Commento all’art. 9 l.r. n. 14/2019

Commento all’art. 9 l.r. n. 14/2019: A. Il quadro di riferimento normativoB. Gli interventi in aree a rischio idraulico e idrogeologico

Gli interventi in aree a rischio idraulico e idrogeologico

di Livio Viel

Sommario: 1. Cenni generali2. Le precedenti norme della legge regionale 14/2009 e quelle della nuova legge 14/20193. L’ambito d’applicazione della norma. Gli edifici presenti nelle aree di pericolosità idraulica o idrogeologica elevata (P3) o molto elevata (P4)4. L’area di trasferimento (“ricostruzione”) della volumetria. La premialità dell’incremento volumetrico o di superficie5. Gli edifici residenziali6. La demolizione dell’edificio e la rinaturalizzazione del suolo. Le garanzie e le sanzioni 7. L’inapplicabilità degli artt. 6 e 7 della legge agli edifici ricostruiti perché trasferiti dalle aree di elevata o molto elevata pericolosità – L’applicazione altrimenti degli stessi artt. 6 e 7 per gli edifici ricadenti nelle aree di pericolosità idraulica moderata (P1) e media (P2)

1. Cenni generali

L’articolo 9 della legge regionale 4 aprile 2019, n. 14 ripropone, all’interno della nuova legge regionale sulla riqualificazione urbana e sulla rinaturalizzazione del territorio, la disposizione che era stata temporaneamente introdotta dall’art. 7 della legge regionale 32 del 2013 (c.d. “Terzo Piano Casa”) che aveva inserito l’art. 3 quater nella legge regionale 8 luglio 2009, n. 14 la cui scadenza era stata fissata al 30 dicembre 2018.

La norma in esame (che porta il titolo “interventi su edifici in aree dichiarate di pericolosità idraulica o idrogeologica”: lo stesso titolo della precedente, salva la “o” che in precedenza era una “e” peraltro già chiaramente disgiuntiva) era stata salutata nel 2013 come una delle novità più rilevanti e di maggior impatto del “Piano Casa”[1], poiché per la prima volta nella legislazione regionale veneta le aree ad alto rischio idraulico e idrogeologico venivano considerate dalla legge non più solo in termini di divieto ma anche di possibilità di recupero, tramite rilocalizzazione, di quelle volumetrie e superfici di fabbricati esistenti all’interno di aree caratterizzate dalle suddette “fragilità” territoriali.

In termini sintetici, si può dire che la disposizione già introdotta a termine, nel 2013, dal legislatore veneto[2] e appunto adesso confermata in via definitiva, consente di spostare (si sono anche utilizzati i termini “delocalizzare” o “rilocalizzare”) gli edifici presenti nelle aree a rischio idrogeologico o idraulico in altre aree, comunque ritenute idonee a riceverli, nelle quali non sia presente lo stesso rischio e neppure altri vincoli d’inedificabilità. Lo spostamento avviene attraverso l’integrale demolizione dell’esistente edificio con recupero della volumetria nella costruzione di un nuovo edificio, in zona atta a riceverlo, altresì con la possibilità di usufruire di un “premio” volumetrico o superficiario aggiuntivo, con un incremento adesso sino al cento per cento del demolito (laddove precedentemente il limite era del cinquanta per cento).

Esaurito il termine di vigenza del piano casa, la nuova legge regionale 14/2019 ha così ritenuto di confermare, con l’art. 9 in commento, la previsione di cui al citato previgente art. 3 quater, peraltro introducendo alcune significative novità.

2. Le precedenti norme della legge regionale 14/2009 e quelle della nuova legge 14/2019

La precedente norma di cui all’art. 3 quater della l.r. n. 14/2009 ha già costituito oggetto di attenzione da parte di autorevoli Autori nei commentari che hanno accompagnato, all’epoca, l’introduzione della previsione di cui trattasi[3]: stante la completezza di quei commenti, il presente non potrà aggiungere gran che agli stessi e pertanto sarà fondamentalmente inteso a ripercorrere quanto appunto colà già analizzato ed esplicato, intendendo peraltro sottolineare alcuni aspetti problematici della precedente e dell’attuale formulazione normativa, nonché le novità rispetto all’originario testo.

Come già nel “Piano Casa”, la nuova legge sulla riqualificazione urbana e la rinaturalizzazione del territorio non si occupa della “sicurezza delle aree dichiarate di pericolosità idraulica o idrogeologica” solamente con l’art. 9 in commento, ma in almeno altre due occasioni: vale a dire all’art. 1, definendo le finalità perseguite dalla Regione con la legge in commento e all’art. 3, enumerando tra i casi in cui è esclusa l’applicazione delle norme “premiali” sull’ampliamento degli edifici (art. 6) e sulla riqualificazione attraverso la demolizione e la ricostruzione (art. 7) proprio le aree di elevata pericolosità idraulica e idrogeologica, per le quali viene invece confermata la possibilità di demolire e ricostruire altrove gli edifici.

Per quanto attiene alla previsione di cui all’art. 1, la nuova norma definisce la “sicurezza delle aree dichiarate di pericolosità idraulica o idrogeologica” quale “misura” volta specificamente a perseguire il fondamentale scopo – di cui allo stesso art. 1 – del contenimento del consumo di suolo e della rigenerazione e riqualificazione del patrimonio immobiliare. La sicurezza idraulica e idrogeologica, dunque, rientra a tutti gli effetti nelle fondamentali finalità della riqualificazione urbana e della rinaturalizzazione del territorio: del resto già la legge urbanistica regionale n. 11/2004 primo comma, sub lett. e) dell’art. 2 aveva stabilito come obiettivo della pianificazione urbanistica proprio la “messa in sicurezza degli abitati e del territorio dai rischi sismici e di dissesto idrogeologico”.

Pare evidente dunque che con la nuova legge regionale 14/2019 l’attenzione del legislatore si vada spostando da una visione fondamentalmente e tradizionalmente “urbanistica” (nella quale il problema era essenzialmente costituito dalla necessità di costruire bene e razionalmente la città) ad altra, per così dire maggiormente “territoriale”, nella quale il legislatore regionale ha preso atto dell’emersione di tematiche e questioni legate al consumo di suolo, alla sostenibilità e ai costi dello sviluppo urbano e dell’antropizzazione, all’ambiente e all’economia circolare, ai cambiamenti climatici e appunto, non ultime, alle problematiche del dissesto idrogeologico.

Come detto, l’altra norma della l.r. n. 14/2019 in cui sono considerate le aree di pericolosità idraulica o idrogeologica è l’art. 3, lett. g): in forza di tale disposizione – lo si è già ricordato – sono espressamente escluse dal novero d’applicazione degli articoli 6 e 7 (aventi rispettivamente ad oggetto l’ampliamento e la riqualificazione del tessuto edilizio) i fabbricati “ricadenti in aree dichiarate di pericolosità idraulica o idrogeologica molto elevata (P4) o elevata (P3) dai piani stralcio di bacino per l’assetto idrogeologico (omissis) nelle quali non è consentita l’edificazione ai sensi del D. Lgs. 3 aprile 2006 n. 152, fatte salve le disposizioni di cui all’art. 9”.

Anche nel caso della lett. g) dell’art. 3 citato, come nel caso dell’art. 9 in commento, la l.r. n. 14/2019 ha integrato la previsione di cui al “piano casa” offrendo una più che opportuna specificazione di quali effettivamente siano le aree interessate dalle disposizioni di cui trattasi.

3. L’ambito d’applicazione della norma. Gli edifici presenti nelle aree di pericolosità idraulica o idrogeologica elevata (P3) o molto elevata (P4)

La prima questione che si pone leggendo la norma è costituita dall’individuazione del suo ambito operativo: infatti, trattasi d’individuare esattamente le “aree” e gli “edifici” che possono essere interessati dalla disposizione che può oramai considerarsi una sorta di “istituto” urbanistico a sé stante. La fattispecie in questione è infatti complessa, essendo caratterizzata da almeno tre elementi: un elemento geometrico, la “volumetria” (o altrimenti anche la “superficie”) costituito da un edificio già presente all’interno di un’area definita di elevata o molto elevata pericolosità (secondo elemento) e altresì una zona di “ricostruzione” delle volumetrie (maggiorate di un “bonus” planivolumetrico), con relative destinazioni d’uso.

