. Data la peculiare natura di questi ultimi, è agevole arguire che la ricorrenza pratica di tale strumento promuoverà soprattutto i piani esecutivi di cui alle lettere d), e) ed f) del citato art. 19, vale a dire il piano di recupero di cui all’articolo 28 della legge 5 agosto 1978 n. 457, il piano ambientale di cui all’articolo 27 della legge regionale 16 agosto 1984, n. 40 (“Nuove norme per la istituzione di parchi e riserve naturali regionali“) e il programma integrato di cui all’articolo 16 della legge 17 febbraio 1992, n. 179. Non deve sfuggire che, secondo la norma appena citata, il “programma integrato è lo strumento di attuazione della pianificazione urbanistica per la realizzazione coordinata, tra soggetti pubblici e privati, degli interventi di riqualificazione urbanistica, edilizia ed ambientale”. Il tema della riqualificazione trova, quindi, nel programma integrato uno strumento dedicato e concepito in funzione del “riordino degli insediamenti esistenti e il ripristino della qualità ambientale anche attraverso l’ammodernamento delle urbanizzazioni primarie e secondarie e dell’arredo urbano, il riuso di aree dismesse, degradate, inutilizzate, a forte polarizzazione urbana, anche con il completamento dell’edificato” (cfr. la lett. f) cit.). Per quanto riguarda, invece, i piani di recupero è sostenibile che l’individuazione da parte del P.I. dell’ambito degradato tenga luogo – ad ogni conseguente effetto – della apposita deliberazione consiliare richiesta dal secondo comma dell’art. 27 della L. n. 457 del 1978.

Anche se uno strumento attuativo di riqualificazione sembra difficilmente riducibile, per la sua complessità, allo schema di base della preventiva urbanizzazione e della successiva edificazione, va tenuta presente – per completezza – pure l’applicabilità dell’art. 18 bis della l.r. n. 11/04, secondo il quale “sono sempre ammessi in diretta attuazione degli strumenti urbanistici generali, anche in assenza dei piani attuativi dagli stessi richiesti, gli interventi sul patrimonio edilizio esistente di cui alle lettere a), b), c) e d), dell’articolo 3 del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380 “Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia” e quelli di completamento su parti del territorio già dotate delle principali opere di urbanizzazione primaria e secondaria”, tanto più che, a mente del co. 7 sexies dell’art. 48 della medesima legge regionale n. 11, “fino al primo PAT e PI sono sempre ammessi gli interventi di cui all’articolo 18 bis”.

In secondo luogo, viene indicato dalla norma (cfr. la lett. b del comma in discussione) il comparto di cui all’art. 21 della l.r. n. 11. Al riguardo, è utile rammentare che l’articolo testé citato statuisce che la delimitazione del comparto e i termini esecutivi dello stesso “sono stabiliti da un PUA oppure dal piano degli interventi”. Nel caso di specie, il comparto va sicuramente visto come strumento alternativo al PUA, già trattato alla lettera precedente, di talché se è pur vero che il comparto potrebbe riguardare tutto o parte di un PUA (cfr. secondo comma dell’art. 21 cit.), in ipotesi di riqualificazione urbana esso sarà principalmente destinato a “ricomprendere gli interventi singoli spettanti a più soggetti in attuazione diretta del piano degli interventi (PI)” (come esattamente previsto sempre dal medesimo comma dell’art. 21). L’istituto del comparto deve, poi, il suo interesse al fatto che al consorzio costituito per l’attuazione dell’intervento la legge riconosce “titolo per procedere all’occupazione temporanea degli immobili dei dissenzienti per l’esecuzione degli interventi previsti, con diritto di rivalsa delle spese sostenute nei confronti degli aventi titolo, oppure per procedere all’espropriazione degli stessi immobili ai prezzi corrispondenti all’indennità di esproprio” (cfr. quinto comma dell’art. 21). Pertanto, la possibilità di ricorso alle procedure ablative segnala un indubbio gradiente positivo per le finalità attuative in programma.

Da ultimo, la lett. c) del comma accredita i permessi di costruire convenzionati, ai sensi dell’articolo 28 bis del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380. Si tratta, come noto, di uno strumento introdotto dalla decretazione c.d. “sblocca-Italia” (D.L. n. 133/2014) e che si giustifica qualora le esigenze di urbanizzazione possano essere soddisfatte con una modalità semplificata e, comunque, laddove sussistano i necessari presupposti di “soddisfacimento di un interesse pubblico” (cfr. secondo comma dell’art. 28 bis). Il legislatore statale non ha posto limiti alla enucleazione degli interessi generali perseguibili, prova ne sia che l’elencazione contenuta nel terzo comma dell’art. 28 bis (edilizia residenziale sociale, rilevanti opere di urbanizzazione, ecc.) riveste per stessa previsione redazionale una funzione meramente esemplificativa. Ne deriva che opportunamente il testo regionale rimanda a questa innovativa modalità di attuazione convenzionale come abito operativo di interventi di riqualificazione urbana.

Infine, va sottolineato che, al terzo comma, il presente articolo chiarisce che il “PI può prevedere il riconoscimento di crediti edilizi per il recupero di potenzialità edificatoria negli ambiti di urbanizzazione consolidata, premialità in termini volumetrici o di superficie e la riduzione del contributo di costruzione”. Viene pertanto ripetuta anche per la riqualificazione urbana una previsione di favore del tutto identica a quella dettata al secondo comma del precedente art. 5 per la riqualificazione edilizia e ambientale, con la conseguenza che, a commento di tali misure di agevolazione, può essere richiamato quanto già illustrato in quella sede.

Resta inteso che le previsioni premiali andranno messe in atto entro un corretto contesto applicativo: da un lato, non va dimenticata la necessità di rispettare in ogni caso le dotazioni stabilite dallo strumento urbanistico generale, dal momento che la riqualificazione si attua “fermo restando il rispetto del dimensionamento del piano di assetto del territorio (PAT)“ (cfr. il secondo comma dell’articolo in commento); dall’altro lato, il bonus assegnato caso per caso non andrà confuso con quanto è già realizzabile in via aggiuntiva in base alla normativa (l.r. n. 14/09) sul c.d. “piano-casa”, espressamente fatta salva dal successivo art. 12. Come noto, la legislazione sul “piano-casa” – all’art. 3 della stessa – contiene disposizioni di marcata incentivazione della riqualificazione del patrimonio edilizio esistente e non per nulla la presente legge si premura alla lett. g) del citato art. 12 di precisare che dette “premialità sono da considerarsi alternative e non cumulabili” con quelle assegnabili con il presente articolo.

Commento all’art. 5 l.r. n. 14/2017

di Mario Panzarino e Giulio Vidali

ART. 5
Riqualificazione edilizia ed ambientale
1. Rispondono alla finalità di cui al presente Capo:

a) la demolizione integrale di opere incongrue o di elementi di degrado nonché di manufatti ricadenti in aree a pericolosità idraulica e geologica, o nelle fasce di rispetto stradale, con ripristino del suolo naturale o seminaturale, fatti salvi eventuali vincoli o autorizzazioni;
b) il recupero, la riqualificazione e la destinazione ad ogni tipo di uso compatibile con le caratteristiche urbanistiche ed ambientali del patrimonio edilizio esistente, mediante il miglioramento della qualità edilizia in relazione a tutti o ad una parte rilevante dei parametri seguenti: qualità architettonica e paesaggistica; qualità delle caratteristiche costruttive, dell’impiantistica e della tecnologia; efficientamento energetico e riduzione dell’inquinamento atmosferico; eliminazione o riduzione delle barriere architettoniche; incremento della sicurezza sotto il profilo, statico e antisismico, idraulico e geologico, garantendo nella trasformazione dell’area l’invarianza idraulica e valutando, ove necessario, il potenziamento idraulico.

2. Fermo restando il rispetto del dimensionamento del piano di assetto del territorio (PAT), il piano degli interventi (PI) di cui all’articolo 12, comma 3, della legge regionale 23 aprile 2004, n. 11, definisce le misure e gli interventi finalizzati al ripristino, al recupero e alla riqualificazione nelle aree occupate dalle opere di cui al comma 1 e prevede misure di agevolazione che possono comprendere il riconoscimento di crediti edilizi per il recupero di potenzialità edificatoria negli ambiti di urbanizzazione consolidata, premialità in termini volumetrici o di superficie e la riduzione del contributo di costruzione. Le demolizioni devono precedere l’eventuale delocalizzazione delle relative volumetrie in area o aree diverse, salvo eccezioni motivate e prestazione di adeguate garanzie.
3. Il suolo ripristinato all’uso naturale o seminaturale, con utilizzazione delle agevolazioni di cui al comma 2, è assoggettato ad un vincolo di non edificazione, trascritto presso la conservatoria dei registri immobiliari a cura e spese del beneficiario delle agevolazioni; il vincolo permane fino all’approvazione di una specifica variante allo strumento urbanistico che non può essere adottata prima di dieci anni dalla trascrizione del vincolo.

Sommario: 1. Premessa: un cambio di prospettiva2. Interventi di demolizione3. Interventi di recupero e riqualificazione4. Le direttive per la disciplina degli interventi5. Gli indirizzi regolativi6. Gli indirizzi sulle misure di incentivazione7. I meccanismi premiali8. Il ruolo del Comune9. Vincoli e garanzie.

1. Premessa: un cambio di prospettiva

Tradizionalmente, nel mondo dell’urbanistica è sempre stato valido il principio secondo cui “nulla si distrugge”: tanto le volumetrie esistenti quanto gli indici assegnati sono stati valutati sic et simpliciter come un elemento idoneo a rappresentare – sempre ed automaticamente – un valore economico in sé, da difendere nella sua consistenza e, se possibile, da aumentare nella sua misura.

Ma il mondo è cambiato: e questo tipo di impostazione “classica”, negli ultimi anni, ha dovuto cedere il passo sotto i colpi combinati della crisi economica mondiale e, più in particolare, di quella del settore immobiliare, che ha colpito con grande incisività il territorio veneto, a fronte di un evidente eccesso di offerta[1].

Fenomeni come quello delle “varianti verdi[2]”, anche solo pochi anni fa, erano impensabili: ed è sempre meno raro assistere alla demolizione di edifici esistenti per far posto, ad esempio, a coltivazioni di pregio. Si tratta davvero di un cambio epocale, che può e deve portare ad un’inversione di rotta tanto da parte pubblica, nel governo del territorio, quanto da parte dei singoli, nell’impostazione mentale.

Nel contesto attuale, la demolizione senza ricostruzione di manufatti esistenti non deve dunque più considerarsi alla stregua di una perdita “secca” di valore economico: in molti casi oggi un intervento di “pulizia” del territorio può avere positivi effetti economici.

Mentre un edificio dismesso o in condizioni di degrado rappresenta un costo certo sia in termini fiscali che in termini di mantenimento (oltre che un’immobilizzazione di capitali non facilmente reversibile sul mercato attuale) la sua demolizione per realizzare un’area verde determinerà, per converso, un sensibile aumento del pregio, e dunque del valore, degli edifici circostanti, specie laddove ci si trovi in un contesto abitativo di particolare densità[3]. Allo stesso modo, un vecchio capannone abbandonato in zona agricola, magari lungo un fiume e nei pressi di un percorso ciclabile, oggi non rappresenta in sé un valore, ma solo un costo: la sua integrale demolizione, con la possibilità di realizzare in sua sostituzione un piccolo chiosco-bar, magari con annessa officina per biciclette, può invece rivelarsi ben più conveniente sul piano economico e ben più rilevante per l’interesse della collettività (oltre che contribuire ad un innalzamento generale della qualità dell’ambiente).

La norma in esame si inserisce in questo trend ed è finalizzata proprio a consentire una più efficace gestione di problematiche analoghe a quelle descritte, fornendo strumenti più adeguati e direttive più incisive nel confronto con le nuove questioni poste dalla realtà economica ed ambientale.

Si badi bene: non si tratta di strumenti nuovi: quanto alle demolizioni, la legge urbanistica veneta già nel 2004, in modo davvero lungimirante, consentiva, con l’introduzione del credito edilizio, interventi non dissimili da quelli auspicati dalle nuove norme. Quanto agli incentivi al recupero ed alla riqualificazione, invece, alcuni degli strumenti proposti dall’articolo 5 in esame trovano un precedente nella legislazione eccezionale del cosiddetto “Piano Casa”.

La novità della norma, in questa prospettiva, sta in un rilancio ed in una riorganizzazione di questi strumenti che si rendono oggi più che mai necessari, a fronte della “scomparsa” dell’interesse (economico) a nuove espansioni e dell’avanzare della sensibilità (culturale) per il riuso dell’esistente e la tutela delle risorse non rinnovabili (quale è il suolo[4]).

