Commento all’art. 5 l.r. n. 14/2019

di Emilio Caucci

Articolo 5

Disposizioni per gli immobili pubblici
1. Gli immobili appartenenti ai comuni o ad altri enti pubblici possono generare crediti edilizi da rinaturalizzazione, anche in deroga ai criteri generali di cui alle lettere a), b) e c), del comma 1, dell’articolo 4; tali crediti sono destinati prioritariamente alla realizzazione degli interventi di ampliamento di cui all’articolo 6.
2. I comuni possono concludere accordi o intese con gli enti pubblici proprietari di edifici degradati per addivenire alla loro demolizione e alla rinaturalizzazione dell’area, riconoscendo agli enti proprietari adeguati crediti edilizi da rinaturalizzazione.
3. Le somme introitate, in apposito fondo comunale, a seguito della cessione nel mercato dei crediti edilizi generati da immobili di cui al comma 1, sono destinate prioritariamente ad interventi di demolizione di altri manufatti incongrui.

Sommario: 1. Il patrimonio immobiliare pubblico fra dismissioni e valorizzazione2. La valorizzazione in termini di credito edilizio3. Ambito di applicazione, struttura e ratio dell’articolo 54. Il primo comma: la deroga ai primi tre criteri generali dettati dalla Giunta regionale e la destinazione dei crediti di fonte pubblica4.1. La regola generale dell’incanto e le sue possibili declinazioni nel provvedimento della Giunta regionale a norma dell’articolo 4, comma 1, lettera d)4.2. La variante applicativa comunale di cui all’articolo 4, comma4.3. L’utilizzo “prioritario” dei crediti di fonte pubblica negli interventi di cui all’articolo 65. Il secondo comma: accordi e intese fra i Comuni e gli altri Enti pubblici proprietari – 5.1. Spazi discrezionali riconosciuti all’accordo6. Il terzo comma: la destinazione degli introiti 6.1. L’apposito fondo comunale7. Considerazioni ulteriori. Mancanza, allo stato, di incentivi fiscali (di fonte necessariamente statale)7.1. Cenni sulle diverse metodologie di determinazione dei crediti edilizi e sulla loro applicazione ai crediti di fonte pubblica

1. Il patrimonio immobiliare pubblico fra dismissioni e valorizzazione

Il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha recentemente censito il numero e il valore patrimoniale dei fabbricati di proprietà pubblica in Italia (cfr. Comunicato stampa n. 76 del 9 maggio 2018). Si tratta di circa un milione di unità catastali, per una superficie pari a 325 milioni di mq. ed un valore stimato in 283 miliardi, di cui poco meno del 10% (27,56 miliardi) in Veneto.

Il 74% del valore di questo immenso portafoglio immobiliare è riconducibile a fabbricati di proprietà delle Amministrazioni locali.

Il restante 26% è ripartito tra Amministrazioni centrali (17%), Amministrazioni locali non incluse nel perimetro di consolidamento dei conti pubblici, tra cui gli enti territoriali per l’edilizia residenziale (6%), ed enti pubblici di previdenza e assistenza (3%).

Sempre da questo censimento, risulta che il 77% del valore immobiliare complessivo è espresso da fabbricati utilizzati direttamente dalla P.A. e quindi non disponibili nel breve o medio termine per progetti di valorizzazione e dismissione. Il restante 23% si divide tra edifici dati in uso, a titolo gratuito o oneroso, a privati (51 miliardi), edifici in ristrutturazione (3 miliardi) ed edifici effettivamente non utilizzati (12 miliardi)[1]. Una buona metà del patrimonio “non utilizzato” consiste in caserme e altri edifici con caratteristiche tipologiche fuori mercato.

Questi dati, pur scontando una inevitabile approssimazione di massa, esprimono un buon livello conoscitivo di una realtà complessa e chiariscono, per quanto qui interessa, che gli edifici pubblici passibili di totale dismissione, o addirittura di demolizione creativa di valore, sono una piccola parte del totale, comunque economicamente significativa. In questo ristretto novero vanno ricercati quelli non più “congrui” secondo le definizioni della l.r. n. 14/2017, ripresa dall’articolo 2 della nuova legge. Alcuni di questi giacciono abbandonati in attesa di decisioni, altri in rovina, gli uni e gli altri senza esonerare nel frattempo l’Ente proprietario dai costi di gestione, manutenzione o messa in sicurezza; altri edifici sono semplicemente troppo costosi da recuperare, alla luce degli standard energetici e prestazionali attuali.

L’obiettivo dell’articolo 5 è ritrarne ancora un valore, riqualificando il territorio.

2. La valorizzazione in termini di credito edilizio

Per anni, il dibattito generale sugli immobili pubblici passibili di dismissione è rimasto confinato al rapporto fra vendita (o svendita) e riduzione del debito pubblico.

Negli ultimi tempi, complice l’esito spesso deludente delle dismissioni e della stagione delle cd. “cartolarizzazioni”, il baricentro si è progressivamente spostato verso una valorizzazione patrimoniale attiva, in due direzioni: l’investimento sull’edificio stesso in termini di riqualificazione, cioè un rilancio ambizioso anche se non sempre nelle corde e nelle possibilità della mano pubblica, e la assegnazione di un valore “estrinseco” alla volumetria in sé quale risorsa limitata su base territoriale, potenzialmente trasferibile e circolante come credito edificatorio.

La prassi, come sempre, ha preceduto la legislazione: l’inserimento di crediti edilizi pubblici nell’apposito registro è già in atto da anni presso alcuni Comuni (per esempio a Verona), i quali non sempre hanno avvertito l’esigenza o la necessità di stabilire regole distinte da quelle valevoli per gli altri crediti.

Infine, la legge n. 14/2017 ha creato i presupposti per una ulteriore riflessione, e per una regolazione più specifica dell’estensione del credito edilizio da rinaturalizzazione (ossia da demolizione integrale) anche agli edifici di proprietà dei comuni o di altri enti non più strumentali alla funzione e privi di qualsiasi intrinseco valore per la collettività.

L’articolo 5 si occupa di questo tema e lo fa, come spesso accade per le previsioni innovative, con disposizioni scarne e di principio, peraltro abbastanza chiare.

3. Ambito di applicazione, struttura e ratio dell’articolo 5

L’articolo 5 anzitutto non fa distinzioni fra tipologie di beni immobili appartenenti ai comuni o ad altri enti pubblici, né reca limiti dimensionali o tipologici, sicché pare estensibile agli immobili “incongrui” già appartenenti al cd. demanio necessario purché sdemanializzati[2] e a quelli già iscritti nel patrimonio indisponibile purché ne sia cessata la destinazione all’uso pubblico: dunque anche a caserme o scuole dismesse, magazzini in disuso, attrezzature sportive abbandonate o incompiute.