Gli edifici da trasferire. Il primo elemento è rappresentato da un oggetto concreto, identificato con il termine di “edificio[4]; la legge in commento non contiene definizione di tale termine[5]: nel silenzio anche della legislazione statale[6], non resta che ricostruire il concetto attraverso la giurisprudenza. Quest’ultima ha elaborato la definizione di “edificio” essenzialmente per distinguerla da quella di “costruzione” ai fini dell’osservanza delle norme sulle distanze legali, così che “la nozione di costruzione non può identificarsi con quella di edificio[7] (nel senso che la prima concerne un novero di manufatti ben più vasto del secondo) mentre quest’ultimo, in base alla giurisprudenza maturata a seguito dei tre “condoni edilizi” (che si applicavano agli “edifici” volta a volta già “ultimati”), va identificato in quei manufatti realizzati per ospitare persone o animali oppure beni (macchine, attrezzature o materiali), peraltro “necessariamente comprensivi delle tamponature esterne, che realizzano in concreto i volumi, rendendoli individuabili e esattamente calcolabili[8].

Stante il diretto riferimento al concetto di “edificio”, la norma sul trasferimento dei volumi e delle superfici già presenti nelle aree di alta o molto alta pericolosità idrogeologica dovrebbe pertanto applicarsi a quei manufatti in grado di definire un corpo geometrico concluso, per i quali comunque sia appunto possibile individuare ed esattamente calcolare (per usare la terminologia della giurisprudenza) i volumi o le superfici.

Occorre rilevare che la disposizione non prevede che gli edifici oggetto del “trasferimento” siano provvisti di titolo edilizio o, meglio, che essi non siano abusivi. L’art. 3 della legge, invero, prevede espressamente, ma per i soli casi di cui agli artt. 6 e 7, la “non abusività” (anche solo parziale): nulla dice invece per i casi di cui ai primi commi dell’art. 9: considerandosi peraltro che la norma ha carattere eccezionale[9] e non può prestarsi ad interpretazioni estensive, soprattutto in considerazione del suo contenuto premiante e derogatorio: cosicché parrebbe davvero eccessivo e non rispettoso di fondamentali principi anche di rango costituzionale consentire a chi ha realizzato abusivamente un edificio in area di pericolosità di recuperarne la volumetria e addirittura di aumentarla, magari se ad uso residenziale in area non propria. Non pare dunque che il mancato richiamo all’art. 9 in commento, da parte del quarto comma dell’art. 3, possa dunque interpretarsi come una volontà del legislatore di “legittimare” (trasferendole) le volumetrie abusive nelle aree di pericolosità, apparendo invece e piuttosto ultronea e neppure necessaria – tanto scontato essendo il principio colà affermato – proprio la disposizione dello stesso art. 3 al cui commento si rinvia.

Il secondo elemento chiamato dall’art. 9 a costituire il contenuto della fattispecie di cui al trasferimento degli edifici dalle aree di pericolosità, è costituito proprio dall’esatta individuazione delle aree di cui trattasi.

Come si è già detto, nelle disposizioni di cui all’art. 3 quater e all’art. 9, lett. g) della l.r. n. 14/2009 (come modificata dalla legge regionale n. 32/2013) le aree di cui trattasi erano individuate, per quanto attiene all’art. 9 come quelle “ricadenti in aree dichiarate ad alta pericolosità idraulica e nelle quali non è consentita l’edificazione ai sensi del D. Lgs. 3 aprile 2006 n. 152” laddove invece all’art. 3 quater il piano casa identificava le “aree dichiarate ad alta pericolosità idraulica o idrogeologica” con una significativa differenza, costituita dal fatto che all’art. 9 il riferimento era solamente alla “pericolosità idraulica” mentre all’art. 3 quater veniva considerata, oltre alla pericolosità idraulica, anche quella “idrogeologica”.

La differenza non aveva mancato di attirare l’attenzione dei commentatori e della stessa giurisprudenza del Tribunale Amministrativo: quanto ai primi, si era osservato che l’ambito di pericolosità elevata o molto elevata di cui alla lettera g) dell’art. 9 del piano casa andasse inteso “in senso atecnico dovendosi necessariamente ricomprendere in tale espressione tutte le condizioni di rischio cui consegua il veto alla fabbricazione, che siano genericamente riconducibili a condizione di dissesto idrogeologico e non solo idraulico”[10] mentre nel caso della disposizione di cui all’art. 3 quater dello stesso piano casa “non si richiede il requisito ulteriore dell’inedificabilità assoluta ai sensi del d.lgs. n. 152/2006 (Testo Unico dell’Ambiente) essendo quindi sufficiente la sussistenza di una pericolosità attestata di grado alto”. Così che “non impedisce l’applicazione della previsione il fatto che il peculiare regime giuridico dell’area permetta ancora talune attività (di regola molto limitate) di tipo edilizio[11].

Diversamente dalla dottrina, la giurisprudenza che si è occupata del problema ha invece ritenuto che “la norma di cui all’art. 3 quater e i benefici volumetrici ivi previsti siano applicabili solo a quelle aree in cui è presente l’edificio da demolire per le quali i piani stralcio del PAI prevedano il divieto di realizzare interventi di nuova costruzione a causa della presenza di condizione di dissesto idraulico idrogeologico”.[12]

Secondo la giurisprudenza citata, se è vero che con l’art. 3 quater il legislatore regionale “non ha fornito una definizione puntuale e tassativa dei presupposti necessari all’applicazione del premio volumetrico, dato che si riferisce alle aree ad alta pericolosità idrogeologica” tuttavia “tale disposizione deve essere letta alla luce di quanto prevede l’art. 9, comma 1, lett. g)” per il quale appunto “non è consentita l’edificazione ai sensi del D.Lgs 3 aprile 2006 n. 152” essendo secondo il TAR Veneto “implicito che siano esclusi dall’applicazione della legge regionale gli edifici ricadenti in aree che presentino aspetti di pericolosità sia idraulica che idrogeologica e per le quali la relativa pianificazione preveda l’inedificabilità. Per gli edifici ricadenti in dette aree è stato approvato l’art. 3 quater che invece incentiva lo spostamento di detti edifici in aree non a rischio”. Dunque, ne discende che “alla luce della lettura congiunta delle disposizioni di cui agli artt. 3 quater e 9, comma 1, lett. g) risulta che il legislatore ai fini dell’applicabilità dei benefici volumetrici richiede che la pianificazione di settore, ovvero il piano stralcio del PAI previsto dal D. Lgs. 3 aprile 2006 n. 152 preveda l’impossibilità, a causa del rischio idraulico o idrogeologico esistente, di eseguire interventi di nuova edificazione sulle aree in cui è presente l’edificio da demolire[13].

L’orientamento giurisprudenziale è stato fatto proprio dal legislatore di “Veneto 2050” il quale ha introdotto un definitivo chiarimento sull’individuazione delle aree rispetto alle quali poter operare altrove il recupero volumetrico o superficiario: deve cioè trattarsi di aree «dichiarate di pericolosità idraulica o idrogeologica molto elevata (P4) o elevata (P3) dai piano stralcio di bacino per l’assetto idrogeologico di cui al D.L. 11 giugno 1998 n. 180 “misure urgenti per la prevenzione del rischio idrogeologico ed a favore delle zone colpite da disastri franosi nella Regione Campania” convertito con modificazioni dalla legge 3 agosto 1998 n. 267».