Con la norma in esame, dunque, si intende perfezionare, coordinare e dare nuovo vigore ad alcuni strumenti giuridici che – già presenti in gran parte nell’ordinamento – vengono ora combinati tra loro per essere estesi a nuovi ambiti, dotati di maggiore flessibilità ed infine collocati in un contesto di obiettivi e direttive che ne possa consentire la più ampia, incisiva e coerente applicazione.

2. Interventi di demolizione

Al primo comma dell’articolo in commento il Legislatore regionale ha voluto cristallizzare in modo chiaro ed inequivoco le finalità cui devono tendere gli interventi di riqualificazione edilizia ed ambientale.

Obiettivo prioritario di questi interventi è incentivare il ripristino di “suolo naturale o seminaturale” mediante la demolizione integrale di opere incongrue o elementi di degrado ovvero dei manufatti ricadenti in zone sensibili, come le aree di pericolosità idraulica e geologica o le fasce di rispetto.

Per “superficie naturale o seminaturale” si intendono[5]tutte le superfici non impermeabilizzate, comprese quelle situate all’interno degli ambiti di urbanizzazione consolidata e utilizzate, o destinate a verde pubblico o ad uso pubblico, quelle costituenti continuità ambientale, ecologica e naturalistica con le superficie esterne della medesima natura, nonché quelle destinate all’attività agricolo” (cfr. lett. a), art. 2, co. 1).

Emerge dunque chiaramente l’obiettivo perseguito dalla “nuova” legge regionale con l’introduzione degli interventi di riqualificazione edilizia ed ambientale: incentivare il ripristino di “superfici naturali o seminaturali” (ossia, le superfici non impermeabilizzate) anche (e soprattutto) all’interno degli ambiti di urbanizzazione consolidata (ossia all’interno delle aree già edificate), così da consentire la realizzazione di spazi verdi attrezzati all’interno delle città.

La norma fa espresso riferimento agli interventi di “demolizione integrale”. Devono pertanto ritenersi esclusi gli interventi di “demolizione parziale” delle singole opere incongrue o elementi di degrado ovvero dei manufatti che insistono sulle aree sensibili, salva ovviamente la possibilità di riferire comunque la demolizione “integrale” a singoli elementi o unità funzionalmente autonomi nel contesto di più ampi compendi immobiliari. Ovviamente sarà il Piano degli Interventi (cfr. amplius infra) ad individuare i manufatti da demolire nell’ambito degli interventi di riqualificazione edilizia ed ambientale.

Ai fini dell’applicabilità della legge in commento, per “opere incongrue ed elementi di degrado” si intendono quegli edifici ed altri manufatti che, per caratteristiche localizzative, morfologiche, strutturali, funzionali, volumetriche od estetiche, costituiscono elementi non congruenti con il contesto paesaggistico, ambientale od urbanistico o sotto il profilo igienico-sanitario e della sicurezza (cfr. lett. f), art. 2, co. 1). La valutazione di “congruenza” non viene dunque limitata ai soli parametri urbanistici (quale, ad esempio, la compatibilità con le destinazioni d’uso ammesse dello strumento urbanistico generale), dovendo, al contrario, spingersi sino all’esame dei valori paesaggistici e/o ambientali propri dalla zona di riferimento, senza trascurare i profili igienico-sanitari e di sicurezza[6].

La legge in commento non definisce le “aree a pericolosità idraulica e geologica”. Sembrerebbe pertanto necessario rinviare alle disposizioni dei Piani di Assetto Idrogeologico (PAI)[7], che definiscono ed individuano puntualmente le aree a pericolosità idraulica e geologica nonché, ove previsto, ai Piani di Assetto del Territorio (PAT), i quali, infatti, contengono una specifica disciplina normativa in ordine alle invarianti di natura geologica, geomorfologica e idrogeologica (cfr. art. 13, co. 1, lett. b), l.r. n. 11/2004). Deve tuttavia rilevarsi che l’art. 3, co. 3, della legge in commento demanda agli strumenti di pianificazione il compito di “individuare le parti di territorio a pericolosità idraulica e geologica” (cfr. lett. d). Ai fini dell’applicazione di questa norma, sarà quindi necessario che i singoli Comuni, ove non vi abbiano già provveduto, individuino le “aree a pericolosità idraulica e geologica”, coerentemente con gli indirizzi dei PAI ed eventualmente dei PAT.

Si segnala che il Legislatore veneto già con la l.r. n. 32/2013 (cd. “Terzo Piano Casa”)[8] aveva cercato di incentivare la demolizione integrale dei manufatti che insistono in aree dichiarate ad “alta pericolosità idraulica o idrogeologica” e la loro ricostruzione in aree dichiarate di non “pericolosità idraulica o idrogeologica”[9], attribuendo all’uopo ulteriori bonus volumetrici. Questa disposizione è tuttora vigente: appare dunque evidente che il Comune (nelle aree ad alta pericolosità) dovrà prevedere incentivi maggiori rispetto a quelli previsti dal “Piano Casa” – almeno fino alla perdurante validità della legislazione eccezionale – coordinando le misure previste dal Piano degli Interventi con quelle proposte dal “Piano Casa”.

Per quanto riguarda le “fasce di rispetto” è sufficiente ricordare che esse sono definite e regolate da specifiche disposizioni normative finalizzate alla tutela di particolari beni, infrastrutture e servizi (cfr. art. 41 l.r. n. 11/2004). Tra le più significative “fasce di rispetto” possono annoverarsi quelle volte alla tutela del demanio stradale, alla tutela del demanio marittimo, alla tutela del demanio idrico, alla tutela del demanio militare, alla tutela dei cimiteri, etc.

In senso opposto, si segnala la recente l.r. n. 30/2016 (cd. “Collegato alla legge di stabilità regionale 2017”), la quale all’art. 63[10] ha previsto la possibilità per i Piani degli Interventi di consentire ampliamenti dei fabbricati residenziali esistenti nelle fasce di rispetto delle strade. Al Piano degli Interventi è dunque rimessa la scelta urbanistica se consentire eventuali ulteriori ampliamenti in fascia di rispetto stradale ovvero – attraverso interventi di riqualificazione edilizia ed ambientale – incentivare lo spostamento di questi manufatti mediante la loro demolizione integrale.

3. Interventi di recupero e riqualificazione

Ulteriore obiettivo prioritario della legge è quello di “recuperare”, “riqualificare” e “rifunzionalizzare” il patrimonio immobiliare esistente attraverso interventi che possano assicurare l’effettivo “miglioramento della qualità edilizia”.

La norma in commento precisa altresì che il “miglioramento della qualità edilizia” deve essere valutato in relazione “a tutti o ad una parte rilevante” di alcuni parametri tassativamente previsti dalla stessa disposizione.

Si tratta, in particolare: (i) della qualità architettonica e paesaggistica; (ii) della qualità delle caratteristiche costruttive, dell’impiantistica e della tecnologia; (iii) dell’efficientamento energetico e riduzione dell’inquinamento atmosferico; (iv) dell’eliminazione delle barriere architettoniche; (v) dell’incremento della sicurezza sotto il profilo statico e antisismico, idraulico e geologico, garantendo nella trasformazione dell’ara l’invarianza idraulica e valutando, ove necessario, il potenziamento idraulico.

L’esame della qualità architettonica e paesaggistica riguarda essenzialmente il profilo architettonico del progetto presentato ed il suo inserimento nel paesaggio circostante. È dunque richiesta una valutazione complessa, che tenga conto sia dei profili strettamente edilizi-architettonici che dei profili propriamente paesaggistici, al fine di assicurare l’armonica integrazione con l’ambiente circostante. Questa valutazione ha evidentemente natura discrezionale, ma non potrà sfociare in valutazioni soggettive o addirittura arbitrarie. Dovrà sempre tenere in debita considerazione la situazione di fatto esistente, il grado di compromissione del contesto, l’ubicazione dell’area interessata dal progetto, l’inserimento del progetto nell’ambiente circostante etc., con particolare attenzione al paesaggio ed al miglioramento complessivo generato dall’approvazione dal progetto.

L’esame della qualità delle caratteristiche costruttive, dell’impiantistica e della tecnologia nonché dell’efficientamento energetico e riduzione dell’inquinamento atmosferico dovrà invece essere effettuata sulla base delle specifiche tecniche contenute nelle norme di settore (NTC 2008, d.m. 37/2008, d.lgs. n. 192/2005, d.P.R. 59/2009, l.r. n. 4/2007, etc.). Una migliore qualità edilizia sarà garantita, ad esempio, dall’utilizzo di impianti tecnologici volti ad assicurare una maggiore coibentazione dei fabbricati, dall’adozione di sistemi di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili in misura superiore a quella prescritta per legge, nonché dall’utilizzo di tecniche costruttive di “edilizia sostenibile” etc.

Ulteriore parametro previsto è quello relativo all’eliminazione delle barriere architettoniche. In precedenza, già la l.r. n. 16/2007[11] e la l.r. n. 32/2013 (cd. “Terzo Piano Casa”)[12] avevano cercato di favorire l’eliminazione delle barriere architettoniche attraverso l’introduzione di misure premiali e semplificazione; ora la “nuova” legge regionale pone l’eliminazione delle barriere architettoniche quale presupposto oggettivo per valutare il “miglioramento della qualità edilizia” degli interventi di riqualificazione.

L’ultimo parametro ha ad oggetto il miglioramento apportato sotto il profilo della maggiore sicurezza statica, delle migliori misure antisismiche[13]. nonché della maggiore sicurezza idraulica e geologica[14]. Questo parametro ha dunque ad oggetto il differenziale tra la situazione esistente e la situazione progettata, al fine di poter verificare l’effettivo miglioramento complessivo delle strutture sotto i predetti profili.

Il progetto deve inoltre garantire l’invarianza idraulica, ossia non deve provocare un aggravio alla portata di piena del corpo idrico riceventi e i deflussi superficiali derivati dall’area interessata dal progetto (cfr. lett. m) art. 2, co. 1). Al progetto sarà quindi necessario allegare una puntuale Valutazione di Compatibilità Idraulica[15].

In ogni caso, sarà positivamente valutata l’adozione di eventuali misure di “potenziamento idraulico”, ossia misure volte ad effettuare tutti gli interventi preventivi sui corpi idrici superficiali indirizzati alla protezione dell’ambiente e delle persone in ragione dei radicali cambiamenti climatici (cfr. lett. n) art. 2, co. 1). Tra queste, potranno annoverarsi gli interventi di pulizia degli alvei e delle sponde dei corpi idrici limitrofi alle aree di intervento.

Sotto un profilo procedimentale, la valutazione del “miglioramento della qualità edilizia” sarà verosimilmente svolta nel corso del procedimento di rilascio del titolo edilizio, considerato che presuppone l’esame del progetto architettonico definitivo, comprensivo di tutta la documentazione afferente gli impianti tecnologici adottati nel progetto. Questa valutazione è quindi rimessa agli Uffici tecnici comunali, i quali dovranno valutare se il progetto presentato sia conforme e coerente con gli indirizzi prescritti dalla variante al Piano degli Interventi di cui al secondo comma (cfr. infra).

Ovviamente, nell’ambito del contraddittorio procedimentale, l’Amministrazione dovrà e potrà interloquire con il proponente ed il tecnico incaricato al fine di meglio adeguare la progettazione del singolo intervento agli indirizzi dati dalla presente legge e dalle norme attuative inserite nello strumento urbanistico comunale.

4. Le direttive per la disciplina degli interventi

Il secondo comma dell’articolo in commento affida al Piano degli Interventi il compito di provvedere alla disciplina operativa degli interventi indicati e definiti dal primo comma della norma. A tal fine, gli indirizzi dati al pianificatore comunale sono di due tipi.

Il primo, più classico, è quello “regolativo” e si riferisce alla necessità di precisare la disciplina degli interventi proposti, dando quindi “corpo”, definizione e disciplina a tutti quegli elementi cui la norma in esame si limita a fare un riferimento più generico.

Il secondo tipo di direttiva è invece quella “premiale” e propone (rectius, impone) l’utilizzo di misure incentivanti finalizzate a rendere meno onerosi o più convenienti gli interventi la cui realizzazione è prevista ed auspicata.

5. Gli indirizzi regolativi

Sotto il profilo regolativo, se lo spazio dato allo strumento urbanistico è più limitato rispetto agli interventi di demolizione previsti dalla lettera a) del primo comma (la cui definizione è data già dalla legge con sufficiente grado di precisione), non altrettanto può dirsi degli interventi di recupero/riqualificazione/destinazione del patrimonio edilizio esistente di cui alla successiva lettera b).