L’articolo 5 non fa distinzioni neppure riguardo al concetto di “ente pubblico”, che va quindi inteso in senso ampio, potenzialmente inclusivo di qualsiasi ente, locale o centrale, economico (come l’Agenzia del Demanio[3]) o non economico. Sembrano escluse le società partecipate, i cui crediti restano perciò disciplinati dalle regole generali.

La struttura dell’articolo può riassumersi come segue.

Il primo comma attribuisce ai crediti edilizi di fonte pubblica uno statuto marcatamente speciale e derogatorio e ne indica la destinazione prioritaria – l’ampliamento ai sensi dell’art. 6. Il secondo comma lascia alla negoziazione fra comuni ed enti pubblici proprietari di singoli edifici degradati un ampio spazio discrezionale per stabilire, caso per caso, le condizioni della demolizione e della rinaturalizzazione dell’area contro “adeguati” crediti edilizi. Il terzo comma completa la disciplina del primo, stabilendo come debbano essere usati “prioritariamente” gli introiti dalla commercializzazione dei crediti edilizi comunali e degli altri enti pubblici: per finanziare altri interventi di demolizione di manufatti incongrui.

L’articolo 5 istituzionalizza quindi il concorso dei crediti da naturalizzazione di fonte pubblica con quelli di fonte privata.

Tale convivenza potrebbe rivelarsi non semplice. Essa tuttavia dipende in qualche modo dall’articolata ratio di fondo della norma: al di là della riqualificazione del territorio in sé, che non fa distinzione fra manufatti incongrui pubblici e privati, e al di là anche delle consuete e comprensibili istanze di finanza pubblica, c’è anche l’esigenza di calmierare il mercato dei crediti edilizi sia in termini di quantità assolute di crediti disponibili, sia in termini di corrispettivo. La stessa “priorità” assegnata dal primo comma agli interventi di ampliamento di cui all’art. 6) sembra un riflesso di tale ultima esigenza, un’espressione cioè della volontà di favorire i piccoli interventi e di evitare, fin quando possibile, accaparramenti e rendite di posizione di soggetti privati economicamente forti e strutturati.

L’art. 5 è peraltro strettamente collegato alla lettera d) del 1° comma dell’art. 4, cioè ai criteri operativi che la Giunta regionale dovrà inserire nella delibera di cui all’art. 4, comma 2, l.r. n. 14/2017 per la regolazione della cessione sul mercato dei crediti edilizi da rinaturalizzazione generati da immobili pubblici “comunali”. Per tale ragione, anche tale ultima previsione verrà trattata in questa sede di commento all’articolo 5.

4. Il primo comma: la deroga ai primi tre criteri generali dettati dalla Giunta regionale e la destinazione dei crediti di fonte pubblica

Il primo comma riconosce espressamente agli immobili pubblici la capacità di generare crediti edilizi da rinaturalizzazione, cioè compensativi di una demolizione completa ai sensi dell’art. 2, comma 1, lett. d), “anche in deroga ai criteri generali di cui alle lettere a), b) e c), del comma 1, dell’articolo 4”. Ne consegue che, per la “generazione” dei crediti derivanti dagli immobili pubblici, i criteri generali stabiliti dalla Regione per l’attribuzione, la determinazione, l’iscrizione dei crediti e per la fissazione delle modalità di accertamento dell’avvenuta rinaturalizzazione non sono vincolanti.

Questa differenziazione non deve sorprendere: i crediti derivanti dalla demolizione di edifici pubblici sono diversi dagli altri già a partire dalla destinazione urbanistica d’origine, che normalmente è una componente dell’ammontare dei crediti; molti immobili pubblici, poi, hanno caratteristiche fuori mercato (si pensi alle caserme) e quindi non si prestano a valutazioni comparative; né per gli edifici di proprietà pubblica si pone – non almeno allo stesso modo – l’esigenza di accertare l’avvenuto “completamento dell’intervento demolitorio e la rinaturalizzazione” (secondo le modalità rimesse alla delibera di Giunta regionale: art. 4, comma 1, lett. c)).

D’altra parte, solo coll’introduzione di un regime autonomo da quello degli altri crediti il legislatore regionale avrebbe potuto perseguire e presidiare la finalità sottesa al concorso dei crediti di fonte pubblica con quelli di fonte privata, cioè fungere da elemento equilibratore del mercato e garantire una disponibilità di crediti agli interventi di solo ampliamento.

Il fatto che i Comuni non siano vincolati al rispetto dei criteri stabiliti dalla Giunta regionale per i crediti privati da rinaturalizzazione, e siano invece tenuti ad applicare quelli specificamente dettati “per la cessione sul mercato di crediti edilizi da rinaturalizzazione generati da immobili pubblici comunali” (art. 4, comma 1, lettera d) cit.), non deve portare a concludere che non esistano regole o principi di cui tenere conto: l’espressione “anche in deroga ai criteri generali di cui alle lettere a), b) e c), del comma 1 dell’articolo 4”, infatti, sembra suggerire che tali criteri laddove compatibili restino un parametro di riferimento, motivatamente derogabile.

4.1. La regola generale dell’incanto e le sue possibili declinazioni nel provvedimento della Giunta regionale a norma dell’articolo 4, comma 1, lettera d)

L’oggetto principale dei criteri operativi regionali di cui al comma 1, lett. d) dell’art. 4 sarà la regolazione della prima commercializzazione dei crediti da rinaturalizzazione generati da immobili pubblici.

A guidare il legislatore regionale è stata probabilmente la consapevolezza che i crediti edilizi contemplati dall’art. 5 sono pur sempre beni pubblici che, come tali, devono confrontarsi con la regola generale dell’incanto[4].

In via generale, si suole dire che la regola dell’incanto tutela almeno tre interessi: quello economico dell’Amministrazione, riconducibile al principio di buon andamento sancito dall’art. 97 Cost.; quello alla parità di trattamento tra potenziali contraenti, riconducibile principalmente all’art. 3 Cost.; e infine quello alla concorrenza tra le imprese, riconducibile principalmente ai principi dell’ordinamento comunitario. Si è osservato al riguardo che “l’asta è uno strumento di emulazione del mercato, che in molti casi serve a rimediare alla limitata conoscenza di un certo mercato da parte della pubblica amministrazione: poiché l’amministrazione non sa quale è l’impresa in grado di offrire le migliori condizioni, la seleziona con una gara. Non è questo il caso nelle vendite immobiliari, in cui si tratta di individuare non un’impresa che venda qualcosa, ma un acquirente che compri un certo bene; non la migliore prestazione disponibile, ma il soggetto disposto a offrire la cifra maggiore per quel bene. In altri termini, si tratta di paragonare non imprese e offerte, ma qualcosa di ancora meno prevedibile e misurabile, cioè l’interesse dei diversi potenziali acquirenti, che è (non semplicemente difficile, ma) impossibile da accertare in altro modo. In questo caso, quindi, l’asta non è un second best neanche in astratto, ma l’unica soluzione per giungere al risultato ottimale dell’offerta più alta[5].