La nuova legge non pare dunque (più) lasciar dubbi all’interpretazione, nel senso che non può trattarsi di aree per le quali la pericolosità (alta o molto alta) possa essere altrimenti attestata se non attraverso gli stessi “piani stralcio di bacino per l’assetto idrogeologico” previsti originariamente dal d.lgs. n. 267/1998 (c.d. “legge Sarno”) e adesso dall’art. 67 del d.lgs. n. 152 del 2006 (c.d. “codice dell’ambiente”): pare così preclusa, anche in linea con il richiamato orientamento giurisprudenziale, la possibilità che le “aree di pericolosità idraulica o idrogeologica” (alta o molto alta che sia) corrispondano a zone che magari altri strumenti – diversi dai piani stralcio – identifichino come “pericolose” in grado elevato dal punto di vista idraulico o idrogeologico[14], ma che tali non risultino per il piano stralcio previsto per il bacino in cui rientra la zona interessata.

La legge ha voluto così stabilire una diretta corrispondenza tra le effettive previsioni dei piani stralcio con le relative classificazioni delle aree secondo graduazioni o classi di “pericolosità” (identificate con la lettera “P”) e la facoltà di trasferire i volumi degli edifici: in definitiva, la norma di cui all’art. 9 sarà applicabile solamente in presenza di un edificio che il piano stralcio già inserisca in un ambito classificato o con la sigla “P3” (elevata pericolosità) oppure con quella “P4” (pericolosità molto elevata).

Sia l’art. 9 che l’art. 3 lett. g) della l.r. n. 14/2019 sembrano aver dunque risolto i problemi interpretativi dati dal previgente art. 3 quater del piano casa, eseguendo entrambi un diretto e univoco riferimento alle «aree dichiarate di pericolosità idraulica o idrogeologica molto elevata (P4) o elevata (P3) dai piano stralcio di bacino per l’assetto idrogeologico di cui al D.L. 11 giugno 1998 n. 180 “misure urgenti per la prevenzione del rischio idrogeologico ed a favore delle zone colpite da disastri franosi nella Regione Campania” convertito con modificazioni dalla legge 3 agosto 1998 n. 267» così che non può dubitarsi che l’ambito applicativo di entrambe le norme sia lo stesso, vale a dire quelle aree definite dai piani stralcio “di pericolosità idraulica o idrogeologica molto elevata (P4) o elevata (P3)”. Il riferimento testuale ai piani di cui alla Legge 267/1998 e altresì alla stessa classificazione di pericolosità “elevata” o “molto elevata”, con relative sigle “P3” e “P4”, da un lato vale ad assegnare all’inclusione nei piani stralcio funzione costitutiva del diritto al trasferimento degli edifici e, dall’altro, serve ad escludere tutte le altre aree, tra cui quelle di pericolosità “moderata” (P1) o “media” (P2) per le quali torna invece applicabile la previsione di cui al sesto e ultimo comma della norma in esame.

Occorre peraltro evidenziare che la nuova legge ha mantenuto all’art. 3 la previsione (già presente nell’art. 9 del piano casa) per la quale gli artt. 6 e 7 non si applicano alle aree di pericolosità idraulica o idrogeologica molto elevata (P4) o elevata (P3) “nelle quali non è consentita l’edificazione ai sensi del D. Lgs. 3 aprile 2006 n. 152”. Come si è visto, tale specificazione era stata utilizzata dalla giurisprudenza[15] attraverso una lettura coordinata con la norma sul trasferimento degli edifici, per affermare che l’istituto della delocalizzazione dei volumi presenti in aree di penalità idrogeologica o idraulica può trovare applicazione solo laddove le stesse aree siano appunto inedificabili: il dubbio peraltro non ha desso comunque più ragione d’esistere, perché per definizione gli ambiti P3 e P4 non possono ospitare nuove costruzioni né ampliamenti delle preesistenti.

4. L’area di trasferimento (“ricostruzione”) della volumetria. La premialità dell’incremento volumetrico o di superficie

Diversamente dal precedente art. 3 quater del “Piano Casa”, l’art. 9 della legge regionale “Veneto 2050” ha distinto due ipotesi (una generale e un’altra particolare) per l’individuazione delle aree destinate a recepire il trasferimento degli edifici siti in zone di elevata o molto elevata pericolosità: la distinzione è basata sulla destinazione d’uso degli edifici presenti nelle aree di pericolosità e rileva in quanto nell’ipotesi generale (a valere per tutti gli edifici) la “zona territoriale omogenea” nella quale far sorgere il nuovo edificio deve essere “propria”, altresì “non dichiarata di pericolosità idraulica o idrogeologica”, nonché “individuata a tale scopo (cioè della “ricostruzione” dell’edificio: n.d.r.) “dal consiglio comunale“.

Nell’ipotesi particolare degli edifici con destinazione d’uso residenziale, il secondo comma dell’art. 9 consente che la “ricostruzione di cui al comma 1” possa avvenire “anche in zona agricola, purché caratterizzata dalla presenza di un edificato già consolidato e sempre che l’area non sia oggetto di specifiche norme di tutela da parte degli strumenti urbanistici o territoriali che ne impediscano l’edificazione”.

Occorre porre immediatamente in evidenza un problema, di cui si dirà separatamente, relativo agli edifici residenziali per i quali la norma in commento ha previsto un apposito comma, il secondo, che peraltro richiama anche il primo comma: il quesito che si potrebbe porre è se la disciplina del trasferimento degli edifici residenziali rientri interamente e anch’essa nella fattispecie delineata dal primo comma (ipotesi che può essere definita quale “generale”) ovvero se trattasi di un’ipotesi affatto diversa (dunque del tutto “particolare”), sia per presupposti sostanziali che soprattutto per procedure applicative.

Prescindendo al momento dalla trattazione della questione relativa specificatamente agli edifici residenziali di cui al secondo comma della norma, si ritiene di dover commentare l’ipotesi di carattere generale di cui al primo comma.

Merita sottolineatura l’utilizzo innanzitutto della definizione di “zona territoriale omogenea” (altresì ZTO) che identifica un ambito urbanistico caratterizzato, all’interno degli specifici perimetri delle cartografie, da omogenee destinazioni di zona e modalità esecutive, da medesimi indici plano-volumetrici e da identici parametri edilizi: il tutto, normalmente tradotto in un’unitaria disciplina nelle norme tecniche attuative degli strumenti urbanistici.[16]

La definizione di “zona territoriale omogenea propria[17] restringe l’ambito di applicazione della norma dell’art. 9 a quelle aree che risultino compatibili con la destinazione d’uso: pare di poter dire, anche alla luce delle considerazioni che seguiranno, che non deve trattarsi di coincidenza di aree o di zone (cioè la zona di “atterraggio” delle volumetrie non deve avere la stessa caratteristica di zonizzazione di quella di “partenza” che potrebbe anche essere “impropria” rispetto all’edificio da trasferire e, si ricordi, da demolire nel sito originario) quanto di compatibilità della ZTO in cui è inserita l’area di arrivo o “ricostruzione” rispetto all’edificio che s’intende ricostruire con le relative volumetrie così trasferite.[18]

La norma si è preoccupata anche di specificare che l’area di destinazione delle volumetrie e superfici non deve corrispondere solamente ad una ZTO che sia “propria” ma che la stessa sia anche “individuata a tale scopo dal consiglio comunale”. In sostanza, per potersi dar luogo al trasferimento degli edifici, non basta l’individuazione di una zona territoriale urbanisticamente già idonea, dal punto di vista della disciplina vigente, a ricevere il nuovo edificio ma occorre anche un apposito provvedimento comunale di “individuazione” dell’area: tale attività è stata rimessa dalla nuova legge ad un’apposita determinazione del consiglio comunale.

Si pone, a questo proposito, il quesito di quale provvedimento consigliare possa trattarsi nella specie: infatti, dopo aver previsto che la zona debba essere appunto individuata dal consiglio comunale, la disposizione in commento prosegue riferendosi direttamente agli “incrementi fino al cento per cento del volume e della superficie” che sono previsti “anche in deroga ai parametri dello strumento urbanistico comunale”.