In tale secondo caso, infatti, sembrerebbe spettare al pianificatore comunale indicare quali parametri, tra i vari indicati dalla norma, debbano ritenersi rilevanti al fine di valutare il “miglioramento della qualità edilizia” dell’immobile o degli immobili oggetto di intervento. Ciò a maggior ragione, se si considera che – a fronte dell’ampio bouquet di parametri forniti dalla norma – non sempre (nello specifico intervento o contesto territoriale) tutti i criteri possono effettivamente rilevare nella valutazione del miglioramento di qualità del costruito.

Si pensi ad un manufatto che sia stato oggetto di un recente intervento di rifacimento totale degli impianti con inserzione di sistemi di sfruttamento di energie rinnovabili e conseguente acquisizione della massima classe energetica: nella eventuale valutazione dell’intervento di recupero non sarà certo il parametro della qualità dell’impiantistica e dell’efficientamento energetico a venire in rilievo. Se tuttavia quello stesso immobile presenta scarsissima qualità architettonica ed è posizionato in un contesto di pregio paesaggistico, sarà invece il parametro del miglioramento di tali caratteristiche quello su cui si dovrà e potrà “far leva” per progettare e valutare il miglioramento della qualità edilizia.

Proprio per fare fronte in modo adeguato ed efficace a questo tipo di casistica – potenzialmente infinita nel numero e modalità di combinazione tra i parametri di volta in volta rilevanti – il Legislatore ha ritenuto opportuno prevedere una certa flessibilità nell’applicazione dei criteri di valutazione degli interventi, affidando le scelte operative al pianificatore comunale, che meglio di chiunque conosce il proprio territorio e le specifiche problematiche che esso pone.

La norma non precisa con quali modalità tale flessibilità dovrà essere applicata in seno allo strumento urbanistico: spetterà dunque a ciascun pianificatore declinare come meglio ritenuto opportuno tale disciplina. In prima battuta, è possibile immaginare un approccio “generale” che identifichi delle regole valide per tutto il territorio comunale o – più probabilmente – per specifici, ma comunque ampi, ambiti territoriali omogenei, rimandando alla sede edilizia/autorizzativa ogni verifica di rispondenza ai criteri di miglioramento della qualità del costruito.

In alternativa, è ben possibile – sebbene più gravoso, per il pianificatore – procedere in via “atomistica”, di fatto “schedando” i singoli immobili o insiemi di immobili[16] (per intendersi, come è d’uso per i centri storici o per le attività in zona impropria) e dunque individuando già in sede urbanistica quali siano i criteri di valutazione cui far di volta in volta riferimento nella progettazione del miglioramento della qualità architettonica. Non è neppure esclusa la possibilità di operare con modalità “ibrida”, riservando la “schedatura” solo ad interventi di impatto o importanza maggiore, nel contesto di una normativa generalmente applicabile a tutti gli interventi di demolizione o recupero.

6. Indirizzi sulle misure di incentivazione

Quale che sia la disciplina regolativa che ciascun Comune deciderà di introdurre, in connessione ad essa il pianificatore dovrà comunque prevedere delle forme di incentivazione degli interventi, così da dare attuazione alla seconda “direttiva” data dal Legislatore al secondo comma dell’articolo 5, ovvero quella della premialità.

Alla base di questo indirizzo sta l’evidente consapevolezza dei risultati positivi sin qui raggiunti – in termini di riqualificazione del patrimonio edilizio esistente – da politiche “attive” di governo del territorio che non si limitano a fornire una mera disciplina degli interventi (sperando poi, per la loro attuazione, nella buona volontà di chi vi ha interesse) ma che intervengono anche al fine di agevolare la realizzazione degli interventi auspicata, operando così – in coerenza con i modelli comunitari – una convergenza tra buone pratiche e convenienza.

In tal senso, il pianificatore comunale viene spinto non tanto ad imporre la scelta del recupero (obbligo che spesso, a fronte di oneri rilevanti, rimane solo sulla carta, con il risultato che l’edificio non viene affatto recuperato ma rimane in stato di degrado) quanto ad incentivare tale opzione garantendo una serie di agevolazioni sostanziali. Il Legislatore ne indica alcune: il riconoscimento di crediti edilizi da “reimpiegare” in ambiti urbanizzati, premialità volumetriche, la riduzione del contributo di costruzione.

Si tratta, come si è già detto, di strumenti già presenti nell’ordinamento: nella legislazione regionale ordinaria (si pensi al credito edilizio, già previsto dall’art. 36 l.r. n. 11/2004[17] anche in relazione ad interventi di demolizione e/o riqualificazione), nella normativa statale[18] nonché in quella eccezionale tanto di fonte statale[19] quanto di fonte regionale (come ad esempio gli ampliamenti volumetrici e le agevolazioni sui contributi previsti dalla l.r. n. 14/2009 ed ora dalla l.r. n. 14/2019).

Tale elencazione, tuttavia, non è da considerarsi tassativa. Le misure di agevolazione che spetta al pianificatore comunale individuare, infatti, “possono comprendere” quelle elencate dalla norma, ma possono altresì consistere in altri e diversi strumenti incentivanti, anche in tal caso “ritagliati su misura” a seconda delle esigenze e particolarità dei casi.

Qui, tanto nella disciplina dei meccanismi di incentivazione (quale incentivo applicare al singolo intervento? In quale rapporto deve stare lo specifico incentivo con la demolizione o il miglioramento della qualità edilizia?) quanto nell’individuazione di nuovi e diverse forme di incentivazione all’intervento riemerge lo spazio “regolativo” affidato al pianificatore comunale.

7. I meccanismi premiali

Quanto ai meccanismi di funzionamento delle misure di agevolazione, infatti, ampio è lo spazio per agire in sede operativa: il medesimo intervento può essere infatti oggetto di diverse misure incentivanti, calibrate – ed eventualmente graduate – a seconda di quali siano le finalità che il pianificatore si prefigge o preferisce. La demolizione di un intero edificio può portare al riconoscimento di un credito edilizio in misura pari o inferiore all’esistente dove l’incongruità del manufatto non sia grave, mentre l’eliminazione di un elemento di degrado nella piazza del paese – ad esempio – può per converso giustificare un “tasso di conversione” in crediti edilizi di maggior convenienza.

Allo stesso modo, si può prevedere che un intervento di recupero che porti al mero efficientamento energetico di un determinato edificio consegua il riconoscimento di qualche beneficio economico o di un ampliamento minimo, mentre la sua riqualificazione architettonica possa invece consentire anche un aumento volumetrico più consistente o (ove il bene presenti un pregio che non consente modifiche volumetriche incisive) il riconoscimento di un credito edilizio. Non è detto che i meccanismi di incentivazione debbano per forza ed in ogni caso riferirsi al singolo intervento: è ovviamente possibile procedere in via generale, ipotizzando ad esempio la possibilità di ampliare – in via generalizzata ed in una certa misura, eventualmente graduale – ogni immobile che sia sottoposto ad interventi tali da garantire il raggiungimento di una classe energetica superiore. Anche in tal caso, insomma, la casistica può essere sterminata, e spetta al pianificatore comunale disciplinarla.

Non minore attenzione va poi data all’individuazione di nuove ed originali forme incentivanti, diverse da quelle già proposte dalla norma. Anche qui la possibilità (o la necessità) di innovare può rinvenirsi ponendo mente al singolo caso. Si pensi al cambio di destinazione d’uso, alla possibilità di una totale traslazione, senz’alcun vincolo di sedime, del volume esistente all’interno del lotto o, ove ne sussistano i presupposti, al declassamento del grado di protezione vigente sull’immobile[20]. Ancora, si può immaginare di connettere la demolizione di un manufatto con la possibilità di riuso e gestione dell’area verde ricavata per finalità private di rilievo collettivo (si pensi all’apertura di locali pubblici o di ristorazione) o alla permuta delle aree ove avviene la demolizione con altre aree, di proprietà comunale, site in ambito consolidato.

8. Il ruolo del Comune

Lo spazio dato al pianificatore comunale dalla legge, insomma, appare ampio; è uno spazio di libertà ma, ovviamente, anche di responsabilità: è solo se lo strumento urbanistico riuscirà a “mescolare” in modo sapiente regole ed incentivi, cercando di adeguare le scelte “a misura” di ogni intervento, si otterrà l’esito auspicato dalla legge.

In questo spazio di regolazione ed incentivazione, si profila una nuova centralità per il ruolo del Comune. Come è noto, è stata proprio l’impossibilità di valutare “caso per caso” ogni situazione che ha spinto il Legislatore a non estendere la possibilità di applicare il “Piano Casa” né nei centri storici, dove vi fossero gradi di protezione di un certo rilievo, né nelle zone improprie.

Questa scelta nasceva dalla consapevolezza che più delicato e sensibile è il contesto, o l’immobile, su cui si interviene, più diviene importante la valutazione in dettaglio delle possibilità e limiti del suo recupero: ciò che certo non si poteva fare con un provvedimento di rango legislativo astratto e generale. Non potendo controllarne in dettaglio l’esito, giustamente si è deciso in quella sede di “non rischiare” di operare – con forme di incentivazione “standardizzata” – anche in relazione al recupero del patrimonio edilizio più vulnerabile o sito in contesti delicati.

Per l’effetto, molti immobili che necessiterebbero di interventi di demolizione o recupero e riqualificazione da tutti auspicati ancor oggi restano in condizioni di degrado. In questa prospettiva, l’articolo 5 oggi consente di operare anche su questi immobili, affidando però l’individuazione delle modalità di intervento e di agevolazione al Comune. Si restituisce così all’ente locale, in un certo senso, un ruolo attivo nell’azione di recupero e riqualificazione del patrimonio edilizio esistente avviata dal “Piano Casa”, ponendo il pianificatore comunale al centro della disciplina degli interventi che risultano più delicati, rimasti estranei, negli anni scorsi, agli interventi legislativi a regime eccezionale.

9. Vincoli e garanzie

L’ultima parte del secondo comma dell’articolo, unitamente al comma terzo, sono infine dedicati alla tutela della finalità di “pulizia” del territorio e si riferiscono essenzialmente all’intervento previsto dal comma 1, lett. a) dell’articolo 5 (la cd. “demolizione integrale”).

Si tratta di “garanzie” che rendono più difficoltoso l’eventuale tentativo di eludere la normativa, mantenendo in essere il volume che si dovrebbe demolire o ricostruendo nuovi volumi sulle aree “liberate” in forza della demolizione.

Si tratta di due diversi strumenti: il primo attiene alle modalità dell’intervento di demolizione, che deve avvenire prima dell’eventuale ricostruzione delle volumetrie in altro luogo. La prescrizione tende ad impedire il fenomeno (in passato verificatosi ad esempio con riferimento alla demolizione e ricostruzione in zona agricola di volumi siti in fascia di rispetto, ammessa in forza della l. n. 24/1985) che vedeva l’edificazione di un nuovo immobile (che avrebbe dovuto sostituire il “vecchio”), senza poi – a seguire – la demolizione della preesistenza, con il risultato di rendere illegittimo il nuovo fabbricato.

È ben possibile, in caso di necessità (si pensi alla circostanza in cui la casa da demolire sia l’unica abitazione familiare) demolire dopo la traslazione e ricostruzione dei volumi: ma in tal caso sarà necessario disporre di garanzie fideiussorie che – ove il privato non ottemperi all’impegno relativo alla demolizione – diano al Comune la possibilità ed i mezzi per intervenire in via sostitutiva.

Il secondo strumento è invece rappresentato da un vincolo urbanistico di non edificazione che si impone, a cura e spese dell’interessato, sulle aree oggetto dell’intervento di demolizione. Il vincolo garantisce il mantenimento dell’area “libera” per un decennio almeno: non solo nei confronti delle iniziative private, ma anche nei confronti dell’Amministrazione, che – per un certo tempo – non può comunque consentire l’edificazione delle aree.

Non solo: la norma è altresì finalizzata a dare tutela ai terzi, i quali – a qualche anno di distanza – potrebbero acquistare il bene nell’ignoranza della sua “speciale” condizione giuridica di inedificabilità, la quale non è detto emerga dalla semplice consultazione dello strumento urbanistico o dal rilascio del certificato di destinazione urbanistica. La trascrizione del vincolo, in tal senso, garantisce che sul punto non possa esservi incertezza alcuna[21].