La trattativa privata nella vendita dei beni pubblici è un’eccezione, che ricorre solo quando, per speciali ed appunto eccezionali circostanze non possano essere utilmente esperiti i pubblici incanti ovvero quando gli incanti e le licitazioni siano andate deserte o si abbiano fondate prove per ritenere che ove si sperimentassero andrebbero deserte (cfr. art. 41 R.D. n. 827/1924[6]).

Certamente non si possono applicare ai crediti edilizi le norme derogatorie che lo Stato ha dettato per facilitare l’alienazione dei propri immobili (cfr. art. 3, comma 99, l. n. 662/1996; art. 1, decreto-legge n. 332/1994; art. 7, decreto-legge n. 282/2002; art. 1, commi 433, 436, 437 e 438 l. n. 311/2004; art. 11-quinquies, decreto-legge n. 203/2005; art. 2, comma 223, l. n. 191/2009[7]).

Da queste premesse generali si trae la conclusione che non è nemmeno concepibile per i crediti edilizi pubblici una deroga totale e generalizzata alla regola dell’incanto.

Se però per la cessione dei crediti edilizi pubblici tutto converge, a livello di principio, verso la necessità di una procedura di evidenza pubblica, precisamente di un “incanto” ossia un’asta con possibilità di rilanci, la questione si complica assai a livello pratico, a cominciare dal fatto che l’oggetto della procedura non dipende dall’offerta pubblica, che di per sé include contemporaneamente tutti i crediti registrati dall’Ente, ma dalla domanda, e proseguendo col fatto che tutti i crediti, pubblici e privati, confluiscono pur sempre nello stesso registro generale: ciò impone di chiedersi quali siano il ruolo e la possibile utilità di un doppio regime di commercializzazione. Semplificando il ragionamento, può dirsi che il grado di utilità pratica dell’incanto (che suppone un confronto fra aspiranti acquirenti) è inversamente proporzionale alla quantità di crediti edilizi privati ancora disponibili, mentre è direttamente proporzionale al grado di vincolatività dell’utilizzo, in certe aree riceventi, di crediti di fonte pubblica anziché di quelli di fonte privata.

La stessa procedura di evidenza pubblica è difficile da declinare sul piano concreto: la pubblicità è garantita a monte dal Registro, mentre è tutta da costruire la regolazione della scelta del contraente (acquirente), a cominciare dall’elemento “prezzo”, che non sembra essere per i crediti pubblici l’unico elemento valutabile dell’offerta.

In altre parole, è lecito attendersi che il criterio di scelta dell’acquirente non si esaurirà nell’elemento economico ma si estenderà alla valutazione degli altri elementi comunicati dal richiedente: la qual cosa non sarebbe peraltro una novità, visto che già gli attuali regolamenti comunali per la gestione dei crediti edilizi e del registro dei crediti edilizi[8] prevedono che l’interessato, nel presentare la propria richiesta all’Ufficio preposto, specifichi non solo le quantità di “credito” che intende utilizzare o la proprietà del credito cui intende accedere, ma anche l’area specifica già edificabile (foglio e mappale) dove intende utilizzare il credito, o il tipo di utilizzo della potenzialità edificatoria richiesta con descrizione del contesto urbanistico di riferimento, prima e dopo l’intervento.

Al contempo, si deve considerare che soltanto una domanda qualificata dall’utilizzo finale (ampliamento piuttosto che sostituzione edilizia) potrebbe permettere al Comune di verificare l’uso “prioritario” dei crediti di origine pubblica negli interventi di cui all’art. 6 (v. infra).

Potrebbero inoltre trovare cittadinanza in certi casi limitati anche dei criteri aggiuntivi, di tipo tecnico-qualitativo, capaci di selezionare come migliore offerente il soggetto disposto a diventare partner del Comune nell’ambito di un’operazione complessa di riordino urbano, con relativi obblighi, diritti e facoltà.

Il problema di fondo, di non facile soluzione, è però come conciliare tutti questi ulteriori elementi di valutazione “di merito” col principio di libera circolazione dei crediti edilizi fissato in via generale, e non per i soli crediti di origine privata, dall’art. 4, comma 5, della legge: se infatti per aggiudicarsi i crediti iscritti dal Comune sarà necessario impegnarsi a usarli in un ampliamento, l’acquirente non potrà che usarli direttamente o vincolarsi a rivenderli solo a chi a sua volta intenda usarli allo stesso modo, il che (al netto della difficoltà di immaginare verifiche e o sanzioni applicabili ai successivi aventi causa) sposterà solo la questione a valle visto che anche tale ultimo acquirente dovrebbe a sua volta obbligarsi.

In attesa che la Giunta regionale definisca la questione, è presumibile che alla fine si scelga di prevedere come regola di base la pubblicazione in ogni caso dell’offerta pervenuta e l’assegnazione di un termine di rilancio a chi volesse concorrere in tutto o in parte per gli stessi crediti.

Un possibile criterio preferenziale potrebbe essere accordato, oltre che a chi offre di più per la stessa quantità di crediti[9], a chi sia disposto ad acquistare più crediti, e soprattutto (se si risolve il problema del rapporto col principio della libera circolazione) a chi intendesse acquistarli in funzione di un determinato utilizzo ritenuto a monte maggiormente rispondente al pubblico interesse.

Si potrebbe pensare, ancora, a una distinzione fra crediti pubblici in tutto omogenei a quelli privati e crediti pubblici “speciali” in quanto esercitabili solo in certe aree riceventi (sul tema, torneremo fra poco), e consentire ai secondi di essere messi sul mercato a trattativa privata coi soli proprietari interessati.

Come si vede, le soluzioni e soprattutto le ipotesi sono molteplici, come spesso avviene nelle materie esplorate tanto nella teoria quanto poco nella pratica.

Già solo questo fa capire come il successo applicativo dell’art. 5 dipenderà in larga misura dal modo in cui la Giunta regionale intenderà assolvere il compito assegnatole dall’art. 4, comma 1, lett. d), indicando appunto i casi e le modalità di svolgimento delle procedure volte a mettere sul mercato i crediti comunali: compito non facile, tenuto conto che la risorsa è limitata ma non esclusiva (il Registro contiene infatti anche i crediti di fonte privata), che una vera concorrenza fra richiedenti potrebbe profilarsi solamente quando davvero non siano disponibili o convenienti crediti di origine privata, utilizzabili senza le formalità e senza oneri di procedura, o quando a causa della pianificazione due o più aree debbano contendersi inevitabilmente crediti di origine pubblica.