Orbene, par di poter escludere che la norma abbia voluto riferirsi al consiglio comunale come se lo stesso fosse chiamato ad approvare una variante urbanistica: infatti, in tal caso non avrebbe avuto senso la richiesta di una preventiva conformità che è evidentemente presupposta dalla previsione della “zona territoriale omogenea propria”; inoltre il consiglio comunale è chiamato a “individuare” la zona (evidentemente tra quelle già esistenti e astrattamente “proprie”) e non a modificarla, tranne per quei “parametri dello strumento urbanistico” necessari a consentire gli “incrementi sino al 100 per cento del volume o della superficie”.

La fattispecie della delocalizzazione di volumi e di superfici fuori dalle aree di elevata e molto elevata pericolosità può dunque esser ricostruita nel modo che segue: deve esistere un’area di destinazione delle volumetrie che dal punto di vista urbanistico (essenzialmente per quanto attiene alle destinazioni d’uso) sia già compatibile con il nuovo fabbricato e con le sue funzioni (in tal senso dovrebbe leggersi l’esigenza della ZTO “propria”); l’individuazione concreta dell’area, all’interno di quelle già esistenti e (astrattamente) compatibili, è affidata al consiglio comunale perché secondo la nuova legge trattasi evidentemente di un’operazione che potrebbe anche avere un’alta incidenza sugli assetti territoriali, sia nella specifica ZTO che pure al di là della stessa[19] e che dunque comporta un esercizio di alta discrezionalità (se non anche l’applicazione di una “sensibilità”, per così dire) non meramente e strettamente tecnica, involgenti considerazioni di opportunità sull’assetto urbanistico che il legislatore ha evidentemente voluto, in questo modo, ricondurre all’interno della “policy” territoriale affidata all’amministrazione comunale. Per tale ragione, il consiglio comunale individuando la zona appropriata, è chiamato anche a disporre la “deroga ai parametri dello strumento urbanistico”.

La norma è chiara nell’affermare che si tratta di una “deroga” e, appunto, non di una variante[20]: la zona territoriale resta disciplinata dalle norme proprie e originarie, laddove solamente il nuovo fabbricato (oggetto del trasferimento e dell’incremento planivolumetrico) potrà uscire dai parametri ordinari della ZTO, in via del tutto eccezionale (per favorire le finalità ultime della norma) e, appunto in deroga agli stessi.

Occorre peraltro qui evidenziare che a differenza di altri casi di deroga o di variante particolare[21] la norma in commento non delinea uno specifico procedimento entro il quale ricondurre l’attività del consiglio comunale, così che non trattandosi di variante in senso proprio, tornerà applicabile in via generale al caso della delocalizzazione delle volumetrie e delle superfici di cui trattasi il normale schema procedurale stabilito dall’autonomia statutaria e regolamentare dei municipi per le ordinarie deliberazioni, previa ovviamente l’istruttoria tecnica (che dovrà essere particolarmente curata e giustificata, sia nei presupposti che nell’analisi degli effetti) dalla quale la deliberazione consigliare non potrà comunque prescindere.

Stante il contenuto di alta discrezionalità affidato (pour cause) al consiglio, lo stesso organo potrà eventualmente stabilire particolari prescrizioni o limitazioni e potrà anche scendere al di sotto dei limiti del 100 per cento di premialità (infatti la norma recita “fino al 100 per cento”). In sintesi: il trasferimento potrà (ovviamente) avvenire senza necessità di alcuna “individuazione” e “deroga” da parte del consiglio e senza necessità di passare attraverso il consiglio stesso laddove vi sia esatta corrispondenza tra l’intervento edilizio proposto e la disciplina di zona[22]; la “deroga” sarà necessaria e possibile invece per tutti quei “parametri urbanistici[23] – che potrebbero consistere anche in altri elementi caratterizzanti, diversi da quelli di volume e di superficie, che costituiscono la “base” della valutazione[24] – strettamente necessari per consentire l’intervento edificatorio latamente inteso.

Peraltro, l’esigenza specificamente espressa della natura “propria” della zona territoriale prescelta per la ricostruzione, porta ovviamente ad escludere che possa trattarsi di ZTO con destinazione d’uso non compatibile.

Problema particolare potrebbe porsi per l’ipotesi – che potrebbe essere la più frequente – in cui il trasferimento e la nuova localizzazione siano chiesti con riferimento ad un’attività produttiva: in questi casi, fermi restando i poteri derogatori del consiglio non pare potersi discostare, per quanto attiene al procedimento, dalla disciplina appositamente stabilita dalla l.r. n. 55/2012 per gli interventi edilizi produttivi: disciplina che andrà opportunamente armonizzata, caso per caso, con il contenuto sostanziale (altresì premiante o incentivante, che dir si voglia) dell’art. 9 in commento.

Par di poter concludere dicendo che nel caso generale del trasferimento di edifici dalle aree P3 e P4 in altre aree comprese in ZTO comunque “proprie”, la valutazione andrà eseguita caso per caso e nel concreto, attraverso un apposito procedimento il cui esito passa attraverso una necessaria deliberazione del consiglio comunale, presupposta in ogni caso al provvedimento edilizio (permesso di costruire); quest’ultimo resterà affidato comunque al responsabile dell’ufficio comunale competente, sul modello in fondo del procedimento autorizzatorio tramite SUAP degli interventi edilizi produttivi.

5. Gli edifici residenziali

Come si è visto, il primo comma dell’art. 9 prevede che per potersi attuare un trasferimento di volumetria a partire da un’area a rischio elevato o molto elevato verso altra area, con premio volumetrico o planimetrico, occorre una corrispondenza urbanistica dei nuovi edifici e delle relative volumetrie o superfici trasferite, con la zona territoriale omogenea di nuova allocazione delle stesse. La corrispondenza, data dalla necessità che si tratti appunto di ZTO “propria” va valutata dal consiglio comunale anche in termini di “deroga” ai parametri urbanistici in ragione della premialità adesso prevista con incentivi sino al 100 per cento.

Il secondo comma della disposizione in esame sembra contemplare un’ipotesi tutt’affatto diversa dal primo comma, laddove pur riferendosi alla “ricostruzione di cui al comma 1” stabilisce che la stessa “è consentita anche in zona agricola”, aggiungendo quale ulteriore requisito positivo che la stessa sia “caratterizzata dalla presenza di un edificato già consolidato”. Parrebbe infatti, per la collocazione sistematica con apposito comma – il secondo – all’interno della norma e anche per il diretto riferimento alla “ricostruzione” senza altri richiami al contenuto del primo comma, nonché per lo specifico riferimento alla “zona agricola” caratterizzata da un “edificato già consolidato”, che nel caso degli edifici con destinazione residenziale il trasferimento non debba soggiacere alle altre previsioni generali del primo comma, così per il trasferimento (o ricostruzione) non sia sempre necessaria una zona territoriale omogenea propria, essendo idonea anche quella agricola e neppure l’individuazione da parte del consiglio comunale.

Parrebbe cioè possibile una lettura della norma secondo la quale gli edifici residenziali potrebbero essere trasferiti non solo (e certamente) all’interno delle aree edificabili “proprie” ma “anche” in zona agricola, con diretta applicazione della norma senza passare attraverso la deliberazione del consiglio comunale e senza premio incentivante (essendolo già, di per sé, la possibilità di collocare i volumi in zona rurale).

Del resto, la precedente normativa di cui all’art. 3 quater riferita specificamente agli “edifici a destinazione residenziale” e collocata anch’essa all’interno di un apposito comma, non aveva mai dato luogo a dubbi interpretativi sia quanto all’applicazione del premio volumetrico o superficiario, sia quanto all’autorizzabilità degli interventi attraverso un procedimento esclusivamente tecnico amministrativo, secondo quanto previsto dall’art. 20 del Testo Unico dell’Edilizia.

Peraltro, diverse considerazioni conducono invece a ritenere che la nuova legge contempli, anche per l’ipotesi del trasferimento degli edifici residenziali e diversamente dalla precedente, la stessa fattispecie sostanziale e procedimentale di cui al primo comma, estesa peraltro anche ad aree “non proprie” e in particolare alle aree agricole purché compatibili per la presenza di “edificato consolidato”. Militano, a favore di tale conclusione, gli argomenti che seguono.