 

[1] A titolo esemplificativo, si pensi che in Provincia di Treviso le aree residenziali previste negli strumenti urbanistici nel 2003 erano già sufficienti a garantire la domanda attesa sino al 2020, cfr. PTCP di Treviso, Relazione di Piano, pg. 78. Nella prospettiva del mercato immobiliare, invero, da alcuni anni si registrano segnali di ripresa: in questo senso, si veda il quadro generale aggiornato su scala nazionale e regionale al maggio 2017 dall’Agenzia dell’Entrate disponibile su http://www.agenziaentrate.gov.it/wps/file/Nsilib/Nsi/Documentazione/omi/Pubblicazioni/Rapporti+immobiliari+residenziali/rapporto+immobiliare2017/RI_2017_QuadroGenerale_15052017.pdf. Si tratta in effetti di un’inversione graduale di marcia – confermata anche dai dati Istat – che, tuttavia, non ha ancora consentito di raggiungere in generale i volumi d’affari consolidati nella prima metà degli anni 2000: ciò vale soprattutto per i piccoli Comuni, il cui trend di ripresa appare ancora debole, sia rispetto ai capoluoghi sia in relazione ai dati pre-crisi.

[2] Le cd. “varianti verdi” sono state introdotte dall’art. 7 della l.r. n. 4/2015. Esse consistono nella riclassificazione delle aree da “edificabili” a “verde”, con conseguente azzeramento della potenzialità edificatoria riconosciuta loro dal vigente strumento urbanistico comunale”. L’utilizzo del termine “verde” suggerisce di riclassificare le aree edificabili come “aree agricole” o “aree a verde privato”, fermo restando la facoltà dei Comuni dotati di Piano di Assetto del Territorio di ricorrere alle classificazioni urbanistiche previste dai rispettivi piani urbanistici (cfr. Circolare cd. “varianti verdi”, approvata con d.G.R. n. 99 del 2.02.2016).

Questa disposizione sta avendo molto successo in Veneto: invero, molti cittadini ed imprese hanno richiesto ai Comuni, conformemente alle previsioni contenute all’art. 7 l.r. n. 4/2015, la riclassificazione delle loro aree edificabili “a verde”, eliminando così la capacità edificatoria attribuita dai vigenti strumenti urbanistici.

[3] In un recentissimo studio edito dalla LIPU – sulla base di precisi riferimenti alla letteratura di settore – si sottolinea che la presenza di importanti spazi verdi in città non determina solo più ovvi benefici in termini ambientali (riduzione dell’inquinamento atmosferico, miglioramento del clima e riduzione dei gas climalteranti, attenuazione dei rumori, protezione idrogeologica) ma comporta altresì un indubbio incremento di valore immobiliare per gli edifici residenziali vicini: “aumenti di valore del 10% sono considerati canonici dalla letteratura (…) in una zona alberata e attraente gli edifici possono essere valutati il 3-12% in più rispetto alle zone prive di alberi e più degradate” (cfr. Dinetti M. 2017. Il verde e gli alberi in città. Documenti Lipu per la Conservazione della Natura n. 2, pg. 18 ss.).

[4] Invero, già la Carta Europea del Suolo (Consiglio d’Europa 1972), definiva il suolo come “..uno dei beni più preziosi dell’umanità” (art. 1), precisando altresì che “il suolo è una risorsa limitata che si distrugge facilmente” (art. 2). Più recentemente, la Strategia tematica per la protezione del suolo del 20106 ha definito il suolo come lo “strato superiore della crosta terrestre”, evidenziando che si “(..) tratta di un sistema estremamente dinamico che svolge numerose funzioni e un ruolo fondamentale per l’attività umana e la sopravvivenza degli ecosistemi. Il processo di formazione e rigenerazione del suolo è molto lento e per questo motivo il suolo è una risorsa essenzialmente non rinnovabile” (cfr. http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=URISERV%3Al28181). Il Parlamento Europeo, inoltre, con l’approvazione del Settimo Programma di Azione Ambientale del 2013 (cfr. http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=CELEX%3A32013D1386#ntr21-L_2013354IT.01017101-E0021), ha fissato le priorità dell’Unione in tale ambito, tra cui “realizzare l’obiettivo di un mondo esente dal degrado del suolo nel contesto dello sviluppo sostenibile” (cfr. considerando n. 19), conformemente alla Risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite A/Res/66/288 del 27 luglio 2012 sui risultati della conferenza Rio + 20 dal titolo «The Future We Want» (Il futuro che vogliamo).

[5] Per un esame più esaustivo, si rinvia al commento dell’art. 2 sulle “definizioni” contenute nella l.r. n. 14/2017.

[6] In tal senso, va ricordato che la categoria del “degrado” in senso edilizio ha assunto nel tempo un’accezione sempre più ampia, tale da annoverare nella casistica profili e caratteristiche che un tempo si consideravano minori o comunque non rilevanti: al contrario, “l’insussistenza di problemi di dissesto e della non necessità di interventi di tipo strutturale, non escludono lo stato di abbandono e degrado consistente nella mancanza di intonaco esterno ed interno, avanzato degrado degli infissi in legno, copertura mancante di strato impermeabile e di un sistema di convogliamento delle acque che giustificano l’inserimento nella attività di recupero” (cfr. C.G.A.S., 18 febbraio 2016, n. 48).

[7] I PAI sono i Piani a scala di bacino idrografico, originariamente previsti dalla legge quadro sulla difesa del suolo n. 183 del 18 maggio 1989 (poi confluita nella legislazione emergenziale di cui al d.l. 180/1998 e al d.l. 279/2000 e relative leggi di conversione, ed ora confluita nel d.lgs. n. 152/2006 e s.m.i., cd. “Codice dell’Ambiente”), che contengono indicazioni precise e dettagliate in ordine alle condizioni di pericolosità idrogeologica del territorio, la perimetrazione delle aree da sottoporre a misure di salvaguardia e la determinazione delle misure stesse.

[8] La l.r. n. 32/2013 ha introdotto l’art. 3-quater alla l.r. n. 14/2009 (cd. “Piano Casa”), il quale prevede che “per gli edifici ricadenti nelle aree dichiarate ad alta pericolosità idraulica o idrogeologica è consentita l’integrale demolizione e la successiva ricostruzione in zona territoriale omogenea propria non dichiarata di pericolosità idraulica o idrogeologica, anche in deroga ai parametri dello strumento urbanistico comunale, con un incremento fino al 50 per cento del volume o della superficie”.

[9] Si noti bene che il Piano Casa fa riferimento alle aree dichiarate di “alta pericolosità idraulica o idrogeologica”. Il Piano Casa, dunque, si riferisce alle sole aree identificate dal PAI come di “alta pericolosità”. Diversamente, la legge regionale in commento si riferisce più genericamente a tutte le aree “a pericolosità idraulica e geologica”. Le prime, dunque, dovrebbero essere ricomprese nelle seconde, ma non viceversa.

[10] L’art. 63, co. 5, l.r. n. 30/2016 ha introdotto il comma 4-ter alla l.r. n. 11/2004, secondo cui: “Il piano degli interventi può altresì consentire, attraverso specifiche schede di intervento, gli ampliamenti dei fabbricati residenziali esistenti nelle fasce di rispetto delle strade, in misura non superiore al 20 per cento del volume esistente, necessari per l’adeguamento alle norme igienico-sanitarie, alle norme di sicurezza e alle norme in materia di eliminazione delle barriere architettoniche, purché tali ampliamenti siano realizzati sul lato opposto a quello fronteggiante la strada e a condizione che non comportino, rispetto alla situazione preesistente, pregiudizi maggiori alle esigenze di tutela della sicurezza della circolazione”.

[11] La l.r. n. 16 del 12.07.2007 ha ad oggetto disposizioni generali in materia di eliminazione delle barriere architettoniche e contiene semplificazioni per l’esecuzione di interventi edilizi volti ad eliminare dette barriere architettoniche.

[12] La l.r. n. 32/2013 aveva infatti modificato la l.r. n. 14/2009 (cd. “Piano Casa”) introducendo, tra le finalità della legge, proprio quella di incentivare l’eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici esistenti (cfr. art. 1, co. 1, lett, b). Invero, l’art 11-bis l.r. n. 14/2009 e s.m.i. ha previsto bonus volumetrici aggiuntivi in caso di eliminazione delle barriere architettoniche.

[13] Si segnala che la Legge Finanziaria 2017 (ossia la legge n. 232 del 11.12.2016, pubblicata in G.U. il 21/12/2016) ha prorogato il cosiddetto “Sisma Bonus” sino al 2021. A seconda dell’intervento programmato sono previste detrazioni del 50-70-80% per le case e del 50-75-85% per i condomini. Il 28 febbraio 2017 il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti ha firmato il decreto recante le “Linee Guida” per la classificazione di rischio sismico delle costruzioni nonché le modalità per l’attestazione, da parte di professionisti abilitati, dell’efficacia degli interventi effettuati (d.m. 28.02.2017). Le “Linee Guida” consentono di attribuire ad un edificio una specifica Classe di Rischio Sismico, mediante un unico parametro che tenga conto sia della sicurezza sia degli aspetti economici. Esse, inoltre, forniscono due metodologie per la valutazione, di cui una semplificata per lavori minori e il miglioramento di una sola classe di rischio, l’indirizzo di massima su come progettare interventi di riduzione del rischio per portare la costruzione ad una o più classi superiori. Sono state individuate otto classi di rischio sismico: da A+ (meno rischio), ad A, B, C, D, E, F e G (più rischio). Per attivare i benefici fiscali occorre fare riferimento alla classificazione prevista dalle nuove “Linee Guida”, con le quali si attribuisce ad un edificio una specifica Classe di rischio sismico. Gli interventi previsti dalla norma in commento, dunque, potranno eventualmente giovarsi anche dei benefici fiscali previsti dalla legge statale.

[14] Questi parametri acquisteranno maggior rilievo nel caso in cui l’edificio o gli edifici da sottoporre ad interventi di riqualificazione edilizia ed ambientale ricadano in aree sensibili sotto il profilo idraulico e/o geologico. Si pensi, ad esempio, a quelle aree ubicate in prossimità di fiumi, torrenti o laghi, che – ancorché non classificate “pericolose” – meritano comunque una particolare attenzione.

[15] Al riguardo, si segnalano le “Linee Guida” per la redazione della Valutazione di Incidenza Idraulica (predisposte dal Commissario Delegato concernente gli eccezionali eventi meteorologici del 26 settembre 2007 che hanno colpito parte del territorio della Regione Veneto – O.P.C.M. n. 3261 del 18.10.2007). Si tratta di un documento dedicato agli operatori tecnici del settore per orientare le scelte progettuali di opere che modificano l’uso del suolo o che comportano comunque delle modificazioni dell’idraulica del territorio.

[16] In questa prospettiva, potrà essere utile una sorta di censimento degli immobili da sottoporre ad intervento, da attuare anche mediante formule partecipative: nel 2014, ad esempio,  il Comune di Milano ha avviato la mappatura degli immobili privati inutilizzati e in stato di degrado proprio al fine di adottare gli indirizzi amministrativi per favorire la riqualificazione ed il recupero del tessuto urbano della città esistente (cfr. http://www.comune.milano.it/wps/portal/ist/it/servizi/territorio/Monitoraggio_edifici_aree_stato_di_degrado).

[17] L’art. 36 l.r. n. 11/2004 è in effetti rubricato “Riqualificazione ambientale e credito edilizio” e, nella sua previgente versione già disponeva quanto segue: “1. Il comune nell’ambito del piano di assetto del territorio (PAT) individua le eventuali opere incongrue, gli elementi di degrado, gli interventi di miglioramento della qualità urbana e di riordino della zona agricola definendo gli obiettivi di ripristino e di riqualificazione urbanistica, paesaggistica, architettonica e ambientale del territorio che si intendono realizzare e gli indirizzi e le direttive relativi agli interventi da attuare. 2. Il comune con il piano degli interventi (PI) disciplina gli interventi di trasformazione da realizzare per conseguire gli obiettivi di cui al comma 1. 3. La demolizione delle opere incongrue, l’eliminazione degli elementi di degrado, o la realizzazione degli interventi di miglioramento della qualità urbana, paesaggistica, architettonica e ambientale di cui al comma 1, determinano un credito edilizio. (…)”. Il dispositivo della norma, pur ribadendo le originarie finalità, è stato ora rivisto dalla legge in commento armonizzandone con maggior dettaglio le previsioni in relazione ai contenuti della novella. Per un esame più approfondito si veda infra il commento all’art. 25.

[18] A livello statale, infatti, più recentemente, la legge n. 164 dell’11.11.2014 (cd. “Sblocca Italia” ) ha introdotto il comma 1-bis all’art. 14 del d.P.R. n. 380/2001 (cd. “Testo Unico dell’Edilizia”) prevedendo, in via generale, misure incentivanti per la riqualificazione edilizia di edifici. Il nuovo comma, infatti, prevede che “per gli interventi di ristrutturazione edilizia, attuati anche in aree industriali dismesse, è ammessa la richiesta di permesso di costruire anche in deroga alle destinazioni d’uso, previa deliberazione del Consiglio comunale che ne attesta l’interesse pubblico, a condizione che il mutamento di destinazione d’uso non comporti un aumento della superficie coperta prima dell’intervento di ristrutturazione, fermo restando, nel caso di insediamenti commerciali, quanto disposto dall’articolo 31, comma 2, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, e successive modificazioni”.