4.2. La variante applicativa comunale di cui all’articolo 4, comma 2

La variante comunale applicativa di cui al secondo comma dell’art. 4 è la sede naturale per stabilire una disciplina locale di dettaglio o anche di deroga per i crediti edilizi comunali da rinaturalizzazione di cui all’articolo 5.

Sarà infatti tale variante, da approvare ai sensi del secondo comma dell’art. 4 entro dodici mesi dall’adozione del provvedimento della Giunta regionale di cui al primo comma del medesimo articolo, e successivamente con cadenza annuale, a individuare (tutti) i manufatti incongrui la cui demolizione sia di interesse pubblico, ad attribuire crediti edilizi da rinaturalizzazione sulla base dei parametri ivi indicati, a definire le condizioni della demolizione “del singolo manufatto” e della rinaturalizzazione del suolo, a individuare eventuali aree riservate all’utilizzo di (tutti) i crediti edilizi da rinaturalizzazione o delle aree “nelle quali sono previsti indici di edificabilità differenziata in funzione del loro utilizzo”.

Si tratta di un compito non facile per il Comune, proprio per la particolarità degli edifici pubblici[10].

I Comuni hanno tutto l’interesse a rendere appetibili i propri “crediti” da demolizione e sanno bene che tale appetibilità può dipendere talora dalla possibilità di riservare a tali crediti l’indice incrementale di alcune aree piuttosto che di altre.

In questa prospettiva, ci si deve chiedere se il Comune interessato possa stabilire una “priorità” anche nel senso di limitare ai soli crediti di fonte pubblica l’incremento premiale di una determinata area, se possa farlo con la variante semplificata di attuazione dei criteri operativi regionali di cui al secondo comma dell’art. 4, e come ciò interagisca con l’incanto prescritto in via generale in caso di commercializzazione di beni pubblici.

Come detto anche in sede di commento all’art. 4, cui si rinvia, la variante comunale applicativa deve stabilire in generale non solo il “valore derivante alla comunità e al paesaggio dall’eliminazione dell’elemento detrattore” in base a certi parametri (localizzazione, consistenza, costi di demolizione, bonifica e rinaturalizzazione; differenziazione in funzione delle tipologie di aree o zone di successivo utilizzo), ma anche individuare “eventuali aree riservate all’utilizzazione di crediti edilizi da rinaturalizzazione, ovvero delle aree nelle quali sono previsti indici di edificabilità differenziata in funzione del loro utilizzo” (così il comma 2, alle lettere a), b) e c)).

Può tale ultima previsione legittimare una “riserva” all’utilizzo di soli crediti di fonte pubblica?

La questione non si pone quando i crediti siano utilizzabili nello stesso perimetro urbano da cui originano ossia in un ambito comprensivo di edifici pubblici e privati, da attuare unitariamente.

Si pone per altri ambiti non vincolati ab origine all’attuazione unitaria, e implica un attento confronto con i principi generali, come la parità di trattamento, con i limiti naturali dell’azione amministrativa nel libero mercato, e appunto con l’obbligo generale dell’incanto.

La legge, nell’attribuire alla variante comunale la possibilità di porre condizioni cui subordinare la demolizione “del singolo manufatto” (così la lett. b), con probabile riferimento però alle condizioni materiali) e soprattutto quella di individuare aree “riservate all’utilizzazione di crediti edilizi da rinaturalizzazione” differenziando gli indici, non sembra escludere del tutto una ragionata soluzione positiva al quesito.

In attesa di verificare se la Giunta regionale vorrà definire anche tale questione, è da ritenere che sia possibile riconoscere ai Comuni il potere di differenziare anche in questo senso, con la variante applicativa, l’uso dei crediti di fonte pubblica, purché ciò avvenga in un ambito di ragionevolezza e senza creare una sorta di gerarchia assoluta fra crediti a danno di quelli privati.

Bisogna partire dalla constatazione che ogni credito edilizio sorge e dipende in definitiva dalle scelte amministrative del Comune, a ciò legittimato dalla legislazione statale (cfr. gli incrementi premiali di cui all’art. 1, comma 259, l. n. 244/2007) e naturalmente da quella regionale (art. 36, comma 4, l.r. n. 11/2004, secondo cui “Il PI individua e disciplina gli ambiti in cui è consentito l’utilizzo dei crediti edilizi, prevedendo l’attribuzione di indici di edificabilità differenziati in funzione degli obiettivi di cui al comma 1 ovvero delle compensazioni di cui all’articolo 37”).

Il credito edilizio è dunque espressione del potere conformativo spettante ai Comuni nella propria attività di pianificazione del territorio, alla quale è connaturata la facoltà intrinsecamente disuguagliante di porre condizioni e limiti al godimento del diritto di proprietà, anche di cubatura, volti al perseguimento di obiettivi di interesse generale realizzabili ad iniziativa privata o mista pubblico-privata. Lo stesso Registro dei crediti è del resto uno strumento funzionale al governo del territorio e per questo è parte integrante del Piano degli Interventi, le cui norme – da adeguare ora necessariamente alla nuova legge – devono regolarne la trasferibilità, l’utilizzo nell’ambito dei titoli abilitativi o dei piani attuativi, la compatibilità col PAT e con la disciplina urbanistica sovraordinata.

Pertanto, così come il Comune in sede di pianificazione può stabilire indici diversi “in funzione degli obiettivi di cui al comma 1” dell’art. 36 cit. (applicabile per tutto quanto non diversamente disposto dalla legge in commento, in forza dell’art. 4, comma 6), o può riservare aree all’utilizzo di crediti da rinaturalizzazione, altrettanto può ritenersi che possa assegnare e localizzare premialità condizionate all’acquisizione di crediti di fonte pubblica, in funzione dell’interesse pubblico al raggiungimento di determinati obiettivi e priorità di riqualificazione e col solo ma rigoroso limite generale della buona motivazione, che dovrà dare conto dell’esistenza del collegamento di dipendenza dell’intervento dalla contemporanea demolizione di alcuni volumi pubblici e non di altri privati. Tale dipendenza perciò non può mai essere motivata da mere ragioni economiche, ma da ragioni di politica urbanistica, ad esempio da necessità di riordino urbanistico comunque contestuale di determinati spazi urbani, o dalla previsione di un possibile accordo pubblico-privato che leghi la sorte di due aree (anche in ragione di quanto prevede l’art. 3, comma 3, lett. m) della l.r. n. 14/2017), o ancora e similmente dalla necessità che l’intervento premiato paghi crediti alla collettività per consentire o favorire altrove determinate azioni pubbliche di demolizione ad esso funzionalmente collegate, anche solo in parte, dallo strumento urbanistico (ad es. in un comparto discontinuo o “ad arcipelago” o in altre forme ancora).