Innanzitutto, il fatto che il primo comma della disposizione si riferisca in via generale (senza cioè prevedere alcuna esclusione) agli “edifici ricadenti nelle aree dichiarate di pericolosità” senza escludere qualsiasi ipotesi o destinazione d’uso e quindi riferendosi a tutti gli edifici colà presenti, inclusi anche quelli residenziali.

In secondo luogo, il fatto che la previsione della “ricostruzione” sia direttamente collegata alla “zona territoriale omogenea propria” altresì “individuata a tale scopo dal consiglio comunale”: così che il rinvio operato dal secondo comma alla “ricostruzione di cui al comma 1” non potrebbe che essere quella realizzata in zona “propria” altresì “individuata” dal consiglio, posto che oltre tutto il secondo comma non esegue in proposito alcuna distinzione.

Infine, il fatto che non avrebbe senso escludere dai benefici degli incrementi planivolumetrici gli edifici residenziali, così che essendo gli “incrementi fino al 100 per cento del volume o della superficie” (non direttamente richiamati dal secondo comma) possibili per il primo comma solamente per effetto dell’apposita individuazione da parte del consiglio comunale, s’impone necessariamente di applicare in toto lo stesso primo comma anche agli edifici con la destinazione di cui trattasi.

Si dovrebbe altrimenti ritenere che il trasferimento sia possibile – attraverso un ordinario procedimento di autorizzazione edilizia ex art. 20 del Testo Unico di cui al DPR 380/2001) in tutte le aree “proprie” ma senza incrementi premianti (in quanto non previsti dal comma in oggetto e subordinati dal primo comma all’individuazione del consiglio comunale) nonché nelle aree agricole di edificazione comunque consolidata: il che pare incongruo, poiché la deroga alla destinazione d’uso nel territorio rurale (corrispondente in definitiva al 100 per cento della volumetria trasferita) risulterebbe molto più ingiustificatamente premiante di una deroga in ZTO propria.

Unica distinzione data dal secondo comma dell’art. 9 rispetto agli altri edifici (cioè agli edifici con tutte le destinazioni diverse da quelle residenziali) è costituita dalla possibilità, già riconosciuta dalla precedente disciplina del piano casa, di collocare i volumi trasferiti e altresì aumentati della volumetria premiante fino al 100 anche in area agricola. Unica valutazione in tal caso consentita è quella relativa alle condizioni del tessuto urbanistico presente: se, cioè, si sia in presenza di un contesto che presenti già i caratteri di un “edificato già consolidato”, laddove non deve confondersi tale locuzione con quella degli “ambiti di urbanizzazione consolidata” così precisamente definiti alla lettera h) dell’art. 2 della legge, con riferimento agli ambiti di cui alla lett. e) del primo comma dell’art. 2 della legge regionale sul contenimento di consumo del suolo.

Come già precisato dalla circolare regionale applicativa del “piano casa ter”[25] deve trattarsi di “un’area caratterizzata dalla presenza di preesistenze insediative e relative opere di urbanizzazione“ tali da non rendere necessarie ulteriori infrastrutturazioni urbanistiche, quali ad esempio nuove strade (che non sia ovviamente la viabilità strettamente funzionale, interna o prossima al lotto di riferimento) o nuovi impianti o infrastrutture, al di là di quelli strettamente pertinenziali al nuovo edificio. Si tratterà, evidentemente, di una valutazione da compiere caso per caso, anch’essa di contenuto discrezionale fortemente caratterizzata sul lato tecnico, sia quanto alla presenza dell’edificato che quanto alla sufficienza delle infrastrutture già presenti.

In questo caso, peraltro, la valutazione consigliare appare maggiormente limitata – in termini di “policy” territoriale – di quella prevista per tutte le altre destinazioni d’uso di cui al primo comma, sia perché per le destinazioni residenziali la norma pare aver avuto una sorta di “favor” dedicando ad esse un apposito comma, sia perché la disposizione ha voluto espressamente considerare in questo caso anche le aree agricole[26], sia altresì perché l’unico limite “in positivo” è stato espressamente stabilito nella presenza di un “edificato consolidato” e sia, infine, perché il solo limite “in negativo” è quello dell’inesistenza di “specifiche norme di tutela da parte degli strumenti urbanistici o territoriali che ne impediscano l’edificazione”.

Non sarà cioè possibile che i consigli comunali introducano delle prescrizioni che non siano propriamente dirette ad assicurare le finalità volute dalla legge: da una lato favorire quanto più possibile le delocalizzazioni degli edifici residenziali (ma anche di quegli altri, con diverse destinazioni d’uso) in aree a rischio idraulico o idrogeologico e, dall’altro, evitare che ciò comporti consumo di suolo in aree agricole ancora intonse dal punto di vista urbanistico o non proprie dal punto di vista delle destinazioni d’uso. Non sarà pertanto consentito, nelle valutazioni consigliari, d’introdurre elementi estranei quali, ad esempio, eventuali obblighi di residenza o di “prima casa” ovvero vincoli d’inalienabilità temporanea et similia, che nulla potrebbero avere a che fare con la ratio e le finalità della norma in commento.[27]

Conclusivamente, anche per gli edifici a destinazione residenziale valgono le considerazioni più sopra eseguite in ordine alla necessità che per quanto concerne l’area di destinazione delle nuove volumetrie o superfici si tratti di zona territoriale omogenea propria (dunque, residenziale o compatibile con quella residenziale) oppure anche di zona agricola nella quale peraltro già vi sia un “edificato consolidato”, che il consiglio comunale dovrà comunque identificare, valutando le opportune deroghe ai parametri edilizi in guisa da consentire una ricostruzione con incremento sino al 100 per cento del volume e della superficie demoliti.

6. La demolizione dell’edificio e la rinaturalizzazione del suolo. Le garanzie e le sanzioni

Il terzo comma dell’art. 9 prevede che la demolizione dell’edificio da trasferire debba avvenire “entro tre mesi dall’agibilità degli edifici ricostruiti”: questa disposizione è sostanzialmente la stessa che era già presente nel comma 3 dell’art. 3 quater della precedente l.r. n. 14/2009 ai cui citati commenti si rinvia, mentre invece la novella ha introdotto la assai significativa previsione per la quale la demolizione “deve comportare la rinaturalizzazione del suolo”.

Che cosa s’intenda per “rinaturalizzazione del suolo” trova risposta nella lett. c) dell’art. 2 della legge regionale[28] che identifica una serie di operazioni, assi più complesse e più impegnative sia in termini di risorse che di tempo, della semplice demolizione.

Non a caso la norma, consapevole della complessità delle operazioni di cui trattasi, ha introdotto al quarto comma la previsione che “per l’esecuzione degli interventi di demolizione e rinaturalizzazione è prestata a favore del comune idonea garanzia”: previsione, questa, anch’essa assente nell’analoga disposizione del piano casa.

La novità, più che opportuna, si spiega proprio in ragione dell’innovazione costituita dalla previsione della “rinaturalizzazione” e, appunto, dall’evidenziata complessità delle relative operazioni che possono condurre anche alla bonifica ambientale dei siti.

È dunque evidente, come già accennato in precedenza, che la norma in commento si presenta con un doppio aspetto: da un lato la possibilità di recuperare e ampliare volume e superficie dell’edificio da trasferire e, dall’altro, la possibilità di demolire il preesistente edificio procedendo contemporaneamente alla rinaturalizzazione del sito.

La norma non prevede se il provvedimento finale che autorizza la “ricostruzione” debba contenere, in un unico contesto provvedimentale, anche l’autorizzazione alla demolizione e all’esecuzione delle altre opere necessarie per ridare consistenza “naturale” all’area: in effetti potrebbe anche trattarsi di provvedimenti materialmente distinti e separati temporalmente, poiché la demolizione non è prevista quale “condizione” del trasferimento, ma quale conseguenza dello stesso, addirittura neppure necessaria per consentire l’agibilità del nuovo edificio. Importante, per la disposizione regionale, è che tanto la demolizione quanto la rinaturalizzazione intervengano entro il termine di tre mesi dal rilascio dell’agibilità.