Lo stesso “Sblocca Italia” ha altresì introdotto l’art. 3-bis al d.P.R. 380/2001 per favorire la riqualificazione di edifici esistenti non più compatibili con gli indirizzi dei vigenti strumenti urbanistici. In queste ipotesi, infatti, l’amministrazione comunale – dopo aver puntualmente individuato questi edifici nel proprio strumento urbanistico – “(..) può favorire, in alternativa all’espropriazione, la riqualificazione delle aree attraverso forme di compensazione incidenti sull’area interessata e senza aumento della superficie coperta, rispondenti al pubblico interesse e comunque rispettose dell’imparzialità e del buon andamento dell’azione amministrativa”.

[19] Al riguardo, occorre infatti ricordare che già il d.l. n. 70 del 13.05.2011, convertito con modificazioni in legge n. 106 del 12.07.2011 (cd. “Decreto Sviluppo”) aveva previsto misure incentivanti per la riqualificazione del patrimonio edilizio esistente. Invero, l’art. 5, comma 9, stabiliva espressamente che: “al fine di incentivare la razionalizzazione del patrimonio edilizio esistente nonché di promuovere e agevolare la riqualificazione di aree urbane degradate con presenza di funzioni eterogenee e tessuti edilizi disorganici o incompiuti nonché di edifici a destinazione non residenziale dismessi o in via di dismissione ovvero da rilocalizzare, tenuto conto anche della necessità di favorire lo sviluppo dell’efficienza energetica e delle fonti rinnovabili, le Regioni approvano entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto specifiche leggi per incentivare tali azioni anche con interventi di demolizione e ricostruzione che prevedano: a) il riconoscimento di una volumetria aggiuntiva rispetto a quella preesistente come misura premiale; b) la delocalizzazione delle relative volumetrie in area o aree diverse; c) l’ammissibilità delle modifiche di destinazione d’uso, purché si tratti di destinazioni tra loro compatibili o complementari; d) le modifiche della sagoma necessarie per l’armonizzazione architettonica con gli organismi edilizi esistenti”.

[20] Si tratta, ovviamente di valutare di volta in volta quale tipologia di intervento – tra le categorie previste dalla legislazione statale e regionale – si attagli maggiormente al singolo caso, indicando tutta una serie di interventi edilizi che possono dar luogo a una mera “ristrutturazione edilizia” di cui all’art. 3, lett. d), d.P.R. n. 380/2001 finanche ad più ampio e complesso intervento edilizio, assimilabile quindi alla “ristrutturazione urbanistica” di cui all’art. 3, lett. f), d.P.R. n. 380/2001.

[21] Al riguardo, si segnala che l’art. 2645-quater del Codice Civile (inserito, in sede di conversione, dall’art. 6 del d.l. n. 16 del 2 marzo 2012, convertito con modificazioni in legge n. 44 del 26 aprile 2012) prevede espressamente che “si devono trascrivere, se hanno per oggetto beni immobili, gli atti di diritto privato, i contratti e gli altri atti di diritto privato, anche unilaterali, nonché le convenzioni e i contratti con i quali vengono costituiti a favore dello Stato, della regione, degli altri enti pubblici territoriali ovvero di enti svolgenti un servizio di interesse pubblico, vincoli di uso pubblico o comunque ogni altro vincolo a qualsiasi fine richiesto dalle normative statali e regionali, dagli strumenti urbanistici comunali nonché dai conseguenti strumenti di pianificazione territoriale e dalle convenzioni urbanistiche a essi relative”. I predetti vincoli di natura pubblicistica, incidendo sulla proprietà immobiliare, hanno natura di limitazioni del diritto di proprietà e, pertanto, devono essere portati a conoscenza dei terzi, comunque interessati dalla circolazione dei beni.

Commento all’art. 4 l.r. n. 14/2017

di Massimo Foccardi e Fabio Mattiuzzo

Art. 4

Misure di programmazione e di controllo sul contenimento del consumo di suolo

1. Il consumo di suolo è gradualmente ridotto nel corso del tempo ed è soggetto a programmazione regionale e comunale.

2. La Giunta regionale, sentita la competente commissione consiliare, stabilisce entro centottanta giorni dall’entrata in vigore della presente legge:

a) la quantità massima di consumo di suolo ammesso nel territorio regionale nel periodo preso a riferimento, in coerenza con l’obiettivo comunitario di azzerarlo entro il 2050, e la sua ripartizione per ambiti comunali o sovracomunali omogenei, anche sulla base del “Documento per la pianificazione paesaggistica” di cui all’Allegato B3 della deliberazione della Giunta regionale n. 427 del 10 aprile 2013, pubblicata nel Bollettino Ufficiale della Regione del Veneto n. 39 del 3 maggio 2013, tenendo conto, sulla base delle informazioni disponibili in sede regionale e di quelle fornite dai comuni con le modalità e nei termini indicati al comma 5, dei seguenti aspetti:

1) delle specificità territoriali, in particolare di quelle montane, in armonia con quanto previsto dalla legge regionale 8 agosto 2014, n. 25 “Interventi a favore dei territori montani e conferimento di forme e condizioni particolari di autonomia amministrativa, regolamentare e finanziaria alla provincia di Belluno in attuazione dell’articolo 15 dello Statuto del Veneto” e di quelle relative ai comuni ad alta tensione abitativa;

2) delle caratteristiche qualitative, idrauliche e geologiche dei suoli e delle loro funzioni eco-sistemiche;

3) delle produzioni agricole, delle tipicità agroalimentari, dell’estensione e della localizzazione delle aree agricole rispetto alle aree urbane e periurbane;

4) dello stato di fatto della pianificazione territoriale, urbanistica e paesaggistica;

5) dell’esigenza di realizzare infrastrutture e opere pubbliche;

6) dell’estensione del suolo già edificato, della consistenza delle aree e degli edifici dismessi o, comunque, inutilizzati;

7) delle varianti verdi approvate dai comuni ai sensi dell’articolo 7 della legge regionale 16 marzo 2015, n. 4 “Modifiche di leggi regionali e disposizioni in materia di governo del territorio e di aree naturali protette regionali”;

8) degli interventi programmati dai Consorzi di sviluppo di cui all’articolo 36, comma 5 della legge 5 ottobre 1991, n. 317 “Sistemi produttivi locali, distretti industriali e consorzi di sviluppo industriale”;

b) i criteri di individuazione e gli obiettivi di recupero degli ambiti urbani di rigenerazione, nel rispetto delle specifiche finalità di cui all’articolo 2, comma 1, lettera h), nonché gli strumenti e le procedure atti a garantire l’effettiva partecipazione degli abitanti alla progettazione e gestione dei programmi di rigenerazione urbana sostenibile di cui all’articolo 7;

c) le politiche, gli strumenti e le azioni positive per concorrere, in collaborazione con le autonomie locali e gli altri enti pubblici, al conseguimento degli obiettivi di cui all’articolo 3;

d) le regole e le misure applicative ed organizzative per la determinazione, registrazione e circolazione dei crediti edilizi, tenendo conto di quanto previsto dall’articolo 46, comma 1, lettera c), della legge regionale 23 aprile 2004, n. 11, ferma restando la disciplina di cui all’articolo 36 della medesima legge;

e) le procedure di verifica e monitoraggio, avvalendosi dell’attività dell’osservatorio della pianificazione territoriale e urbanistica di cui all’articolo 8 della legge regionale 23 aprile 2004, n. 11;

f) i criteri di individuazione degli interventi pubblici di interesse regionale di cui all’articolo 11 per i quali, mancando alternative alla loro localizzazione negli ambiti di urbanizzazione consolidata, non trovano applicazione le limitazioni di cui al presente Capo, fermo restando il loro assoggettamento ad idonee misure di mitigazione e ad interventi di compensazione ecologica;

g) l’articolazione, l’ambito di intervento, le modalità, i tempi di presentazione, i criteri di selezione delle domande e la relativa modulistica, del fondo regionale di cui all’articolo 10;

h) ogni altra indicazione anche metodologica ritenuta appropriata in funzione degli obiettivi perseguiti dal presente Capo.

3. Il provvedimento di cui al comma 2, lettera a), è adottato dalla Giunta regionale sentito il Consiglio delle autonomie locali (CAL) di cui all’articolo 16 dello Statuto; fino all’istituzione del CAL, tale parere è espresso dalla Conferenza Regione-Autonomie locali di cui all’articolo 12 della legge regionale 3 giugno 1997, n. 20 “Riordino delle funzioni amministrative e principi in materia di attribuzione e di delega agli enti locali”.

4. Il decorso del termine di centottanta giorni di cui al comma 2 è sospeso per l’acquisizione dei pareri della competente commissione consiliare e del CAL di cui al comma 3, entrambi da rendersi entro sessanta giorni dal ricevimento della proposta di provvedimento della Giunta regionale, decorsi i quali si prescinde dai pareri.

5. Le informazioni territoriali che i comuni trasmettono alla Giunta regionale, ai sensi del comma 2, lettera a), sono rese nella scheda informativa di cui all’allegato A, che sarà trasmessa, tramite posta elettronica certificata, entro tre giorni dall’entrata in vigore della presente legge e che i comuni restituiscono alla Giunta regionale entro i successivi sessanta giorni; decorso inutilmente tale termine, nei comuni che non hanno provveduto si applicano, fino all’integrazione del suddetto provvedimento della Giunta regionale sulla base dei dati tardivamente trasmessi, le limitazioni previste dall’articolo 13, commi 1, 2, 4, 5 e 6.

6. La Giunta regionale, sulla base dei dati forniti dall’osservatorio della pianificazione territoriale ed urbanistica di cui all’articolo 8 della legge regionale 23 aprile 2004, n. 11, sottopone a revisione almeno quinquennale la quantità massima del consumo di suolo ammesso nel territorio regionale ai sensi del comma 2, lettera a).

7. La Giunta regionale, sentita la competente commissione consiliare, può modificare od integrare la scheda informativa di cui all’allegato A.

Sommario: 1. Osservazioni generali2. I compiti della Giunta regionale3. I compiti dei Comuni4. Considerazioni finali.

1. Osservazioni generali

Con l’articolo 4 il legislatore introduce le misure di programmazione e di controllo delle politiche urbanistiche comunali finalizzate al contenimento del consumo di suolo, affidando alla Giunta regionale importanti ed urgenti compiti gestionali ed attuativi per l’implementazione di tali misure. E per svolgere questa attività nel rispetto dei principi di sussidiarietà e di leale collaborazione, la Giunta regionale ha bisogno del contributo attivo dei Comuni nella definizione del quadro d’insieme, all’interno del quale dovranno essere messe a punto le nuove misure di contenimento.

Entro tre giorni dall’entrata in vigore della legge, la Regione è tenuta a trasmettere – tramite posta elettronica certificata – la scheda informativa che i Comuni sono tenuti a compilare per poter acquisire una parte significativa delle informazioni territoriali necessarie alla Giunta regionale per emanare il provvedimento previsto dall’articolo 4, lettera a).

La completa efficacia della legge è stata infatti subordinata all’adozione del provvedimento attuativo più rilevante – soprattutto dal punto di vista degli effetti “urbanistici” – tra quelli previsti dalle nuove disposizioni, cioè della Deliberazione con la quale la Giunta regionale stabilirà la quantità massima di consumo di suolo ammessa nel territorio regionale e la sua ripartizione per ambiti comunali o sovracomunali omogenei. Nella definizione di questi limiti è ovviamente cruciale poter partire da informazioni il più possibile corrette ed aggiornate e, per questo motivo, è stata ritenuta necessaria l’integrazione delle numerose informazioni già disponibili in sede regionale, con quelle fornite direttamente dai Comuni attraverso la compilazione della scheda informativa.

Il legislatore ha, in questo caso, opportunamente “agganciato” le due componenti conoscitive, quella regionale (co. 2 lett. a) punti da 1 a 8) e quella comunale relativa allo stato di attuazione della pianificazione urbanistica (co. 5), per consentire alla Giunta di provvedere in maniera appropriata ed entro il termine di 180 giorni alla determinazione della quantità massima di consumo di suolo nel territorio regionale e, conseguentemente, alla sua ripartizione.

2. I compiti della Giunta regionale

Per poter decidere misure così importanti per il futuro assetto del territorio regionale come quelle che dovranno essere assunte nei prossimi anni per contenere il consumo di suolo, la Giunta dovrà tener conto di una pluralità di informazioni, nella logica che ogni buona decisione non può che partire da una buona informazione.