Al di fuori di questi limiti, di ordine prettamente urbanistico, non sembra possibile che il Comune stabilisca per certe aree riceventi vincoli di esclusività o anche solo di priorità nell’utilizzo dei crediti edilizi pubblici a scapito di quelli privati, tenuto conto non solo del principio generale di libera commerciabilità dei crediti da rinaturalizzazione stabilito dal quinto comma dell’art. 4, che riguarda più che altro il negozio giuridico di trasferimento, ma anche dei principi costituzionali di uguaglianza, di libera iniziativa economica, di tutela della proprietà (artt. 3, 41 e 42 Cost.), e non ultimo anche dell’obbligo di pubblico incanto, che implica la ricerca della massima partecipazione privata[11].

4.3. L’utilizzo “prioritario” dei crediti di fonte pubblica negli interventi di cui all’articolo 6

Il primo comma dell’articolo 5 precisa che i crediti pubblici sono utilizzati nelle aree riceventi “prioritariamente” per gli ampliamenti di cui all’articolo 6, il cui comma 6 stabilisce appunto che “Le percentuali di cui ai commi 1 e 3 possono essere elevate fino al 60 per cento in caso di utilizzo, parziale od esclusivo, dei crediti edilizi da rinaturalizzazione”.

L’utilizzo dei crediti in parola nella sostituzione edilizia (art. 7), perciò, non è escluso ma relegato in posizione subordinata.

Con questa previsione, introdotta nel corso dell’iter consiliare, il legislatore regionale sembra esprimere una volontà di sostenere coi crediti pubblici anzitutto gli interventi di tipo “familiare”, sul presupposto statistico che quelli sostitutivi siano invece alla portata di imprese e in genere di soggetti economicamente più strutturati. Meno probabile è che il rapporto di priorità sia stato introdotto per motivazioni economiche ossia nella consapevolezza, indotta dall’esperienza di questi dieci anni di applicazione del “Piano Casa”, che gli ampliamenti sono più numerosi delle sostituzioni edilizie e quindi in grado di richiedere e assorbire più crediti: alla lettera, infatti, la “priorità” non è imposta ai privati che eseguono gli interventi ma, in direzione inversa, ai Comuni che generano i crediti.

Se questa è la lettura corretta della ratio della previsione preferenziale, si apre qui un altro spazio importante e problematico per il provvedimento della Giunta regionale di cui all’art. 4, comma 1, lett. d): la disposizione di legge non chiarisce infatti come e fino a quando i crediti di origine pubblica debbano essere impiegati per gli ampliamenti pur in presenza di una domanda proveniente da sostituzioni edilizie. Né si coordina facilmente – come abbiamo già detto con riferimento a qualsiasi criterio diverso da quello economico – col principio della libera circolazione, il quale suppone che il credito possa passare di mano più volte prima di “atterrare” in un’area ricevente.

Un possibile criterio attuativo potrebbe essere quello di stabilire la priorità solo in caso di compresenza effettiva e allo stesso tempo di più domande che possano esaurire il credito di origine pubblica: come a dire, se il credito non basta per tutti, è da preferire la sua destinazione agli ampliamenti, se e in quanto dichiarata dall’offerente, col risultato ed il rischio di orientare però la domanda generale verso i crediti privati che non soffrono di limitazioni particolari. Di sicuro, è difficile immaginare che un credito edilizio di cui al comma 1 – magari consistente – possa essere negato o sospeso a chi chiede di impiegarlo in un intervento sostitutivo, solo perché non sono ancora pervenute domande per impiegarlo (in tutto o più probabilmente solo in parte) in qualche ampliamento.

Ancora, a presidio dell’effettivo impiego dei crediti nella realizzazione degli ampliamenti di cui all’art. 6, non potendosi impedire a monte la libera circolazione dei crediti si potrebbe intervenire a valle, a livello negoziale e dunque volontario, col prevedere l’introduzione nell’atto notarile traslativo e trascrivibile di clausole penali per il caso in cui l’acquirente si renda inadempiente, cioè non rispetti l’impegno dichiarato, ad esempio perché rivende i crediti a soggetti interessati a realizzare altri tipi di interventi.

5. Il secondo comma: accordi e intese fra i Comuni e gli altri Enti pubblici proprietari

Il Comma 2 riafferma e accentua il ruolo centrale regolatorio dei Comuni, con lo stabilire che “I comuni possono concludere accordi o intese con gli enti pubblici proprietari di edifici degradati per addivenire alla loro demolizione e alla rinaturalizzazione dell’area, riconoscendo agli enti proprietari adeguati crediti edilizi da rinaturalizzazione”.

Si tratta di una fattispecie diversa da quella del comma 1, autonomamente disciplinata.

In questo caso, sembra che la misura “adeguata” dei crediti dipenda proprio e solo dall’accordo o dall’intesa di volta in volta conclusi dal Comune con altro ente pubblico proprietario di edifici degradati, non da criteri della Giunta regionale e neppure dalla variante o in generale dalla pianificazione comunale.

L’espressione “accordi o intese” pare un’endiadi: tuttavia, nel linguaggio del diritto pubblico l’intesa fra Enti ha natura di indirizzo politico-amministrativo e consiste solitamente in un atto di governance per convergere su obiettivi da regolare poi con uno strumento convenzionale compiuto, in questo caso l’accordo. L’intesa perciò non ha normalmente un valore vincolante dal punto di vista giuridico e si atteggia ad atto preliminare all’approvazione di un accordo o di una convenzione impegnativa che disciplini nel dettaglio le forme di impegno istituzionale, gli aspetti economici, i tempi e le modalità, la durata.

Nel caso di specie, l’accordo contemplato dalla disposizione in commento sembra essere una tipologia di accordo di programma fra enti pubblici, al quale nulla esclude che venga conferito effetto di “variante”, in presenza dei relativi requisiti.

5.1. Spazi discrezionali riconosciuti all’accordo

Il senso primo della disposizione sembra essere quello di attribuire a questo accordo un ruolo pressoché esclusivo nella disciplina della fattispecie.

Una conferma sistematica di ciò è data dal fatto che, come detto, la Giunta regionale è chiamata a dettare ai Comuni i criteri operativi da osservare per la cessione dei crediti edilizi generati da immobili pubblici comunali, mentre nulla dispone sugli immobili degli altri enti pubblici (art. 4, comma 1, lett. d).

Se dovesse essere inteso e soprattutto applicato in questa prospettiva, perciò, l’accordo di cui al comma 2 potrà tradursi in uno strumento di eccezionale portata e rilevanza, lasciato sostanzialmente alla discrezionalità e alla capacità di programmazione e gestione degli enti, libero da vincoli o criteri particolari e sottoposto solo ai principi generali di buon andamento e ragionevolezza dell’azione amministrativa. Tali principi sono comunque sufficienti a imporre, sempre e comunque, una piena trasparenza e una compiuta giustificazione delle scelte, e a vietare ogni arbitrio nella determinazione dei crediti e della misura della loro “adeguatezza”.