Il punto appare importante anche ai fini dell’applicazione delle conseguenze (di natura chiaramente sanzionatoria) previste dal terzo comma della disposizione in commento, con rinvio all’art. 31 del d.P.R. 380 del 2001 di cui si dirà immediatamente. Pare per intanto di poter affermare, stante appunto la previsione che la demolizione e la rinaturalizzazione debbano avvenire successivamente alla costruzione del nuovo edificio (o, anche, dei più edifici: pur sempre però nei limiti delle volumetrie e superfici incentivanti), che si tratti di due diverse autorizzazioni ognuna con propri effetti, ancorché le stesse risultino teleologicamente collegate.

Ovviamente, anche gli interventi di demolizione e soprattutto di ripristino dell’area allo stato naturale, dovranno prevedere al pari di quelli relativi alla ricostruzione, appositi studi e un’adeguata progettazione con corrispondente apparato tecnico costituito da tutti i relativi elaborati e riscontri grafici e documentali necessari anche al fine di consentire la verifica dell’effettiva attuazione di quanto obbligatoriamente previsto dalla legge (appunto la demolizione e la rinaturalizzazione dell’area), altresì entro il termine certo e stabilito direttamente dalla legge

Infatti, laddove ciò non avvenga, ossia qualora entro i tre mesi successivi all’agibilità non fossero esaurite le relative operazioni di rinaturalizzazione – evidentemente soggette come tutti gli interventi edilizi a dichiarazione di fine e regolare esecuzione delle opere, da parte del direttore dei lavori – le conseguenze previste dalla norma di cui trattasi appaiono di estrema gravità: si prevede invero che la mancata attuazione della demolizione con rinaturalizzazione del sito comporti l’applicazione delle disposizioni di cui all’art. 31 del d.P.R. 380/2001 (“Interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali Interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali”)[29].

La norma regionale non specifica peraltro quali siano le disposizioni dell’art. 31 che saranno concretamente applicabili: tra le stesse risulta peraltro significativa, ai fini che qui interessano, quella relativa all’acquisizione da parte dell’amministrazione comunale – per il caso d’inottemperanza all’ordine di ripristino – della proprietà delle aree interessate dall’abuso al fine di consentire alla stessa amministrazione di eseguire in via sostitutiva al soggetto obbligato l’attività necessaria per conformare il territorio al provvedimento di demolizione e di rinaturalizzazione[30].

Da quanto detto sopra in merito alla duplicità dei provvedimenti autorizzatori (di nuova costruzione l’uno e di demolizione e rinaturalizzazione, l’altro) che costituiscono l’istituto in questione, pare di poter affermare che l’eventuale inottemperanza al provvedimento ripristinatorio dell’area di pericolosità idrogeologica o idraulica, determini l’applicazione dell’art. 31 del d.P.R. 380/2001 solamente con riferimento all’attività ripristinatoria stessa, fermo restando che il nuovo edificio già costruito (e abitabile) – in quanto realizzato in conformità ai permessi ottenuti – non sarà suscettibile di alcuna sanzione o altro provvedimento che ne determini l’inabitabilità: anche per questa ragione, sarà attività fondamentale delle amministrazioni di stabilire garanzie quanto più idonee ad assicurare il risultato finale dell’istituto di cui trattasi, che resta pur sempre l’effettiva restituzione di una parte di territorio assai impropriamente costruita, alla sua conformazione naturale.

In questo senso e agli specifici fini costituiti proprio dall’eventualità che la rinaturalizzazione non venga eseguita (o non lo sia esattamente nei termini previsti dal provvedimento comunale) la garanzia prevista dalla norma dovrà intervenire per assicurare il risultato finale, indipendentemente dalla volontà dell’attuatore. La norma opportunamente non stabilisce quale garanzia sia dovuta, neppure se di ordine economico finanziario (ad esempio la fideiussione) o patrimoniale: il quarto comma si limita a prevedere che la garanzia debba essere “idonea” e dunque la stessa andrà rapportata alle concrete modalità di attuazione degli interventi ripristinatori della condizione “naturale” dei terreni, fermo restando che dovrà comunque trattarsi di garanzia facilmente e immediatamente escutibile, sufficiente comunque per coprire tutti gli eventuali costi, anche tecnici, cui il comune dovesse andare incontro per l’attuazione coattiva delle operazioni.

7. L’inapplicabilità degli artt. 6 e 7 della legge agli edifici ricostruiti perché trasferiti dalle aree di elevata o molto elevata pericolosità – L’applicazione altrimenti degli stessi artt. 6 e 7 per gli edifici ricadenti nelle aree di pericolosità idraulica moderata (P1) e media (P2)

La nuova norma al comma 5 ripete la previsione del precedente art. 3 quater del piano casa: la disposizione in commento prevede infatti che gli interventi che già hanno beneficiato delle disposizioni premianti specificamente previste per i trasferimenti dalle aree di pericolosità idraulica o idrogeologica (P3 e P4), non possano avvalersi degli ulteriori benefici relativi all’ampliamento e alla riqualificazione urbanistica di cui agli artt. 6 e 7 della legge.

La ratio dell’esclusione applicativa è sin troppo evidente e non paiono necessari ulteriori commenti al testo già chiaro della norma, meritando invece una specifica trattazione la previsione dell’ultimo comma dello stesso art. 9 per il quale “le disposizioni di cui agli articoli 6 e 7 si applicano agli edifici ricadenti nelle aree dichiarate di moderata e di media pericolosità idraulica o idrogeologica (P1 e P2)”.

Occorre precisare che il d.lgs. n. 152/2006 in materia di assetto idrogeologico e di formazione dei piani stralcio prevede che i PAI contengano delle norme per la gestione delle aree interessate dalle penalità edificatorie derivanti dai piani stessi. All’interno di tali norme i piani disciplinano anche gli interventi edilizi, per i quali vengono anche date – volta a volta – delle definizioni che non sempre corrispondono con le analoghe definizioni di cui alla legislazione urbanistica ed edilizia (segnatamente, nel caso, le definizioni di “manutenzione straordinaria”, “manutenzione ordinaria”, “restauro e risanamento consecutivo”, “ristrutturazione” o “nuova costruzione”). I piani, come altrove già detto, classificano il territorio in “classi di pericolosità ed elementi a rischio” laddove la pericolosità è distribuita con una gradazione a salire da “P1” sino a “P4”.

I piani stralcio che interessano la Regione Veneto possono avere ed effettivamente hanno delle norme di attuazione diverse: non è qui il caso di eseguire una specifica rassegna delle varie disposizioni dei vari PAI, osservandosi peraltro generalmente che i piani di cui trattasi prevedono nelle aree classificate a pericolosità media “P2”, solamente la possibilità di nuove aree di espansione per infrastrutture stradali, ferroviarie o di servizio che non contemplino la realizzazione di volumetrie edilizie; prevedono altresì nuove zone da destinare a parcheggi ma solo se imposti dagli standard urbanistici, oltre alla possibilità di piani di recupero e valorizzazione di complessi malghivi, stavoli o casere ma anche in questo caso senza aumento di volumetria diversa dall’adeguamento igienico e sanitario e/o di adeguamenti tecnico costruttivi e, infine, nuove zone per impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili, purché peraltro non diversamente localizzabili.

Non risulta dunque comprensibile come alle zone di cui trattasi possano concretamente applicarsi gli articoli 6 e 7 della legge in commento, laddove un ampliamento o addirittura una demolizione con ricostruzione, altresì con incrementi volumetrici di edifici preesistenti nell’area (diversi da quei pochi espressamente previsti dalle specifiche norme del PAI), costituirebbero un evidente contrasto con la disciplina dello stesso piano d’assetto idrogeologico.