In armonia con il dettato normativo dichiarato al co. 1 “Il consumo di suolo è gradualmente ridotto nel corso del tempo ed è soggetto a programmazione regionale e comunale” il legislatore ha definito le linee d’azione affinché la Giunta elabori e fornisca non solo quantità e modalità operative (co. 2 lett. a) ma anche criteri, regole, indicazioni metodologiche per l’attuazione degli obiettivi della legge e perseguire le nuove politiche sul contenimento del consumo di suolo (co. 2 lettere da b) ad h).

Ecco perché la base informativa necessaria per la messa a punto delle misure attuative di primo livello (co. 2 lett. a) deve considerare, oltre agli aspetti legati alle specificità territoriali di natura sociale ed economica (aree montane, Comuni ad alta tensione abitativa), le caratteristiche qualitative, idrauliche e geologiche dei suoli e le loro funzioni eco-sistemiche, le produzioni agricole, le tipicità agroalimentari, l’estensione e la localizzazione delle aree agricole rispetto alle aree urbane e periurbane, ed ogni altro elemento di valutazione utile a rendere conto in maniera trasparente delle misure che saranno adottate, non solo in rapporto alla capacità concreta di raggiungere l’obiettivo primario (la riduzione del consumo di suolo), ma anche in rapporto alla consapevolezza degli effetti ambientali, sociali, economici e politici che conseguiranno dall’adozione delle misure medesime.

Tale obiettivo deve essere concluso con apposito provvedimento dalla Giunta regionale entro 180 giorni dall’entrata in vigore della legge pubblicata sul BUR n. 56 del 9 giugno 2017.

3. I compiti dei Comuni

Le disposizioni contenute al co. 2 lett. a) vanno coordinate con quanto disposto dal co. 5 che, come anticipato in premessa, sigillano il binomio Regione-Comune per l’attuazione degli aspetti programmatori/ripartitivi del provvedimento della Giunta regionale da redigere entro 180 giorni.

La Giunta infatti per poter decidere misure così importanti per il futuro assetto del territorio regionale ha bisogno di una “fotografia” aggiornata dello stato della pianificazione comunale.

Pare in questo senso ampiamente giustificato il fatto che la legge si rivolga direttamente ai Comuni per poter acquisire in tempi rapidi informazioni aggiornate sullo stato delle previsioni urbanistiche, tanto in riferimento all’attuazione degli strumenti (sia quelli adeguati alla l.r. n. 11/2004 che i “vecchi” PRG), quanto in riferimento alle concrete trasformazioni insediative o alle scelte “virtuose” finalizzate ad invertire il processo di progressiva urbanizzazione del territorio.

Lo sforzo “informativo” richiesto ai Comuni è stato peraltro reso il meno oneroso possibile nel corso del dibattito consiliare. Infatti nella versione del DDL licenziato dalla Seconda Commissione Consiliare la scheda informativa allegata prevedeva la compilazione di una numerosa serie di dati da parte dei comuni. Le possibili problematiche indotte da quella previsione hanno verosimilmente orientato il legislatore alla sua sostituzione, nel testo definitivo, con una più appropriata formulazione del questionario della scheda al fine di consentire ai Comuni la compilazione e la restituzione entro il termine fissato in 60 giorni. Tale termine appare del tutto motivato, in ragione non solo della semplificazione operata, ma anche per effetto della versione in parte “autocompilativa” per tutte quelle informazioni già in possesso della regione e che caratterizzano ogni comune.

La scheda (Allegato A alla legge) risulta, di fatto, un foglio elettronico di agevole compilazione, scaricabile dalla pagina internet del portale regionale, nel quale sono state fornite tutte le istruzioni per la compilazione dei dati essenziali richiesti. Il foglio elettronico contiene già tutta una serie di informazioni riferite ad ogni singolo Comune, estraibili attraverso la selezione del codice ISTAT identificativo del Comune stesso.

Nella prima parte della scheda risultano in questo modo “precompilate” una serie di informazioni generali, quali il nome del Comune, la Provincia o Città Metropolitana di appartenenza, la superficie territoriale, l’inclusione nell’elenco dei “Comuni ad alta tensione abitativa” (Delibera CIPE n. 87/2003), la zona altimetrica (Pianura, Collina o Montagna), la classe di pericolosità sismica (D.C.R. n. 67 del 3 dicembre 2003), ecc..

La seconda parte della scheda (pagina 2) – per la quale vengono dichiarate le sue finalità essenzialmente informative -, consente ai Comuni di reperire le quantità estratte dalla Banca dati della Carta della copertura del suolo 2012 della Regione del Veneto (la cui classificazione deriva dal programma europeo CORINE-Land Cover). Appare chiaramente la volontà del legislatore di non assegnare all’estrazione di questi dati alcun valore urbanistico avendo il solo scopo di coadiuvare i Comuni nei compiti loro assegnati, attraverso la restituzione di una “fotografia” omogenea del proprio territorio al 2012 con un focus sulle quantità relative ai Territori Modellati Artificialmente (Classe 1 CORINE-Land Cover), che rappresentano il territorio trasformato alla data del 2012.

Ad ogni Comune vengono in definitiva richieste alcune informazioni dirette riferite a:

  • dati di tipo ricognitivo, ovvero all’avvenuto adeguamento della pianificazione alla l.r. n. 11 del 2004 (presenza o meno di PAT o PATI integrale approvato) e all’attuale popolazione residente.
  • informazioni territoriali afferenti alla pianificazione vigente ed allo stato di attuazione delle previsioni in essa contenute, suddivise nelle due macro-destinazioni prevalenti: quella residenziale e quella produttiva (intesa come sommatoria dei differenti usi – industriale, artigianale, commerciale, direzionale, turistico-ricettiva, ecc.).

I dati richiesti sono limitati a quelli strettamente necessari e in buona parte reperibili senza eccessivo impegno. L’informazione per la quale è richiesto uno sforzo maggiore da parte degli uffici tecnici comunali è probabilmente quella che riguarda i dati relativi alla “Superficie territoriale prevista”.

Per i pochi Comuni che non hanno ancora approvato o adottato il PAT il compito è relativamente semplice, in quanto andrà riportata nella scheda la “Superficie territoriale” delle previsioni di espansione complessivamente previste nel PRG vigente.

L’estrapolazione del dato potrebbe invece risultare più complicata nei Comuni dotati di PAT, per i quali il dimensionamento previsionale è parametrizzato in volume o superfici lorde di pavimento (o altro ancora), e dove le previsioni cartografiche contengono indicazioni preferenziali di sviluppo non conformative in considerazione della natura strategica del Piano. La nota contenuta nella scheda precisa opportunamente che i valori dovranno essere stimati in funzione dell’indice medio per singola ATO.

Completano la dotazione delle informazioni richieste, sempre in relazione alle finalità della legge, alcuni dati inerenti le superfici oggetto delle varianti allo strumento urbanistico generale ai sensi dell’articolo 7 della legge regionale 16 marzo 2015, n. 4 – cd. Varianti Verdi – e le superfici oggetto di interventi programmati dai Consorzi di Sviluppo ai sensi dell’art. 36, co. 5, della legge 5 ottobre 1991, n. 317, nonché le superfici di aree dismesse all’interno del proprio territorio comunale.

4. Considerazioni finali

È da ritenere che l’insieme delle informazioni che perverranno dai Comuni costituiscano solo una parte della base conoscitiva necessaria per la corretta chiave di lettura delle diverse componenti del territorio regionale ed è perciò evidente che, per la stesura del provvedimento finale, la Giunta regionale dovrà avvalersi di analisi multicriteriali, così da pervenire ad una lettura complessiva degli aspetti coinvolti ed all’adozione di scelte argomentate, consapevoli, eque e trasparenti.

Resta dunque in capo alla Giunta il compito più rilevante per l’attuazione di misure determinanti per il territorio regionale come quelle che dovranno essere assunte nei prossimi anni per contenere il consumo di suolo.

L’ultima annotazione riguarda il comma 7 di chiusura dell’art. 4 che consente alla Giunta, sentita la commissione consigliare, di modificare o integrare la scheda; tale disposizione è senza dubbio opportuna per consentire quelle modifiche che si rendessero necessarie sotto il profilo operativo in sede di prima applicazione della legge.

Commento all’art. 3 l.r. n. 14/2017

di Livio Viel e Anna Za

Art. 3

Obiettivi e finalità

1. La Regione in attuazione dei principi di cui all’articolo 1:

a) promuove la collaborazione con le autonomie locali e gli altri enti pubblici titolari di competenze afferenti la materia di cui al presente Capo;

b) stabilisce criteri, indirizzi, metodi e contenuti degli strumenti di pianificazione territoriale ed urbanistica per programmare, limitare e controllare l’uso del suolo a fini insediativi ed infrastrutturali, per tutelare e valorizzare il territorio aperto e per promuovere la riqualificazione e la rigenerazione degli ambiti di urbanizzazione consolidata;

c) disciplina l’acquisizione, l’elaborazione, la condivisione e l’aggiornamento di tutti i dati utili per il buon governo del territorio regionale, anche promuovendo la più ampia collaborazione con l’agenzia regionale per la prevenzione e protezione ambientale del Veneto, istituita con legge regionale 18 ottobre 1996, n. 32 “Norme per l’istituzione ed il funzionamento dell’agenzia regionale per la prevenzione e protezione ambientale del Veneto (ARPAV)” e con l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (ISPRA), istituito con decreto legge 25 giugno 2008, n. 112 “Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria”, convertito, con modificazione, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133;

d) propone iniziative volte a promuovere concorsi di idee, reperire risorse finanziarie e favorire accordi tra soggetti pubblici e privati, al fine di assumere nella pianificazione proposte di riqualificazione e rigenerazione urbana sostenibile di rilevante interesse pubblico e di supportare l’iniziativa privata, orientandola verso obiettivi di interesse anche pubblico in tempi prevedibili e certi, rafforzando la trasparenza, l’efficienza e l’efficacia dell’azione amministrativa.

2. La pianificazione territoriale e urbanistica privilegia gli interventi di trasformazione urbanistico-edilizia all’interno degli ambiti di urbanizzazione consolidata che non comportano consumo di suolo, con l’obiettivo della riqualificazione e rigenerazione, sia a livello urbanistico-edilizio che economico-sociale, del patrimonio edilizio esistente, degli spazi aperti e delle relative opere di urbanizzazione, assicurando adeguati standard urbanistici, nonché il recupero delle parti del territorio in condizioni di degrado edilizio, urbanistico e socio-economico, o in stato di abbandono, sotto utilizzate o utilizzate impropriamente.

3. Sono obiettivi delle politiche territoriali ed, in particolare, degli strumenti di pianificazione:

a) ridurre progressivamente il consumo di suolo non ancora urbanizzato per usi insediativi e infrastrutturali, in coerenza con l’obiettivo europeo di azzerarlo entro il 2050;

b) individuare le funzioni eco-sistemiche dei suoli e le parti di territorio dove orientare azioni per il ripristino della naturalità, anche in ambito urbano e periurbano;

c) promuovere e favorire l’utilizzo di pratiche agricole sostenibili, recuperando e valorizzando il terreno agricolo, anche in ambito urbano e periurbano;

d) individuare le parti di territorio a pericolosità idraulica e geologica, incentivandone la messa in sicurezza secondo il principio di invarianza idraulica e valutandone, ove necessario, il potenziamento idraulico e favorendo la demolizione dei manufatti che vi insistono, con restituzione del sedime e delle pertinenze a superficie naturale e, ove possibile, agli usi agricoli e forestali; nonché disciplinando l’eventuale riutilizzo, totale o parziale, della volumetria o della superficie, dei manufatti demoliti negli ambiti di urbanizzazione consolidata o in aree allo scopo individuate nel Piano degli interventi (PI), mediante riconoscimento di crediti edilizi o altre misure agevolative;

e) valutare gli effetti degli interventi di trasformazione urbanistico-edilizia sulla salubrità dell’ambiente, con particolare riferimento alla qualità dell’aria, e sul paesaggio, inteso anche quale elemento identitario delle comunità locali;

f) incentivare il recupero, il riuso, la riqualificazione e la valorizzazione degli ambiti di urbanizzazione consolidata, favorendo usi appropriati e flessibili degli edifici e degli spazi pubblici e privati, nonché promuovendo la qualità urbana ed architettonica ed, in particolare, la rigenerazione urbana sostenibile e la riqualificazione edilizia ed ambientale degli edifici;

g) ripristinare il prevalente uso agrario degli ambiti a frammentazione territoriale, prevedendo il recupero dei manufatti storici e del paesaggio naturale agrario, il collegamento con i corridoi ecologici ed ambientali, la valorizzazione dei manufatti isolati, la rimozione dei manufatti abbandonati;

h) valorizzare le ville venete e il loro contesto paesaggistico, come elemento culturale identitario del territorio veneto;

i) rivitalizzare la città pubblica e promuovere la sua attrattività, fruibilità, qualità ambientale ed architettonica, sicurezza e rispondenza ai valori identitari e sociali della comunità locale, con particolare attenzione alle specifiche esigenze dei bambini, degli anziani e dei giovani, nonché alla accessibilità da parte dei soggetti con disabilità;

l) assicurare la trasparenza amministrativa e la partecipazione informata dei cittadini alle scelte strategiche di trasformazione urbanistico-edilizia, di riqualificazione e rigenerazione urbana e territoriale, anche promuovendo la partecipazione dei diversi soggetti portatori di interessi nei procedimenti di pianificazione;

m) attivare forme di collaborazione pubblico-privato che contribuiscano alla riqualificazione del territorio e della città, su basi di equilibrio economico-finanziario e di programmazione temporale dei procedimenti e delle iniziative in un contesto di prevedibilità, certezza e stabilità della regolazione.