L’accordo dovrebbe contenere in pratica l’intera disciplina operativa di riferimento e quindi definire i tempi, i costi e le incombenze della demolizione e dell’eventuale bonifica, e in questo senso potrebbe attribuire al Comune almeno una parte dei crediti se e in quanto sia il Comune ad accollarsi alcuni costi, o prevedere per fini di pubblico interesse che le aree rinaturalizzate a seguito di demolizione siano messe a disposizione della collettività locale, o ancora delegare il Comune a procedere alla vendita a terzi dei crediti edilizi per conto degli enti pubblici proprietari; in generale, sembra demandata all’accordo la declinazione nel singolo intervento di tutti i contenuti che normalmente negli altri casi sono dettati dalla variante comunale di cui all’art. 4, comma 2.

6. Il terzo comma: la destinazione degli introiti

Il terzo e ultimo comma prevede l’istituzione di un apposito fondo comunale per le somme ricavate dalla vendita dei crediti sia del Comune che degli altri enti pubblici, che “sono destinate prioritariamente ad interventi di demolizione di altri manufatti incongrui”.

Tale espressione si riferisce a manufatti diversi da quello che genera il credito edilizio (“altri manufatti incongrui”) e pone un vincolo preferenziale di destinazione che, se non esclude altri utilizzi, li rende eccezionali e li subordina ad adeguata motivazione. Può essere però interpretata anche in un senso più stingente e vincolistico per i Comuni ossia come obbligo di impiegare i ricavi in interventi di demolizione fino a esaurimento di questi.

Molto diversa era la corrispondente disposizione del progetto di legge licenziato dalla Giunta (ivi art. 6, comma 3), secondo la quale “Per gli immobili pubblici comunali di cui siano programmati la demolizione e il successivo intervento di rinaturalizzazione o comunque la realizzazione degli interventi di cui al comma 2, i comuni, dopo l’approvazione da parte della Giunta regionale dei criteri di cui all’articolo 5, comma 1, lettera e) (corrispondente all’attuale art. 4, comma 1, lett. d) – n.d.r.), possono procedere alla cessione nel mercato dei crediti edilizi generati da tali immobili, fermo restando che le somme al riguardo introitate sono vincolate ad interventi di demolizione di manufatti che generano il credito edilizio”. Questa prima versione della norma stabiliva un vincolo di destinazione dei ricavi assoluto e non una semplice “priorità”, e supponeva la successiva e non preventiva demolizione del manufatto pubblico incongruo e l’utilizzo quindi di un credito edilizio già generato con la sola previsione della demolizione per finanziare anzitutto quella stessa demolizione e poi col residuo la demolizione anche di altri manufatti; corrispondentemente, i “criteri operativi” della Giunta riguardavano la cessione nel mercato dei crediti generati da immobili pubblici comunali “di cui è programmata la demolizione con successivo intervento di rinaturalizzazione”.

Nella versione approvata dal Consiglio regionale, invece, la “destinazione” dei ricavi è “prioritaria”, e non è necessariamente limitata alla demolizione di edifici pubblici o alla generazione di crediti edilizi: la disposizione si riferisce generalmente agli “altri manufatti incongrui”.

Si può quindi immaginare sia un “circolo virtuoso” in cui i crediti siano usati per demolire manufatti pubblici e generare così altri crediti edilizi pubblici, sia un utilizzo dei ricavi per finanziare la demolizione di manufatti privati, quando riconosciuta di interesse pubblico dal Comune con la variante di cui all’art. 4, comma 2. In tale secondo caso, peraltro, l’impiego dei crediti presuppone un convenzionamento.

6.1. L’apposito fondo comunale

La disposizione prevede che somme vengano introitate “in apposito fondo comunale”.

Tale fondo comunale di finanziamento delle demolizioni concorre pertanto, nell’obiettivo, con quello regionale istituito ai sensi dell’art. 10 della l.r. n. 14/2017 per l’esecuzione degli interventi di demolizione integrale di cui all’art. 5, comma 1, lett. a) della medesima legge: tale istituto regionale ha già trovato prima attuazione col Bando pubblicato con DGR n. 1133 del 31 luglio 2018, al quale hanno potuto partecipare i Comuni, gli enti pubblici, gli organismi di diritto pubblico ed associazioni, singolarmente o in forma associata, ma anche soggetti privati.

È ragionevole ritenere che la disciplina del funzionamento dell’“apposito fondo comunale” sia stata lasciata consapevolmente all’autonomia del Comuni, vista la scala locale e la natura puntuale degli interventi da sostenere: la Giunta regionale non si occuperà del tema col provvedimento di cui all’art. 4, comma 1, lett. d), visto che non riguarda i “criteri operativi” per la cessione sul mercato dei crediti edilizi da rinaturalizzazione generati da immobili pubblici “comunali”.

Sarà interessante verificare quindi se e in quale misura nell’istituire il proprio fondo dedicato i Comuni vorranno replicare su scala locale, mutatis mutandis, il modello regionale, delineato dal provvedimento della Giunta regionale previsto dall’art. 4, comma 2, lett. g) della l.r. n. 14/2017, o se vorranno seguire impostazioni completamente diverse.

Il “fondo comunale”, alla lettera, riguarda indistintamente le somme introitate a seguito della cessione nel mercato dei crediti edilizi generati da immobili di cui al comma 1 e quindi, si direbbe, anche da immobili appartenenti ad altri enti pubblici. Il che sembra tuttavia possibile solo nel caso in cui i crediti siano nel frattempo transitati, sulla base dell’accordo, nella titolarità del Comune, ad esempio in forza di una preventiva alienazione al Comune dell’immobile o per via della partecipazione del Comune alle spese di rinaturalizzazione, o in dipendenza di altre pattuizioni specifiche.

Nella generalità dei casi tuttavia il credito è attribuito all’Ente proprietario, il che induce a concludere che l’espressione contenuta nel terzo comma in realtà faccia riferimento agli introiti dalla vendita di crediti edilizi generati dalla demolizione di edifici di proprietà comunale.

7. Considerazioni ulteriori. Mancanza, allo stato, di incentivi fiscali (di fonte necessariamente statale)

È noto che le dismissioni dei beni immobili dello Stato sono incentivate da una serie di agevolazioni di natura fiscale, quali l’esenzione dall’imposta di registro, dall’imposta di bollo, dalle imposte ipotecaria e catastale e da ogni altra imposta indiretta, nonché da ogni altro tributo o diritto, e finanche l’esonero dalla garanzia per vizi e per evizione per l’acquirente in caso di rivendita.