Derivando i piani stralcio la propria forza direttamente dal d.lgs. n. 152/2006 (nonché dal d.l. n. 180/1998 convertito nella l. n. 267/1998), alle norme attuative degli stessi piani deve essere riconosciuta parimenti la forza propria delle disposizioni statuali da cui derivano: il che evidentemente determina (o potrebbe determinare) un notevole contrasto con la previsione della legge regionale in commento, contrasto che può essere eliminato solamente riconoscendo che le norme di cui agli artt. 6 e 7 (vale a dire la possibilità degli ampliamenti degli edifici esistenti, ovvero della demolizione e ricostruzione degli stessi, con incremento di volumetrie o di superfici) possono applicarsi in quei limitatissimi casi nei quali i piani stralcio già espressamente prevedano, con le relative condizioni di sicurezza colà previste, gli ampliamenti, le demolizioni e le ricostruzioni. Il tutto, va ribadito, con le cautele e le prescrizioni di sicurezza e di compatibilità idraulica o idrogeologica specificamente previste dai piani d’assetto dei bacini idrografici interessati.

Quanto precede vale anche per le aree di moderata pericolosità di cui alla sigla “P1” nelle quali peraltro normalmente gli specifici PAI consentono sia nuove costruzioni che mutamenti di destinazione d’uso e, in genere, gli interventi sul patrimonio edilizio esistente, comunque sempre nel rispetto dei criteri e delle indicazioni generali dei piani stralcio stessi.

In definitiva, la facoltà concessa dall’ultimo comma dell’art. 9, di applicazione delle disposizioni degli artt. 6 e 7 della nuova legge anche agli edifici ricadenti nelle aree di moderata e di media pericolosità idraulica o idrogeologica, tornerà concretamente applicabile solo laddove gli specifici piani stralcio d’assetto idrogeologico consentano le attività edilizie di ampliamento o di demolizione e ricostruzione con ampliamento: il che attualmente pare possibile solo nel caso di cui alle aree classificate con la sigla “P1”, laddove quelle di media pericolosità appaiono invece e attualmente non consentire né ampliamenti di edifici esistenti (salve le eccezionali ipotesi delle malghe, degli stavoli e delle casere) e tanto meno di demolizioni e ricostruzioni con ampliamento degli stessi.

[1] Cfr. E. Gaz, Il terzo piano casa del Veneto. Commentario alla legge regionale 8 luglio 2009 n. 14 in Corriere del Veneto, Padova 2013.

[2] La disposizione, inserita nel “Piano Casa” avente prevalente e dichiarata finalità di sostegno al vasto e fondamentale settore economico dell’edilizia aveva evidentemente la duplice funzione di incentivare da un lato l’eliminazione di edifici impropriamente realizzati all’interno di aree ad elevata pericolosità idraulica o idrogeologica e, dall’altro, di favorire anche in questo modo la ripresa del settore delle costruzioni, insieme – non ultimo – al rinnovo del patrimonio edilizio

[3] Oltre che E. Gaz, op. cit., anche S. Canal ha trattato il tema e commentato sia l’art. 3 quater della l.r. 14/2009 nonché la circolare regionale n. 1 del 13.11.2014 in Guida al Piano Casa, Padova 2015 e altresì l’art. 9 della stessa l.r. 14/2009 in Guida al Piano Casa del Veneto, Padova 2010 ma cfr. anche Tutela dei corpi idrici e uso del territorio, in www.amministrativistiveneti.it

[4] Per la precisione “edifici” altresì “ricadenti nella aree dichiarate di pericolosità …” al primo comma e poi ancora “edifici” oppure in un caso (3° comma) “edificio”.

[5] Nemmeno nella norma di cui all’art. 2 della legge regionale 14/2019 dedicata alle “definizioni” vi è alcun riscontro della nozione di “edificio”.

[6] Neppure nella parte “edilizia” del T.U. di cui al d.P.R. n. 380/2001 è presente la definizione di “edificio”, termine che ricorre invece nella parte dedicata agli aspetti sismici e strutturali senza comunque dare neppure lì, della stessa, una precisa definizione.

[7] Poiché la definizione di “costruzione” si estende “a qualsiasi manufatto non completamente interrato che abbia i caratteri della solidità, stabilità e immobilizzazione al suolo, anche mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso ad un corpo di fabbrica preesistente o contestualmente realizzato, indipendentemente dal livello di posa e di elevazioni dell’opera” (Cons. Stato sez. IV, 2 marzo 2018, n.1309)

[8] Cons. Stato, sez. VI, 3 dicembre 2018, n.6841 che precisa anche che se “sono necessarie le tamponature esterne, a maggior ragione diventa essenziale l’esistenza di una copertura che ha, dal punto di vista della sagoma e del volume, la funzione di definire le dimensioni dell’intervento realizzato e, dal punto di vista costruttivo, lo scopo di rendere conto della compiutezza della realizzazione stessa”. Va ricordato peraltro che il legislatore veneto ha previsto, con l’art. 5 della legge n. 18/2006, la possibilità per le zone agricole dei territori montani della «ricostruzione, con la volumetria originaria, dei fabbricati crollati nel caso in cui esistano sul terreno i muri perimetrali che consentano di individuarne il sedime e ciò sia riscontrabile nelle cartografie edilizie depositate presso gli enti competenti, corredate da documentazione fotografica o iconografica».

[9] Cfr. TAR Veneto, sez. II, 21 giugno 2018, n. 664, che dà atto della natura del tutto eccezionale della disposizione di cui al precedente art 3 quater del c.d. “piano casa ter” nella quale – come si esprime la sentenza – “l’incentivo di carattere premiale previsto dal legislatore comporta infatti un consistente sacrificio per gli interessi pubblici coinvolti nella pianificazione urbanistica e cristallizzati nello strumento urbanistico”.

[10] Così S. Canal, tutela dei corpi idrici e uso del territorio in www.amministrativistiveneti.it

[11] Così E. Gaz, op. ult. cit.

[12] Cfr. TAR Veneto, sez. II, 21 giugno 2018, n. 664.

[13] La sentenza, tra l’altro, ha precisato che il sacrificio degli interessi pubblici coinvolti nella pianificazione urbanistica (tra i quali la “deroga ai parametri fissati dallo strumento urbanistico generale“ anche “in caso di saturazione dell’indice di zona” e addirittura “in caso di edifici residenziali, anche in zona agricola”) trova “adeguata giustificazione, limite e bilanciamento nell’interesse volto a eliminare i fattori di rischio dovuti alla presenza di edifici presenti in aree dichiarate ad alta pericolosità idrogeologica”.

[14] Ad esempio, gli stessi strumenti urbanistici, quale il PTCP (cfr. l’art. 22 lett. c della l.r. 11/2004 per il quale il PTCP “definisce gli aspetti relativi alla difesa del suolo e alla sicurezza degli insediamenti determinando, con particolare riferimento al rischio geologico, idraulico e idrogeologico e alla salvaguardia delle risorse del territorio, le condizioni di fragilità ambientale”) o il PRG sia nel PAT che nei PI (cfr. art. 13, lett. b l.r. 11/2004).

[15] Cfr. TAR Veneto, sez. II, 21 giugno 2018, n. 664

[16] Cfr. l’art. 17, ultimi due commi della Legge 6 agosto 1967, n. 765 (c.d. “legge ponte”) e il d.m. 2 aprile 1968, n. 1444 e, nel Veneto, l’art. 17 della l.r. n. 11/2004 che assegna la funzione della formazione delle ZTO al Piano degli Interventi, second i criteri dettati dalla circolare di cui all’art. 50, co. 1, lett. b) della stessa legge.

[17] Analogamente a quanto contenuto nel precedente art. 7, settimo comma, della stessa l.r. n. 14/2019.