Sommario: 1. La struttura della norma di cui all’art. 3 in riferimento ai principi dell’art. 1 della legge2. Il ruolo della Regione e la necessità dell’armonizzazione delle politiche territoriali nella prospettiva del contenimento del consumo di suolo3. Il ruolo privilegiato delle attività non comportanti consumo di suolo. Il riuso del territorio in applicazione dei principi della “economia circolare”4. Gli obiettivi delle politiche territoriali e il ruolo degli strumenti di pianificazione.

1. La struttura della norma di cui all’art. 3 in riferimento ai principi dell’art. 1 della legge.

La norma di cui all’art. 3 della legge esplicitamente rinvia, già nell’incipit del primo comma, all’art. 1 e ai “principi” colà enunciati quali “informatori” delle norme contenute nel capo I della legge medesima.

Occorre dunque richiamare, per commentare la norma in esame, quanto si è detto trattando dell’art. 1 e in particolare del secondo comma dello stesso, laddove si era evidenziata la complessità della formulazione[1] dei “principi” e, soprattutto, la valenza degli stessi in chiave – per così dire – “sovra-urbanistica”, essendo evidente che con la centralizzazione della categoria del “suolo” e della sua “conservazione”, la tradizionale concezione del “governo del territorio” è destinata ad esser messa profondamente in discussione assieme ai suoi strumenti (in primis proprio la pianificazione comunale); soprattutto, però, sono destinati ad essere ridefiniti gli stessi livelli decisionali e le competenze programmatorie e pianificatorie.

È infatti conseguente che l’intersettorialità delle funzioni e delle competenze (soprattutto di natura ambientale) che saranno coinvolte dalle politiche di contenimento del consumo di suolo, politiche che a questo devono riconoscersi quali obbligatorie, comporterà la necessità di un’integrazione delle competenze all’interno di procedimenti intesi ad una superiore sintesi. Integrazione di funzioni e di competenze, sia verticale che orizzontale, che impone di pensare e interpretare il territorio secondo piani e programmi di area vasta piuttosto che sulla base degli ordinari schemi urbanistici, per lo più di ambito comunale. Ciò, soprattutto per evitare il pericolo di contrasti e contraddizioni tra i diversi interessi e funzioni, e per contenere e armonizzare la “naturale” spinta espansiva della trasformazione territoriale con quella conservativa della difesa e della riconquista del suolo permeabile.

Risulta chiaro, in questa prospettiva, che l’attore fondamentale chiamato a interpretare – a livello locale e in attesa della legge nazionale – quella che si annuncia come una svolta storica nella gestione del territorio, sia proprio la Regione alla quale l’art. 3, non a caso, dedica il primo comma, di cui si tratterà immediatamente. Non senza peraltro aver ricordato – sempre nella prospettiva dei principi informatori della legge – che la struttura della medesima norma si articola in altri due commi: il secondo rivolto alla pianificazione urbanistica nelle aree di urbanizzazione consolidata, e il terzo dedicato agli “obiettivi” della programmazione e della pianificazione territoriale.

L’articolazione della norma conferma, dunque, la fondamentale preoccupazione della legge di evitare che si verifichino divaricazioni e contrapposizioni nella gestione del c.d. territorio (tale intendendosi, a questo punto, anche il “suolo” in tutti i suoi aspetti sopra declinati): per tal ragione, una volta affermato – come si è detto – il ruolo fondamentale della Regione, la norma sposta l’attenzione proprio sulla “pianificazione territoriale e urbanistica” (secondo comma) nonché sulle “politiche territoriali” e sugli “strumenti di pianificazione” (terzo comma) individuando immediatamente delle priorità e degli obiettivi di rango superiore cui evidentemente (e obbligatoriamente) dovranno conformarsi le scelte di chi avrà la responsabilità della gestione strategica del territorio.

Pare conseguente a quanto detto che le attività di programmazione e di pianificazione territoriale e urbanistica dovranno sin d’ora conformarsi alle linee stabilite dalla norma in commento, indipendentemente dall’attuazione da parte della Regione di quanto stabilito al primo comma.2

2. Il ruolo della Regione e la necessità dell’armonizzazione delle politiche territoriali nella prospettiva del contenimento del consumo di suolo.

Nella consapevolezza della necessità di integrare plurime funzioni e competenze e, con esse, plurimi livelli amministrativi, il primo comma dell’art. 3 ha inteso assegnare alla Regione un ruolo fondamentale di coordinamento e di governo dei processi decisionali in vista del perseguimento e dell’attuazione delle finalità esplicitate anche nei successivi commi.

A questo fine, l’articolo in commento definisce tre sostanziali linee di azione da parte della Regione:

1) attività di promozione e di coordinamento: la Regione deve favorire la collaborazione tra autonomie locali e tra enti (in primis i Comuni, le Province, le Città Metropolitane) titolari di competenze in materia di contenimento del consumo di suolo e, in particolare, tra quegli enti che si occupano della pianificazione. La collaborazione esplicitamente richiesta dalla norma dovrà svilupparsi, evidentemente, con una integrazione sia verticale (enti territoriali anche di area vasta) che, pure, orizzontale poiché gli interessi e le funzioni coinvolte nell’attuazione dei principi di cui all’art. 1 riguardano necessariamente – lo si è detto – più livelli decisionali, con competenze specifiche anche in ambiti diversi da quelli della pianificazione strettamente intesa, che coinvolgono comunque il tema del “suolo” e del contenimento del suo consumo (ad es. ARPAV, Asl, etc.);

2) adozione di specifici atti normativi e regolamentari volti sempre ad armonizzare e indirizzare gli strumenti della pianificazione territoriale e urbanistica nel senso di limitare e controllare il consumo di suolo, riqualificare gli ambiti già urbanizzati e tutelare il territorio aperto, non urbanizzato. In questa attività si inseriscono in particolare tutte quelle misure di programmazione e di controllo, di stretta competenza della Giunta regionale, previste dall’art. 4 della legge;

3) azione di monitoraggio: disciplinando la raccolta, l’elaborazione, l’aggiornamento dei dati ritenuti utili per il buon governo del territorio anche in collaborazione con ARPAV e ISPRA.

Quest’ultima attività costituisce un’implementazione del principio già presente nella legge urbanistica regionale, della necessità di un sistema integrato delle informazioni e dei dati presenti negli strumenti di pianificazione, relativi agli aspetti fisici e socioeconomici del territorio, che costituisce il c.d. “Quadro conoscitivo degli strumenti di pianificazione” previsto dall’art. 10 della l.r. n. 11/2004.

3. Il ruolo privilegiato delle attività non comportanti consumo di suolo. Il riuso del territorio in applicazione dei principi della “economia circolare”.

Il secondo comma dell’art. 3 della nuova legge regionale, molto opportunamente, afferma il ruolo privilegiato degli interventi di trasformazione urbanistico-edilizia all’interno degli ambiti di urbanizzazione consolidata non comportanti consumo di suolo: si tratta più precisamente di quegli interventi che tradizionalmente rientravano nella nozione di “recupero del patrimonio edilizio esistente” ma che la nuova legge comprende nella definizione di “trasformazione urbanistico-edilizia” caratterizzata dagli ambiti in cui si svolge, che non devono comportare consumo di suolo. L’individuazione di questi ambiti come quelli di “urbanizzazione consolidata” (riprendendo con ciò la nozione di cui alla lettera o) dell’art. 13 della l.r. n. 11/2004) vale a definire anche il perimetro di applicazione del secondo comma dell’art. 3 in commento, che così fa coincidere lo stesso ambito normativo con il perimetro che la legge urbanistica considera quale già trasformato[2].

Si tratta del perimetro di applicazione del c.d. “riuso del territorio”, finalità ritenuta particolarmente importante anche dalla nuova legge che vi dedica particolare spazio e attenzione nelle successive norme, trattandosi di una questione di rilievo non meramente territoriale ma anche economico e sociale individuata da tempo nelle stesse politiche dell’Unione Europea in tema di risparmio del suolo e anche di economia circolare.

Secondo la Commissione Europea[3] infatti occorre modificare lo sviluppo dell’economia quale avvenuto all’insegna del “prendi, produci, usa e getta” come se la crescita possa esser fondata su risorse sempre abbondanti e disponibili, altresì smaltibili senza costi. Nella strategia europea la base di un’economia virtuosa sta nel concetto di economia circolare, ove i prodotti e le risorse restano nel sistema economico, in guisa da poter essere riutilizzate più volte a fini produttivi creando nuovo valore: è dunque coerente, anche con tale impostazione, concepire il risparmio di suolo e insieme il riuso del territorio come applicazioni virtuose dei principi della “economica circolare”.

La nozione di contenimento del consumo di suolo si collega dunque, immediatamente e in modo coerente, con la nozione di riuso e di recupero del patrimonio edilizio inutilizzato, coniugando la preservazione dello spazio naturale con la qualità dello spazio urbano: efficienti politiche intese a salvaguardare i “suoli” non possono prescindere dalla parallela riqualificazione e rigenerazione non solo urbanistica ed edilizia ma, anche, economica e sociale delle aree già urbanizzate. In questa prospettiva il secondo comma dell’articolo in commento assegna dunque un ruolo privilegiato a tutte quelle attività che si svolgono all’interno degli “ambiti di urbanizzazione consolidata” non comportanti consumo di suolo.

Si tratta, anche in questo caso, di un’affermazione di principio sulla priorità delle politiche di recupero del territorio già consumato, rispetto alla trasformazione di ulteriore suolo naturale. Peraltro anche in questo caso la norma di principio, pur rivolta alla strumentazione territoriale urbanistica, deve comunque intendersi come immediatamente precettiva nei confronti delle corrispondenti attività di pianificazione, nelle quali in questo caso è il Comune che assume un ruolo centrale, trattandosi di amministrare il patrimonio edilizio inutilizzato: funzione di governo, questa, eminentemente di competenza comunale. È infatti il Comune che può consentire il riuso, attraverso il regolamento edilizio, i piani attuativi e di recupero (PUA), i c.d. “strumenti complessi” e il rilascio dei titoli edilizi (tra i quali il permesso di costruire in deroga di cui all’art. 14 del DPR 380/2001) all’interno degli spazi e delle superfici già compromesse. La centralità dell’amministrazione comunale in questo ambito emergerà ulteriormente e ancor più chiaramente nei commenti alle successive disposizioni della legge e, in particolare, degli articoli da 5 a 9 alla cui lettura si rinvia, che specificamente riguardano la riqualificazione edilizia e urbana, la rigenerazione e la qualità architettonica ambientale e, in genere, proprio il riuso del territorio urbano.

4. Gli obiettivi delle politiche territoriali e il ruolo degli strumenti di pianificazione.

Il terzo comma dell’art. 3 della nuova legge, dopo che il secondo ha come sopra stabilito la priorità privilegiata del riuso del territorio già urbanizzato rispetto alle trasformazioni comportanti consumo di nuovo suolo, si occupa delle c.d. “politiche territoriali” volte essenzialmente a disciplinare quelle parti di territorio non ancora trasformare e il rapporto delle stesse con gli ambiti di urbanizzazione invece consolidata. Non a caso questo tema, riferito appunto alle “politiche territoriali” degli strumenti di pianificazione, è contemplato dalla norma successivamente al prioritario obiettivo, definito appunto privilegiato, del recupero e del riuso degli spazi urbanizzati.