L’acquisto dei crediti edilizi di fonte pubblica, invece, non trova per il momento alcuna particolare agevolazione fiscale, che dovrebbe nel caso sempre e comunque promanare dalla legge statale[12].

7.1. Cenni sulle diverse metodologie di determinazione dei crediti edilizi e sulla loro applicazione ai crediti di fonte pubblica

Quanto ai metodi di valutazione immobiliare del patrimonio edilizio pubblico in demolizione, si è detto che la Giunta regionale dovrebbe dettare criteri almeno ai Comuni ai sensi dell’art. 4, comma 1, lett. d).

Per ora, può dirsi che la prassi del settore delle dismissioni del patrimonio edilizio pubblico, utile parametro di confronto anche per la valorizzazione dei manufatti da demolire, segue a seconda dei casi il metodo sintetico–comparativo, il metodo del valore di trasformazione e il metodo del valore di sostituzione.

Senza pretesa di esaustività e al solo scopo di fornire qualche utile indicazione di riferimento circa la possibile applicazione di questi criteri al patrimonio edilizio pubblico da valorizzare in termini di rinaturalizzazione, può dirsi in estrema sintesi quanto segue.

Il primo metodo estimativo consente di stimare il valore di un bene attraverso i prezzi di vendita di immobili comparabili per caratteristiche immobiliari e localizzazione, ponderando i valori in funzione delle caratteristiche specifiche del cespite (stato manutentivo, stato occupazionale, vetustà, ecc.). Il metodo, che fa uso delle quotazioni OMI, è perciò adatto ai soli edifici pubblici per i quali esistano prezzi di mercato di beni comparabili (abitazioni, uffici, palazzi storici, fabbricati per attività produttive, magazzini e locali deposito, strutture residenziali collettive, parcheggi collettivi, cantine e box/garage, laboratori scientifici, locali commerciali e negozi, alberghi e pensioni), mentre per le tipologie immobiliari con destinazione speciale (caserme, scuole, ospedali, carceri e impianti sportivi) non sono disponibili appropriati prezzi OMI e quindi vanno necessariamente utilizzati gli altri due metodi.

Il metodo del valore di trasformazione stima il valore di un immobile come differenza tra il valore del “prodotto finito” e i costi necessari per la sua realizzazione, e per tale motivo è chiamato anche “del Valore residuo” o “Residual value”. Viene generalmente utilizzato per la determinazione del valore di aree edificabili e di immobili da valorizzare attraverso interventi di riqualificazione, trasformazione e sviluppo. Il valore finale è dato dalla differenza tra il valore del prodotto finito, i costi necessari alla trasformazione e il profitto atteso, tenendo conto della complessità dell’intervento e dei tempi necessari all’ottenimento di permessi e autorizzazioni e al completamento delle opere, cui corrispondono, necessariamente, impatti sugli oneri finanziari.

Il metodo del valore di sostituzione, infine, stima il valore di un immobile in termini del costo necessario per la sua riproduzione o sostituzione con uno avente le stesse caratteristiche (cd. costo di ricostruzione deprezzato) e implica la valutazione dell’area, la stima dei costi di costruzione, la stima dei fattori di apprezzamento/deprezzamento. Il valore finale è determinato in base al costo necessario per la costruzione del bene “come nuovo”, deprezzato in funzione della sua vetustà e obsolescenza tecnologica, in coerenza con la vita utile residua dell’immobile. La perdita di valore può essere dovuta al deterioramento fisico o all’obsolescenza funzionale e tecnologica, secondo formule determinate.

La scelta fra questi due ultimi metodi viene normalmente effettuata in base all’utilizzo attuale del bene immobile pubblico oggetto di valutazione: se il bene immobile pubblico è ancora in uso, si applica di solito il metodo di sostituzione; se il bene non è più in uso – e potrebbe essere questo il caso più frequente ai fini dell’art. 5 – si applica solitamente il metodo di trasformazione.

Nel caso di un compendio immobiliare formato da più unità, alcune utilizzate ed altre no, si ricorre a combinazioni fra metodi diversi.

Naturalmente, all’interno delle tre metodologie si possono distinguere ulteriori declinazioni particolari, delle quali tuttavia non vi è qui modo di dare conto. L’importante è comprendere che la determinazione dei crediti da demolizione di un edificio pubblico è operazione assai complessa, potenzialmente arbitraria, e che proprio per prevenire arbitrii (che finirebbero per alterare il mercato dei crediti) deve essere condotta in base a metodologie controllabili e verificabili, adeguatamente motivate.

 

[1] Cfr. Ministero dell’Economia e delle Finanze – Ufficio Stampa – Comunicato n. 76 del 9 maggio 2018 – “Censimento MEF: il valore patrimoniale degli immobili pubblici (fabbricati) stimato in 283 miliardi”, in http://www.dt.tesoro.it/export/sites/sitodt/modules/documenti_it/programmi_cartolarizzazione/patrimonio_pa/Modello_Stima_Valore_Immobili_Pubblici.pdf.

La valutazione è stata elaborata con metodi statistici, matematici ed estimativi standard, sulla base dei dati dichiarati da circa 7.500 Amministrazioni coinvolte nella rilevazione dei beni immobili riferita all’anno 2015, condotta dal Dipartimento del Tesoro nell’ambito del progetto Patrimonio della PA. in collaborazione con SOGEI, coinvolgendo, per un confronto tecnico-scientifico, le altre istituzioni pubbliche competenti nel settore (Dipartimento territorio dell’Agenzia delle entrate, ISTAT, Agenzia del demanio e SIDIEF (Banca d’Italia).

Il modello non ha permesso di stimare il valore di mercato di singoli immobili, né il ricavo conseguibile dalla loro dismissione, ma – leggiamo nel comunicato stampa – “arricchisce il sistema conoscitivo del MEF e fornisce un nuovo strumento all’autorità politico-amministrativa, anche locale, per individuare interventi di valorizzazione con riferimento sia alla vasta categoria di beni non direttamente utilizzati sia a quella degli immobili attualmente utilizzati dalla P.A. in un’ottica, in questo secondo caso, volta ad un più razionale utilizzo degli spazi”.

[2] L’art. 823 c.c. dispone che i beni demaniali sono «inalienabili e non possono formare oggetto di diritti a favore di terzi, se non nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi che li riguardano». L’incommerciabilità così sancita comporta che sono nulli di diritto gli eventuali atti dispositivi di beni demaniali posti in essere dalla Pubblica amministrazione; i beni in parola, infatti, hanno un vincolo reale che rende impossibile l’oggetto ai fini dell’art. 1418 c.c. (cfr. ad es. Cass., 20 aprile 2001 n. 5894).