[18] Sul punto, opportuno appare il rinvio all’apposito commento relativo agli “interventi di riqualificazione” di cui all’art. 7 della legge, con l’avvertenza che nel caso dell’art. 9 la norma non ha ripetuto la previsione, presente nell’art. 7, secondo la quale “qualora l’edificio da demolire si trovi in zona territoriale impropria, purché diversa dalla zona agricola, il Comune può autorizzare il cambio di destinazione d’uso per l’edificio ricostruito, a condizione che la nuova destinazione sia consentita dalla disciplina edilizia della zona” stante il fatto che in questo caso l’edificio non viene trasferito e resta, pur “riqualificato” in sito.

[19] Nel caso degli edifici diversi da quelli residenziali si è spesso in presenza di volumetrie e di superfici importanti (ad esempio nel caso di uno stabilimento industriale o di un deposito o magazzino, oppure di un’attività commerciale e così via) nonché di funzioni e di destinazioni d’uso particolari (soprattutto nel caso delle destinazioni per attività produttive, spesso “insalubri” o necessitanti di impianti particolari).

[20] Laddove la legge ha voluto prevedere una “deroga” ha precisamente utilizzato tale termine (cfr. l’art. 3 della l.r. n. 55/2012 sullo sportello unico per le attività produttive) e così laddove ha ritenuto di configurare una “variante” (art. 4 della stessa legge regionale).

[21] Ad esempio, nel caso della cit. l.r. n. 55/2012, per i procedimenti SUAP in deroga e in variante allo strumento urbanistico.

[22] In tal caso trattandosi di un intervento ordinario “generato” dalle capacità urbanistiche intrinseche della ZTO interessata (presenza di disponibilità planivolumetrica, corrispondenza di destinazioni d’uso e degli altri parametri).

[23] La norma si riferisce invero a una “deroga ai parametri dello strumento urbanistico” senza specificare quali “parametri”, peraltro evidentemente finalizzati a consentire gli “incrementi fino al 100 per cento”.

[24] Ovverosia, laddove l’incremento planivolumetrico determinasse la necessità o l’opportunità, valutata dal consiglio, ad esempio di una deroga alle altezze, questa sarà egualmente possibile (se congruamente valutata e giustificata anche sul piano tecnico e dei suoi effetti). Più complessa l’ipotesi delle deroghe alle distanze, in particolare quelle relative ai confini, esclusa ovviamente la derogabilità della norma di cui all’art. 9 del d.m. n. 1444/1968 sul distacco tra edifici.

[25] Cfr. sub art. 3 quater della Circolare n. 1 del 13 novembre 2014 in BUR n. 111 del 20 novembre 2014.

[26] Evidentemente ritenendo maggiormente meritevoli d’incentivo le delocalizzazioni delle abitazioni e degli stessi abitanti dalle aree a rischio.

[27] Si rende evidente che la scelta legislativa di “passare” attraverso l’individuazione delle aree e delle deroghe da parte dei consigli comunali, rende assai possibile la formazione di provvedimenti caratterizzati da elementi estranei all’ambito della stretta applicazione della norma, ragione per la quale si ritiene fondamentale che le decisioni consigliari siano precedute da adeguate istruttorie tecniche, complete nell’analisi dello stato di fatto, degli effetti e anche delle positività oltre che delle negatività degli interventi che saranno proposti dagli interessati.

[28] Testualmente: “rinaturalizzazione del suolo: intervento di restituzione di un terreno antropizzato alle condizioni naturali o seminaturali di cui alla lettera a), del comma 1, dell’articolo 2, della legge regionale 6 giugno 2017, n. 14, attraverso la demolizione di edifici e superfici che hanno reso un’area impermeabile, ripristinando le naturali condizioni di permeabilità, ed effettuando le eventuali operazioni di bonifica ambientale; la superficie così ripristinata deve consentire il naturale deflusso delle acque meteoriche e, ove possibile, di raggiungere la falda acquifera”.

[29] Pare opportuno, per rendere evidente la portata del richiamo, trascrivere la disposizione di cui all’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001 il quale prevede, al primo comma, che sono “interventi eseguiti in totale difformità dal permesso di costruire quelli che comportano la realizzazione di un organismo edilizio integralmente diverso per caratteristiche tipologiche, planivolumetriche o di utilizzazione da quello oggetto del permesso stesso, ovvero l’esecuzione di volumi edilizi oltre i limiti indicati nel progetto e tali da costituire un organismo edilizio o parte di esso con specifica rilevanza ed autonomamente utilizzabile”. Laddove i successivi commi così dispongono per l’ipotesi di abusi:

“2. Il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale, accertata l’esecuzione di interventi in assenza di permesso, in totale difformità dal medesimo, ovvero con variazioni essenziali, determinate ai sensi dell’articolo 32, ingiunge al proprietario e al responsabile dell’abuso la rimozione o la demolizione, indicando nel provvedimento l’area che viene acquisita di diritto, ai sensi del comma 3.

  1. Se il responsabile dell’abuso non provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta giorni dall’ingiunzione, il bene e l’area di sedime, nonché quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive sono acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio del comune. L’area acquisita non può comunque essere superiore a dieci volte la complessiva superficie utile abusivamente costruita.
  2. L’accertamento dell’inottemperanza alla ingiunzione a demolire, nel termine di cui al comma 3, previa notifica all’interessato, costituisce titolo per l’immissione nel possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari, che deve essere eseguita gratuitamente.
  3. L’opera acquisita è demolita con ordinanza del dirigente o del responsabile del competente ufficio comunale a spese dei responsabili dell’abuso, salvo che con deliberazione consiliare non si dichiari l’esistenza di prevalenti interessi pubblici e sempre che l’opera non contrasti con rilevanti interessi urbanistici o ambientali.
  4. Per gli interventi abusivamente eseguiti su terreni sottoposti, in base a leggi statali o regionali, a vincolo di inedificabilità, l’acquisizione gratuita, nel caso di inottemperanza all’ingiunzione di demolizione, si verifica di diritto a favore delle amministrazioni cui compete la vigilanza sull’osservanza del vincolo. Tali amministrazioni provvedono alla demolizione delle opere abusive ed al ripristino dello stato dei luoghi a spese dei responsabili dell’abuso. Nella ipotesi di concorso dei vincoli, l’acquisizione si verifica a favore del patrimonio del comune.
  5. Il segretario comunale redige e pubblica mensilmente, mediante affissione nell’albo comunale, i dati relativi agli immobili e alle opere realizzati abusivamente, oggetto dei rapporti degli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria e delle relative ordinanze di sospensione e trasmette i dati anzidetti all’autorità giudiziaria competente, al presidente della giunta regionale e, tramite l’ufficio territoriale del governo, al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti.
  6. In caso d’inerzia, protrattasi per quindici giorni dalla data di constatazione della inosservanza delle disposizioni di cui al comma 1 dell’articolo 27, ovvero protrattasi oltre il termine stabilito dal comma 3 del medesimo articolo 27, il competente organo regionale, nei successivi trenta giorni, adotta i provvedimenti eventualmente necessari dandone contestuale comunicazione alla competente autorità giudiziaria ai fini dell’esercizio dell’azione penale.
  7. Per le opere abusive di cui al presente articolo, il giudice, con la sentenza di condanna per il reato di cui all’articolo 44, ordina la demolizione delle opere stesse se ancora non sia stata altrimenti eseguita.

9-bis. Le disposizioni del presente articolo si applicano anche agli interventi edilizi di cui all’articolo 22, comma 3.”

[30] Si potrebbe porre il quesito, si ritiene non banale e neppure indifferente, se il richiamo fatto dal legislatore regionale per i casi della mancata demolizione e rinaturalizzazione, alla norma statale prevista per le ipotesi precisamente definite dallo stesso art. 31 del T.U per l’Edilizia, sia pertinente ed efficace ad assicurare gli effetti in ipotesi voluti dallo stesso legislatore regionale con il rinvio legislativo, dovendosi valutare se la mancata (o imperfetta) esecuzione degli interventi corrisponda effettivamente ai casi di cui alla norma statale richiamata, avente carattere eminentemente sanzionatorio anche di natura penale: non appartiene peraltro alla trattazione propria di questo commento siffatta valutazione, rinviata comunque ad eventuali auspicati successivi approfondimenti.

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