Il comma in commento, trattando delle “politiche territoriali” non individua peraltro specifici strumenti per le stesse (che dunque potranno tradursi anche in strumenti atipici), ma si riferisce comunque alla “pianificazione” che, allo stato della legislazione regionale, si compendia negli strumenti di governo del territorio previsti dalla l.r. n. 11/2004 secondo i vari livelli amministrativi: a scala comunale i Piani di Assetto Territoriale (PAT) e anche intercomunale (PATI), il Piano degli Interventi (PI) nonché i Piani Urbanistici Attuativi (PUA); a scala superiore, invece, il piano provinciale (PTCP) e ancor sopra quello regionale (PTRC).

È evidente, da quanto già detto in precedenza, che le politiche territoriali orientate al contenimento del consumo di suolo troveranno le loro fondamentali scelte e decisioni all’interno degli strumenti di area vasta: vale a dire il piano provinciale se non, addirittura, quello regionale.

In effetti la norma prevede che gli obiettivi legati al contenimento del consumo del suolo andranno definiti all’interno della pianificazione, costituendo dunque questi l’elemento fondamentale e centrale della stessa.

La pianificazione diventa quindi principalmente lo strumento attuativo delle politiche territoriali volte al contenimento e al risparmio del suolo, come stabilito dal punto a) del terzo comma, ossia l’azzeramento del consumo entro il 2050, in linea con le politiche europee.

Seguono poi, nell’elencazione degli obiettivi, altre finalità che costituiscono una migliore specificazione e un’indicazione di maggiore dettaglio di quanto già peraltro previsto dalla legge urbanistica regionale per la corretta elaborazione dei piani e in particolare dall’art. 13 della l.r. n. 11/2004 che in effetti già prevede che il piano di assetto comunale sia redatto fissando “gli obiettivi e le condizioni di sostenibilità degli interventi e delle trasformazioni ammissibili”.

È meritevole di menzione, a questo proposito, il fatto che molteplici contenuti già propri del piano comunale fissati dalla legge urbanistica regionale, si ritrovino anche nell’art. 3 della legge sul consumo di suolo, dove peraltro è maggiore l’attenzione a indirizzare le strategie di pianificazione verso le specifiche azioni definite dal legislatore per la riduzione della trasformazione delle aree naturali. Si tratta di un taglio operativo che conferma l’importanza dei contenuti già presenti nella legge urbanistica, arricchendoli con nuovi obiettivi ma soprattutto affermando il “suolo” – nella sua configurazione di “risorsa limitata e non rinnovabile” definita dall’art. 1 “bene comune” – quale elemento centrale e fondamentale delle azioni di governo del territorio già in sede di pianificazione.

In questa prospettiva, per quanto riguarda gli aspetti ambientali, l’obiettivo dei piani fissato direttamente dalla nuova legge sarà quello di ripristinare la naturalità delle aree in ambiti urbani e periurbani anche se frazionate e frammentate e incentivare il loro uso agricolo, attraverso una serie di specifiche azioni (peraltro dettagliate in ordine sparso e non conseguenziale).

Ulteriori obiettivi puntuali e specifici per i piani urbanisti, sono l’agricoltura e le politiche agricole sostenibili, nei cui confronti la pianificazione territoriale dovrà prevedere azioni volte, come indicato nella lettera g), a “ripristinare il prevalente uso agricolo degli ambiti a frammentazione territoriale, prevedendo il recupero dei manufatti storici e del paesaggio naturale agrario, il collegamento con i corridoi ecologici ed ambientali, la valorizzazione dei manufatti isolati, la rimozione dei manufatti abbandonati”.

È interessante a questo punto confrontare gli obiettivi della nuova legge per i territori con particolari dissesti idraulici e idrogeologici con il contenuto del punto b) del citato art. 13 della l.r. n. 11/2004. In effetti la legge regionale n. 14/2017 risulta estremamente dettagliata nel definire gli obiettivi delle politiche per i territori con fragilità, attenzione già evidenziata nella legge regionale sul piano casa, il cui art. 3 quater (introdotto dalla l.r. n. 32 del 29/11/2013) prevede la possibilità dell’integrale demolizione e della successiva ricostruzione, anche con incremento volumetrico, dei fabbricati ricadenti in aree ad alta pericolosità idraulica ed idrogeologica.

Rispetto alle possibilità di intervento previste dal piano casa, per ora “a scadenza” alla fine del 2018, l’obiettivo previsto dalla lettera d) del terzo comma in commento risulta più ampio e rivolto ai territori con problematiche di pericolosità anche diverse da quelle evidenziate nel Piano di Assetto Idrogeologico (PAI) previsto dal d.lgs. n. 152/2006. Gli approfondimenti idrogeologici e geologici in sede di elaborazione dei piani possono, infatti, riscontrare come “pericolose” anche aree diverse da quelle previste dal PAI o sovrapponibili alle stesse, che necessitano di specifiche azioni di intervento per garantire comunque la stabilità dei terreni e la sicurezza degli abitati. La centralità del “suolo” e in particolare la riduzione del suo consumo oltre che la sua tutela sono, anche in questo caso, contemplati dalla legge come prioritari e agli stessi si legano tutta una serie di azioni e strategie pianificatorie al centro delle politiche urbanistiche.

Si passa così da una logica di “messa in sicurezza” a seguito di eventi calamitosi (vedasi la legge “Sarno” di cui al D.L. 11 giugno 1998, n. 180) ad una vera e propria azione di prevenzione, dove la salvaguardia e la messa in sicurezza delle aree diviene strategia specifica e prioritaria dei piani, da sviluppare anche attraverso la previsione della demolizione dei manufatti e il ripristino delle aree a superficie naturale, con il possibile recupero/riutilizzo delle volumetrie in altre aree, secondo normative delegate al Piano degli interventi (PI).

La modifica della prospettiva nelle politiche di pianificazione risulta dunque evidente e particolarmente importante proprio per il territorio del Veneto, dove sono presenti innumerevoli situazioni di dissesto e di fragilità, sia nelle aree montane che in quelle pianeggianti.

L’elencazione degli obiettivi della pianificazione, di cui al terzo comma della norma in commento, contiene ulteriori aspetti di estremo interesse, completamente nuovi e innovativi per l’urbanistica veneta: trattasi della c.d. “città pubblica” (lettera i) e soprattutto del tema, ripetuto in altre parti della legge e già presente nel secondo comma, delle aree urbanizzate (lettera f) per le quali si ribadisce l’obiettivo di “incentivare il recupero, il riuso, la riqualificazione e la valorizzazione degli ambiti di urbanizzazione consolidata, favorendo usi appropriati e flessibili degli edifici e degli spazi pubblici e privati, nonché promuovendo la qualità urbana ed architettonica ed, in particolare, la rigenerazione urbana sostenibile e la riqualificazione edilizia ed ambientale degli edifici”.

Gli ultimi due obiettivi rivolti alle politiche territoriali (lettere l ed m) rimarcano procedure di coinvolgimento dei cittadini rispetto alle scelte di panificazione, con individuazione di tempi certi nella programmazione: finalità, queste, già peraltro presenti nella legge urbanistica regionale con la procedura di valutazione ambientale strategica dei piani (VAS) prevista dall’art. 4 della l.r. n. 11/2004, in conformità con la normativa nazionale (d.lgs. n. 152/2006) che ha recepito le direttive europee (direttiva 2001/42/CE) e con i principi generali dell’attività amministrativa, basati sui criteri di economicità, trasparenza, efficacia e imparzialità previsti dalla L. 241/90 “Norme sul procedimento amministrativo”.

Pare peraltro opportuno, per meglio intendere la portata degli obiettivi esplicitati dal terzo comma con riferimento agli strumenti di pianificazione, comparare quanto previsto dalla legge sul contenimento del consumo di suolo con l’art. 13 della legge urbanistica regionale, che attiene specificatamente alla pianificazione territoriale comunale e intercomunale.

Si riporta, per questo, la seguente tavola di confronto che si ritiene poter risultare utile anche a chi quotidianamente opera nella formazione e approvazione degli strumenti di pianificazione.

 

Art. 3 comma 3 – l.r. n. 14/2017

Obiettivi delle politiche territoriali e degli strumenti di pianificazione

Art. 13 comma 1 – l.r. n. 11/2004

Obiettivi e contenuti del Piano di Assetto del Territorio

f) incentivare il recupero, il riuso, la riqualificazione e la valorizzazione degli ambiti di urbanizzazione consolidata, favorendo usi appropriati e flessibili degli edifici e degli spazi pubblici e privati, nonché promuovendo la qualità urbana ed architettonica ed, in particolare, la rigenerazione urbana sostenibile e la riqualificazione edilizia ed ambientale degli edifici; o) individua[re] le aree di urbanizzazione consolidata in cui sono sempre possibili interventi di nuova costruzione o di ampliamento di edifici esistenti attuabili nel rispetto delle norme tecniche di cui al comma 3, lettera c);

c) individua[re] gli ambiti territoriali cui attribuire i corrispondenti obiettivi di tutela, riqualificazione e valorizzazione, nonché le aree idonee per interventi diretti al miglioramento della qualità urbana e territoriale;

b) individuare le funzioni ecosistemiche dei suoli e le parti di territorio dove orientare azioni per il ripristino della naturalità, anche in ambito urbano e periurbano;

 

d) recepi[re] i siti interessati da habitat naturali di interesse comunitario e definisce le misure idonee ad evitare o ridurre gli effetti negativi sugli habitat e sulle specie floristiche e faunistiche;
c) promuovere e favorire l’utilizzo di pratiche agricole sostenibili, recuperando e valorizzando il territorio agricolo, anche in ambito urbano e periurbano;

g) ripristinare il prevalente uso agrario degli ambiti a frammentazione territoriale, prevedendo il recupero dei manufatti storici e del paesaggio naturale agrario, il collegamento con i corridoi ecologici ed ambientali, la valorizzazione dei manufatti isolati, la rimozione dei manufatti abbandonati;

h) detta[re] una specifica disciplina con riferimento ai centri storici, alle zone di tutela e alle fasce di rispetto e alle zone agricole in conformità a quanto previsto dagli articoli 40, 41 e 43;

 

d) individua[re] le parti del territorio a pericolosità geologica, incentivandone la messa in sicurezza secondo il principio della invarianza idraulica e valutandone, ove necessario, il potenziamento idraulico e favorendo la demolizione dei manufatti che vi insistono, con restituzione del sedime e delle pertinenze a superficie naturale e ove possibile, agli usi agricoli e forestali; nonché disciplinando l’eventuale riutilizzo, totale o parziale, della volumetria o della superficie, dei manufatti demoliti negli ambiti di urbanizzazione consolidata o in aree allo scopo individuate nel Piano degli interventi (PI) mediante riconoscimento di crediti edilizi o altre misure agevolative; b) disciplina[re], attribuendo una specifica normativa di tutela, le invarianti di natura geologica, geomorfologica, idrogeologica, paesaggistica, ambientale, storico-monumentale e architettonica, in conformità agli obiettivi ed indirizzi espressi nella pianificazione territoriale di livello superiore;

 

 

 

e) valutare gli effetti degli interventi di trasformazione urbanistico-edilizia sulla salubrità dell’ambiente, con particolare riferimento alla qualità dell’aria, e sul paesaggio, inteso anche quale elemento identitario delle comunità locali;

Art. 4, co. 2 procedura di VAS

 

La VAS evidenzia la congruità delle scelte degli strumenti di pianificazione di cui al comma 2 rispetto agli obiettivi di sostenibilità degli stessi, alle possibili sinergie con gli altri strumenti di pianificazione individuando, altresì, le alternative assunte nella elaborazione del piano, gli impatti potenziali, nonché le misure di mitigazione e/o di compensazione da inserire nel piano.

 

[1] Vale la pena di ricordare l’elencazione dei “principi informatori” di cui al secondo comma dell’art. 1: “programmazione dell’uso del suolo e la riduzione progressiva e controllata della sua copertura artificiale”; “tutela del paesaggio, delle reti ecologiche, delle superfici agricole forestali”; “promozione della biodiversità coltivata”; “rinaturalizzazione di suolo impropriamente occupato”; “riqualificazione e rigenerazione degli ambiti di urbanizzazione consolidata”. Infine l’affermazione che “l’utilizzo di nuove risorse territoriali” può avvenire “esclusivamente quando non esistano alternative alla riorganizzazione e riqualificazione del tessuto insediativo esistente, in coerenza con quanto previsto dall’art. 2, comma 1, lettera d) della legge regionale 23 aprile 2004, n. 11”.

[2] Si rinvia, per le conseguenze che ciò determina in ordine al rapporto tra il “suolo” il cui consumo è da contenere e le aree trasformate (soggette per questo al riuso) alla sentenza 2921 del 28 giugno 2016 del Consiglio di Stato citata nel commento all’art. 1.

[3] Crf. Commissione Europea, Verso un’economia circolare: programma per un’Europa a zero rifiuti, del 2 luglio 2014.