La giurisprudenza si è espressa nel senso che la destinazione a fini pubblici “costituisce il requisito essenziale che contraddistingue un bene demaniale, a prescindere dal suo inserimento tra le categorie normativamente previste” (cfr. Cass., 21 aprile 1999, n. 3950).

[3] L’Agenzia del Demanio è un interlocutore qualificato e privilegiato, in quanto persegue istituzionalmente l’obiettivo di massimizzare il valore economico del patrimonio pubblico e di contribuire allo sviluppo economico-produttivo, sociale e culturale dei territori nei quali i beni sono inseriti.

[4] Art. 3, R.D. n. 2440/1923: «I contratti dai quali derivi un’entrata per lo Stato debbono essere preceduti da pubblici incanti, salvo che per particolari ragioni, delle quali dovrà farsi menzione nel decreto di approvazione del contratto, e limitatamente ai casi da determinare con il regolamento, l’amministrazione non intenda far ricorso alla licitazione ovvero nei casi di necessità alla trattativa privata»

[5] Così B. G. Mattarella, “L’asta come strumento di dismissione di beni pubblici”, in Quaderni della Fondazione Italiana del Notariato (www.elibrary.fondazionenotariato.it ).

[6] Che l’asta pubblica costituisca il metodo normale di scelta dell’acquirente privato venne previsto già dalla l. n. 783/1908 (art. 3), recante l’unificazione dei sistemi di alienazione e di amministrazione dei beni immobili patrimoniali dello Stato. Tale legge, unitamente al relativo regolamento di esecuzione adottato con R.D. 17 giugno 1909, n. 454, costituisce ancora oggi la normativa di base per l’alienazione del patrimonio immobiliare statale, integrata poi dalla legge di contabilità di Stato (R.D. n. 2440/1923) e dal suo regolamento (R.D. n. 827/1924).

[7] Negli ultimi due decenni la dismissione degli immobili pubblici ha seguito principalmente due strade: l’alienazione diretta, ma soggetta a discipline speciali, e la costituzione di società cui è stata affidata la gestione e l’alienazione degli immobili delle amministrazioni (di qui l’esperienza negativa della cartolarizzazione degli immobili pubblici, interrotta dall’art. 43-bis del decreto-legge n. 207/2008 che ha disposto la retrocessione dei beni conferiti alle relative società e ha affidato agli enti originariamente proprietari il compito di completare i processi di dismissione).

Entrambi i percorsi sono stati oggetto di discipline derogatorie, per lo più adottate con procedure d’urgenza, per consentire il ricorso alla trattativa privata.

Ad esempio, l’Agenzia del Demanio può vendere a trattativa privata le quote indivise di beni immobili, i fondi interclusi e i diritti reali su immobili di cui è titolare lo Stato. Più precisamente, a norma dell’art. 1, comma 433, decreto-legge n. 311/2004, «nell’ambito delle attività volte al riordino, alla razionalizzazione e alla valorizzazione del patrimonio immobiliare dello Stato, l’Agenzia del demanio è autorizzata, con decreto dirigenziale del Ministero dell’economia e delle finanze, a vendere a trattativa privata, anche in blocco, le quote indivise di beni immobili, i fondi interclusi nonché i diritti reali su immobili, dei quali lo Stato è proprietario ovvero comunque è titolare. Il prezzo di vendita è stabilito secondo criteri e valori di mercato, tenuto conto della particolare condizione giuridica dei beni e dei diritti. Il perfezionamento della vendita determina il venire meno dell’uso governativo, delle concessioni in essere nonché di ogni altro eventuale diritto spettante a terzi in caso di cessione».

È da ritenere che questa disciplina, data l’ampiezza del perimetro indicato (“quote indivise di beni immobili” e tutti i “diritti reali su immobili, dei quali lo Stato è proprietario ovvero comunque è titolare”) sia estensibile ai crediti edilizi da rinaturalizzazione derivanti dalla demolizione di fabbricati gestiti dall’Agenzia.

[8] Cfr. ad esempio quello del Comune di Padova, approvato con delibera consiliare n. 2/2017.

[9] Il criterio dell’offerta più alta produce risultati insoddisfacenti quando l’offerta più alta risulta sensibilmente inferiore al “valore di mercato” che l’Ente attribuisca al bene. Per prevenire questi esiti, si ricorre spesso alla fissazione di un prezzo minimo che può anche non essere reso pubblico, in modo da stimolare offerte più alte.

[10] Bisogna chiedersi se con la medesima variante il Comune possa occuparsi anche dei manufatti incongrui appartenenti ad altri enti pubblici. C’è infatti un rischio di sovrapposizione e di potenziale contrasto con gli specifici accordi da stipulare a norma del comma 2 “con gli enti pubblici proprietari di edifici degradati per addivenire alla loro demolizione e alla rinaturalizzazione dell’area”.

È ragionevole ritenere che la variante comunale possa individuare i manufatti incongrui appartenente ad altri enti pubblici, al limite dettare qualche direttiva o indirizzo, facendo comunque salvi gli eventuali accordi conclusi con altri enti per singoli edifici degradati.

[11] Se il proprietario può utilizzare il credito in un’unica area, la determinazione del valore del credito e del suo ammontare pone semplicemente un problema di stima del potenziale volumetrico da esprimere nell’unica area indicata dall’Amministrazione. Se invece il credito è impiegabile in più aree con caratteristiche diverse, il credito edilizio non ha un valore di riferimento ed è contendibile a seconda della domanda.

Il tema dell’obbligatorietà o della facoltà di acquisire i crediti edilizi da parte dei proprietari delle aree indicate dall’amministrazione era già stato affrontato in termini generali nel “parere” assegnato alla II Commissione regionale intorno all’art. 46, comma 1, lett. c) della l.r. n. 11/2004, pubblicato senza i crismi dell’ufficialità nel 2016 sul sito ufficiale della Regione Veneto, nella sezione Ambiente e Territorio.

[12] Altro e diverso tema è quello dell’agevolazione fiscale introdotta dall’art. 7 del decreto-legge 30 aprile 2019, n. 34 (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 100 dello scorso 30 aprile ed entrato in vigore lo scorso 1° maggio), valida fino al 31 dicembre 2021, per i trasferimenti di interi fabbricati a favore di imprese di costruzione o di ristrutturazione che, entro i successivi dieci anni, provvedano sia alla demolizione e ricostruzione degli stessi, nel rispetto della normativa antisismica e col conseguimento della classe energetica A o B, anche con variazione di volume rispetto al fabbricato preesistente laddove ammessa dalle norme urbanistiche, sia all’alienazione finale (si applicano l’imposta di registro e le imposte ipotecaria nella misura fissa di € 200). L’agevolazione incentiva il recupero dell’intero fabbricato e quindi un’effettiva sua ricostruzione, e prescinde dal fatto che la destinazione d’uso risulti, a ristrutturazione eseguita, differente da quella originaria.

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